Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10807 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10807 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20456/2021R.G., proposto da
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione , in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME domiciliato ex lege come da indirizzo pec indicato,
-controricorrente – per la cassazione della sentenza n. 1595/2021 della CORTE d’APPELLO di Napoli pubblicata il 4.5.2021;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 21.1.2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pubblicata il 27.6.2014 il Tribunale di Torre Annunziata decidendo a seguito di disposta riunione di tre giudizi di sfratto per il rilascio
Locazione -Obbligazioni del locatore -Regolarità edilizia Inidoneità dell’immobile locato -Sospensione del canone -Fattispecie
ad. 21.01.2025
dell’immobile, sito in Vico Equense (NA), INDIRIZZO locato per uso commerciale in data 5.2.2003 da NOME NOME a RAGIONE_SOCIALE, promossi dal primo, nonché dei due giudizi di opposizione ai decreti ingiuntivi n. 129/2003 e n. 28/2004 ottenuti dal locatore in danno della seconda, e del giudizio da questa introdotto ai sensi dell’art. 447 -bis c.p.c. per ottenere l’annullamento per dolo del contratto e la risoluzione per grave inadempimento del locatore – rigettò le domande proposte dalla conduttrice di annullamento per dolo e risoluzione del contratto per grave inadempimento del locatore; accolse la domanda di risoluzione per grave inadempimento della conduttrice proposta dal locatore; revocò il decreto ingiuntivo n. 129/2003 (R.G. 872/2003) e condannò la conduttrice al pagamento di euro 4.500; rigettò l’opposizione al decreto ingiuntivo n. 28/2004 (R.G. 313/2004); condannò la conduttrice al pagamento delle spese di lite.
La Corte d’Appello di Napoli con sentenza pubblicata il 4.5.2021 rigettò l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, gravandola delle spese del grado.
Osservò la Corte d’appello , in risposta ai primi due motivi di appello con i quali si lamentava la violazione del principio dell’onere della prova in materia di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive e di verifica del carattere abusivo del bene locato, che quest’ultimo era costituito da locale composto da piano terra e seminterrato, meglio individuato nella planimetria allegata e che nel l’art. 3 si dava atto che la conduttrice aveva visionato l’immobile e lo aveva trovato idoneo all’esercizio dell’attività commerciale alla quale intendeva adibirlo.
L a Corte d’appello richiamò il principio di diritto in base al quale grava sul conduttore l’onere di assicurars i che il locale oggetto di locazione sia idoneo allo svolgimento dell ‘ attività che intende esercitare, non potendo il locatore, salva specifica pattuizione, essere responsabile per il mancato rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative. Per contro, il locatore è tenuto a garantire che il bene sia in regola sul piano edilizio, ossia che sia stato edificato sulla base di un idoneo titolo abilitativo, e che abbia una determinata destinazione di carattere generale. Viceversa, solo la specifica pattuizione in ordine ad una determinata
destinazione, tale da richiedere una particolare conformazione ed il rilascio di specifiche licenze amministrative , avrebbe potuto rilevare nell’ambito dell’obbligo a carico del locatore di consentire il pacifico godimento.
Tanto premesso, la Corte d’appello notò che ricadeva sull’appellante l’onere di fornire la prova tanto in relazione all’abusività di una parte del locale (nella specie, il piano seminterrato), quanto del mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività da svolgere nel locale. Tale stat uizione determinava l’assorbimento del terzo , del sesto e dell’ottavo motivo (rispettivamente, violazione della L.R. 35/1987, della L. 47/1985 e del d.p.r. 380/2001; violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in ordine alla necessità di eseguire dei lavori in un locale in parte abusivo; violazione degli artt. 1453, 1455 e 1460 cod. civ.), tanto più che era incontestato che successivamente il locale era stato locato ad altra società gerente una sala giochi.
La Corte d’appello, disattesi il quarto ed il quinto motivo d’appello vertenti in ordine a quanto affermato dal locatore in altro giudizio che lo vedeva opposto all’impresa esecutrice de i lavori nel medesimo locale ed al governo della fase istruttoria in primo grado, in relazione al settimo motivo, con cui si censurava l’omesso esame della domanda di indennizzo ex art. 2041 cod. civ., richiamato il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento, evidenziò che gli artt. 4 e 7 del contratto prevedevano che una parte dei lavori sarebbe stata eseguita dal conduttore, il quale aveva rinunciato espressamente all’indenn ità per perdita dell’avviamento commerciale , accettando altresì che al momento del rilascio non avrebbe potuto reclamare alcun rimborso per opere e/o migliorie.
Per la cassazione della sentenza della corte partenopea ricorre RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, sulla base di otto motivi. Risponde con controricorso NOME COGNOME
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte. Entrambe le parti hanno depositato memoria
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2967, 1218 e 1460 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ.
La ricorrente lamenta l’erronea applicazione del criterio di riparto dell’onere della prova per aver la Corte d’appello gravato il conduttore, che agiva per la risoluzione del contratto e quale convenuto – nei giudizi di sfratto e attore in senso formale in quelli ex art. 645 cod. proc. civ. aveva sollevato l’eccezione di inadempimento, della prova del l’inadempimento del locatore riguardo al l’abusività del bene locato e al mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative. Diversamente, a fronte sia dell’azione di risoluzione per inadempimento proposta, sia dell’eccezione ex art. 1460 cod. civ., sarebbe gravata sul locatore la prova della ‘legittimità urbanistica del locale’ e della sua utilizzabilità a fini commerciali.
1.2. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4. cod. proc. civ.
La ricorrente ha lamentato la violazione della norma sull ‘onere della prova , assumendo che, una volta proposta la domanda di risoluzione per inadempimento e, specularmente, sollevata l’eccezione ex art. 1460 cod. civ., là dove convenut a dal locatore in risoluzione, non sarebbe stata tenuta a fornire la prova dell’inadempimento del locatore . In particolare, la ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia sostenuto che ricadeva sull’appellante l’onere della prova in relazione sia all’abusività di parte del locale condotto, sia al mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative.
La ricorrente ha impugnato esclusivamente quanto si legge nella motivazione della sentenza a pagina 9 (terzo capoverso): ‘ alla stregua dell’art. 2697 c.c. ricadeva sulla società conduttrice, oggi appellante, fornire riscontro probatorio sia in relazione all’abusività di parte del locale condotto in locazione sia del mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento dell ‘attività commerciale/imprenditoriale che si intendeva svolgere nei locali condotti in locazione’ . Si tratta solo di una piccola
parte della motivazione costituente la conclusione di ben quattro pagine e mezzo precedenti, con le quali parte ricorrente non si confronta in alcun modo. Questo evidenzia l’inammissibilità del motivo, che prescinde dall’effettività della motivazione.
La ricorrente non si è confrontata con l ‘intera ratio decidendi enunciata dalla Corte d’appello, di qui l’inammissibilità del motivo svolto, giusta il principio di diritto consolidato affermato da Cass. n. 359 del 2005 (Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ.), ribadito, ex multis , da Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017; da ultimo da Cass. n. 1341 del 2024.
Infatti, la Corte d’appello , premesso che i locali erano stati visionati dalla conduttrice e dichiarati idonei all’esercizio dell’attività commerciale e che nel contratto non era stato previsto alcun obbligo a carico del locatore sulla possibilità di rilascio delle autorizzazioni per lo svolgimento dell’attività commerciale, ha richiamato il principio di diritto secondo cui: ‘ Nei contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, grava sul conduttore l’onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività che egli intende esercitarvi, nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative; ne consegue che, ove il conduttore non
riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore, e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle caratteristiche proprie del bene locato; la destinazione particolare dell’immobile, tale da richiedere che lo stesso sia dotato di precise caratteristiche e che attenga specifiche licenze amministrative, diventa rilevante, quale condizione di efficacia, quale elemento presupposto o, infine, quale contenuto dell’obbligo assunto dal locatore nella garanzia di pacifico godimento dell’immobile in relazione all’uso convenuto, solo se abbia formato oggetto di specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera enunciazione, in contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso e l’attestazione del riconoscimento dell’idoneità dell’immobile da parte del conduttore ‘ (v. Cass., 25 gennaio 2011, n. 1375. Orientamento ribadito da Cass. 14 agosto 2014, n. 17986; 7 giugno 2018, n. 14731; 22 maggio 2023, n. 14067).
La Corte d’appello, inoltre, ha esposto che ‘Il principio secondo il quale, stipulato un contratto di locazione di un immobile destinato ad un determinato uso (nella specie, commerciale), grava sul conduttore l’onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività ripromessasi, ed altresì adeguate a quanto necessario per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative non osta a che le parti possano dedurre in condizione, (ovvero convenire come espressa obbligazione del locatore) tanto la effettiva possibilità di apportare all’immobile le necessarie modificazioni per poter svolgere l’attività prevista, quanto il fatto che esso presenti (o sia in potenziale condizione) di acquisire le pertinenti condizioni giuridiche funzionali al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative’ (v. Cass. 8 marzo 2002, n. 3441. Principio di diritto poi ribadito da Cass. 9 giugno 2010, n. 13841; 16 giugno 2014, n. 13651; 14 marzo 2018, n. 6123; 20 agosto 2018, n. 20796).
La ricorrente, senza descrivere compiutamente se ed in quale misura il preteso inadempimento per il riferito carattere abusivo abbia inciso sulla facoltà di godimento del bene, avendo tra l’altro riportato un passaggio della relazione di C.T.U. dell’ing. COGNOME nella quale si legge che i locali erano ‘completi per
quanto riguarda le opere murarie, ma si presentavano alquanto incompleti sotto il profilo impiantistico …’ e, quindi, se sussistevano provvedimenti amministrativi inibenti la prosecuzione delle opere ed il godimento del bene (tali, invece, sono le fattispecie trattate da Cass. 29 gennaio 2021, n. 2154 e da Cass. 12 aprile 2023, n. 9766 invocate dalla ricorrente ), non si è fatta carico di investire l’intera ratio decidendi espressa dalla corte. Di qui, l’inammissibilità del motivo per difetto di specificità.
Deve essere in ogni caso ribadito che , per l’ipotesi di natura abusiva dell’immobile, può individuarsi un eventuale inadempimento del locatore solo qualora il carattere abusivo dell’immobile concesso in godimento abbia in qualche misura inciso su un qualche concreto profilo di interesse del conduttore (v. Cass., sez. III, 21 agosto 2020, n. 17557), con la precisazione che finché nessuna limitazione, contestazione o turbativa del godimento abbia condizionato la sfera del conduttore, spetta a quest’ultimo allegare e fornire la prova del concreto pregiudizio subito per effetto di tale particolare caratteristica giuridica del bene, dovendosi escludere l’inadempimento del locatore, in ragione della mera circostanza, in sé, del carattere abusivo dell’immobile locato, non costituente, in quanto tale, un pregiudizio in re ipsa per il conduttore (v. Cass 12 aprile 2023, n. 9766, relativa ad una vicenda nella quale era intervenuta la chiusura del locale in ragione delle irregolarità urbanistiche riscontrate a seguito della comunicazione inviata dalla conduttrice ai competenti uffici amministrativi per l’esecuzione dei lavori di adeguamento ed ammodernamento dei locali).
Con il secondo motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1575, 1453 e 1460 cod. civ.
La ricorrente contesta la ritenuta necessità di prova a suo carico del mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative allo svolgimento dell’attività commerciale/imprenditoriale che intendeva svolgere nei locali condotti in locazione , ‘posto che la carenza del titolo edilizio relativamente alla res locata aveva condizionato negativamente l’esito della fase dello svolgimento del rapporto contrattuale che si poneva logicamente e cronologicamente a monte rispetto a quella in cui sarebbe venuto in rilievo il rilascio o meno delle dette
autorizzazioni’ . Al momento della stipula del contratto il piano seminterrato era allo stato rustico e richiedeva di essere completato, il cui onere era stato assunto dalla conduttrice, al netto di un contributo da parte del locatore. Sennonché, per essere i locali sforniti di un titolo edilizio , l’attività di completamento si sarebbe configurata come illecito a carico della conduttrice e, quindi, aveva sospeso i lavori , per non aggravare le conseguenze dell’inadempimento del locat ore, sul quale gravava l’obbligo di rendere il bene idoneo all’uso.
Di qui l’erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di inadempimento operata dalla Corte d’appello nel richiamare il dictum di Cass. 15377/2016 : l’inadempimento non derivava dal mancato rilascio di autorizzazioni amministrative, ma dal mancato adempimento degli obblighi gravanti sul locatore ai sensi dell’art. 1575 cod. civ.
2.1. Il motivo è inammissibil e ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. posto che, anche in questo caso non attinge la ratio decidendi enunciata al paragrafo 1.2.
Anche a volere prescindere dalla mancata indicazione, sia pur sommaria, delle difese esposte nei diversi procedimenti di primo grado poi riuniti al fine di comprendere la doverosa allegazione del lamentato inadempimento, aspetto rilevante ai sensi dell’art. art. 366, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., il motivo in esame risulta privo di specificità ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. là dove non enuncia una censura chiara ed univoca rispetto alla sentenza di secondo grado con relativa indicazione delle norme violate. L’esposizione del motivo non contiene l’illustrazione del modo in cui il giudice di merito avrebbe violato o falsamente applicato le numerose norme di legge indicate nell’intestazione, nessuna delle quali , fatta eccezione per la generica indicazione dell’art. 1575, n. 1., cod. civ. (attinente all’obbligo di consegna del bene locato in buono stato di manutenzione), viene evocata direttamente od indirettamente in modo percepibile.
Secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., deve
essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313). In altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle. Compito, quest’ultimo, al quale il ricorrente non ha ottemperato non formulando in modo debito una censura della motivazione in relazione allo sviluppo argomentativo legato alla pretesa violazione dell’art. 1575, n. 1, cod. civ.
Il motivo, pur rubricato come violazione e falsa applicazione di norme di legge, nasconde in realtà contestazioni di merito in ordine alle valutazioni condotte dalla corte di merito e quindi si sostanzia in censure in fatto sulla motivazione del provvedimento, senza tener conto degli strettissimi limiti in cui è consentito dedurre in cassazione il vizio della motivazione. Infatti, il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (v. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043, 6257, 9429 e 10712 del 2024).
Conclusivamente, il motivo non illustra direttamente la violazione delle norme evocate, ma la postula all’esito della sollecitazione alla rivalutazione di una
serie di emergenze probatorie e dunque della ricostruzione della quaestio facti , che, nella vigenza dell’attuale n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non è consentita , poiché la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito non è sindacabile in sede di legittimità, se non quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (V. Cass., Sez. 6 – 3, 9 giugno 2014, n. 12928; sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053/8054). Ipotesi non ricorrenti nel caso di specie.
Con il terzo motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ‘ovvero dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c.’.
La ricorrente prospetta in via alternativa la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ. da parte della Corte d’appello, là dove nell’esame del carattere abusivo de i locali seminterrati non ha fatto riferimento alla ‘questione ed all a causa del mancato completamento dei lavori edili atti a rendere fruibile l’immobile, svolgendo argomentazioni che attengono tutte esclusivamente al tema del conseguimento delle autorizzazioni amministrative allo svolgimento dell’attività’.
3.1. Il motivo è infondato.
L’ illustrazione si articola riproducendo il contenuto di un non meglio individuato motivo di appello, corrispondente -per come si dice – alle pagine 2023 e, quindi, adducendo che la sentenza ‘ nel riesaminare la questione del carattere abusivo dei locali seminterrati, non fa il benché minimo riferimento alla questione e alle cause del mancato completamento dei lavori atti a rendere fruibile l’immobile, svolgendo argomentazioni, che attengono tutte esclusivamente al tema del conseguimento delle autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento dell’attività . Risultano così essere stati dalla Corte d’appello, in violazione dell’art. 112 c.p.c., modificati, ovvero, non esaminati, i fatti addotti a sostegno della domanda di risoluzione contrattuale e dell’eccezione
di inadempimento ‘ . Quindi si fa riferimento ad una serie di emergenze del giudizio che integrerebbero i fatti.
Il motivo in tal modo si colloca al di fuori del vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c., che riguarda l’omessa pronuncia su domande (e in appello su un motivo di appello) o eccezioni e, quindi, soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (v. Cass., sez. II, 26 gennaio 2021, n. 1616).
3.2. In secondo luogo, il dedotto vizio di motivazione si espone ad un rilievo di inammissibilità, in quanto si fa riferimento all’appello , sì che si basa su elementi aliunde .
Se lo si qualificasse ai sensi dell’art. dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ. , l’assenza di confronto con la motivazione evidenzierebbe l’assoluta carenza di decisività della ipotizzata considerazione dei detti fatti, non senza rilevare che si omette di fornirne l’indicazione specifica ex art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ.
Ad ogni modo, la censura svolta inclina verso un riesame delle ragioni enunciate, non considerando, come già sopra esposto, che la Corte d’appello si è occupata espressamente della questione afferente alla condizione dei beni locati ed alla perimetrazione degli obblighi a carico del locatore circa la destinazione generale del bene, spettando al conduttore verificare che le caratteristiche di esso siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività divisata, fermo restando che la motivazione resa appare congrua, in quanto rende percepibile il percorso logico alla base della decisione.
Con il quarto motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 111, comma sesto, Cost. dell’art.132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ. : ‘contraddittorietà della motivazione’.
La ricorrente contesta l’irriducibile contraddittorietà della motivazione svolta da lla Corte d’appello, posto che da un lato riporta che ‘nell’autunno del 2003 durante i lavori di ristrutturazione intrapresi dalla conduttrice e prima di impiantare nel locale qualsiasi attività commerciale, apprendeva che una parte dei locali poteva essere abusiva ‘ (pagina due, righe 17 -20), dall’altro ha poi
affermato che ricadeva sulla conduttrice l’onere di fornire il riscontro ‘del mancato rilascio definitivo delle autorizzazioni amministrative necessarie allo svolgimento dell’attività commerciale/imprenditoriale che si intendeva svolgere nei locali condotti in locazione’ (pag. 10, terzo paragrafo).
4.1. Il motivo è inammissibile.
La doglianza si colloca fuori dal perimetro segnato dalle Sezioni Unite di questa Corte in termini di riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione; pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione»’ (cfr. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054; Cass., sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940; Sez. VI-3, 25 settembre 2018, n. 22598; sez. I, 3 marzo 2022, n. 7090).
La ricorrente a fondamento del ventilato irriducibile contrasto di proposizioni non considera che la prima frase riportata a pagina 2 della sentenza, non integra motivazione, ma è l’esposizione di quanto dedotto dalla ricorrente nel corso dei procedimenti di primo grado, mentre solo la seconda proposizione, ossia quella riportata a pagina 10, terzo capoverso, fa parte della motivazione spesa dalla Corte d’appello, frutto di una valutazione altrimenti apprezzabile solo in iure . In tal modo, il motivo è inammissibile, in quanto pretende di riferire una contraddittorietà della motivazione a due passi della sentenza uno solo dei quali costituisce motivazione. Tanto si rileva non senza doversi sottolineare che il passo che costituisce motivazione rappresenta una minima parte del complessivo tessuto argomentativo della sentenza impugnata.
Con il quinto motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.
La ricorrente invoca la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. per aver la Corte d’appello del tutto omess o la valutazione delle evidenze documentali a comprova della abusività del locale seminterrato e della inutilizzabilità del bene locato. Prove, queste ultime, tutte debitamente richiamate nel secondo motivo d’appello in relazione ad entrambi i profili.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Nell’ambito di un ricorso per cassazione per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma (v. già Cass. 10 giugno 2016, n. 11892, il cui principio di diritto trovasi ribadito anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 20867 del 2020 e già da Cass., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16598, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; Cass., VI-3, 23 ottobre 2018, n. 26769; sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313). Ciò significa che per realizzare la violazione deve aver giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’articolo 116 c.p.c., rubricato per l’appunto “valutazione delle prove” (v. Cass. 11892/2016, cit.). Ipotesi in alcun modo ricorrenti nel caso in esame.
Con il sesto motivo si censura, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4 e 5, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 116 e 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ. e degli artt. 2730 e 2735 cod. civ.
La ricorrente lamenta l’omessa valutazione del carattere confessorio stragiudiziale , a proposito dell’abusività del locale seminterrato, della dichiarazione resa da ll’avv. NOME COGNOME che lo vedeva contrapposto all’impresa edile cui aveva affidato l’esecuzione di alcuni lavori. Nell’ambito di tale procedimento l’avv. COGNOME nella comparsa di costituzione aveva dichiarato che i lavori appaltati ‘dovevano limitarsi al consolidamento statico delle strutture nel mentre l’attore … ha ritenuto di dover estendere la p ropria attività sino a realizzare locali prima inesistenti e/o ampliare in modo significativo e rendere quasi abitabili preesistenti «volumi tecnici»’. Erroneamente la Corte d’appello aveva confermato quanto sostenuto dal Tribunale di Torre Annunziata a proposito della impossibilità di configurare tale dichiarazione di portata confessoria, ‘trattandosi di valutazioni tecniche, le stesse in assenza di ulteriore riscontro non sono idonee a fondare un giudizio di abusività del bene’ . Da ciò sarebbe conseguita una violazione dell’art. 2735 cod. civ. in presenza di una motivazione illogica ed irreale.
6.1. Il motivo è inammissibile.
Una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. Cass., 11892/2016, cit.; 8 ottobre 2019, n. 25027; 31 agosto 2020, n. 18092; 22 settembre 2020, n. 19798; Cass., sez. un., 30 settembre 2020, n. 20867).
Analogamente, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, nel cui ambito si colloca la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo (come nel caso di specie), non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., che dà rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (v. Cass. 11892/2016 cit.).
Da ultimo, mette conto rilevare come la stessa ricorrente menzioni Cass., sez. II, 14 febbraio 2020, n. 3698 , secondo cui ‘ In tema di prova civile, l’indagine volta a stabilire se una dichiarazione della parte costituisca o meno confessione e, cioè, ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se fondato su di una motivazione immune da vizi logici’ (cui adde Cass. 4 aprile 2003, n. 5330; 24 gennaio 2019, n. 2048). Tale ipotesi ricorre nel caso di specie, posto che, la Corte d’appello, sia pur per relationem mediante il richiamo della decisione del primo giudice (v. Cass., sez. un., 16 gennaio 2015, n. 642; Sez. 6 – 2, ord., 7 novembre 2016, n. 22562; sez. V., ord., 6 ottobre 2022, n. 29028), ha evidenziato di essere al cospetto di valutazioni tecniche, che in assenza di ulteriore riscontro, non erano idonee a fondare un giudizio di abusività del bene.
Con il settimo motivo viene denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 4 e n. 5, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112, 115 e 132, comma secondo, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ.
La ricorrente lamenta che la Corte d’appello, pur dando atto del contenuto del quinto motivo, con cui si denunciava la decisione del Tribunale di revoca della precedente ordinanza di ammissione dei mezzi di prova e di inammissibilità della C.T.U. perché ritenuta esplorativa , nulla abbia detto a proposito di quest’ultima , trattandosi di mezzo di prova «indispensabile» per la decisione in ordine al profilo dell’abusività del locale.
7.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360bis n. 2, cod. proc. civ.
La Corte d’appello nell’esame del quinto motivo riferisce che l’appellante lamentava ‘l’erroneità della decisione del primo giudice laddove revocando integralmente l’ordinanza di ammissione dei mezzi istruttori pronunciata dal precedente giudice assegnatario del giudizio, ha ritenuto superflue e/o irrilevanti
le circostanze dedotte in via testimoniale ed inammissibile la C.T.U. poiché di natura esplorativa ‘. Tuttavia, il giudice di secondo grado si è occupato della doglianza relativa alla prova testimoniale, ma non di quella riguardante la C.T.U.
Ciononostante, il motivo è inammissibile in base all’art. 360bis n. 2, cod. proc. civ. alla stregua del principio di diritto secondo cui ‘i n tema di ricorso per cassazione, la censura concernente la violazione dei “principi regolatori del giusto processo” e cioè delle regole processuali ex art. 360 n. 4 c.p.c., deve avere carattere decisivo, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denuncia ‘ (v. Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2017, n. 22341; in senso conforme, v. Cass., sez 6-Lav., 15 ottobre 2019, n. 26087). Per quanto sia evidente che la corte sia incorsa nella parziale omessa pronuncia sul motivo, essa risulta non decisiva, dato che la sentenza, provvedendo sul terzo motivo di appello, concernente l’abusività dell’immobile, l’ha esclusa con una motivazione in iure , che si è lasciata consolidare, non essendo stata impugnata.
Con l’ottavo motivo è denunciata , ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ovvero dell’art. 132, comma secondo, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ.
La ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda di annullamento per dolo del contratto di locazione. Domanda rigettata dal Tribunale ed oggetto di impugnazione in sede di appello, ma di cui è stato pretermesso l’esame da parte della Corte d’appello , o in alternativa, effettuato sulla base di una motivazione apparente, perché resa in modo da rendere impossibile il controllo sull’esattezza e logicità della decisione.
8.1. Il motivo è infondato.
Fermo restando che il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione, la Corte d’appello nell’ambito dello scrutinio congiunto del primo e del secondo motivo d’appello ha preso in esame il dedotto profilo (v. il richiamo fatto a pagina 5 della motivazione, paragrafo 5), salvo poi provvedere a trattare
congiuntamente le due diverse prospettazioni (inadempimento e dolo) all’interno del perimetro degli obblighi gravanti sulle parti del contratto di locazione, senza peraltro incorrere nel prospettato vizio motivazionale, dei cui limiti di controllo in questa sede già abbondantemente è stato dato atto.
9. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, atteso quanto espresso in sede di scrutinio del settimo motivo del ricorso, possono essere compensate per la metà, condannando la ricorrente alla rifusione del residuo in favore del controricorrente.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, compensa le spese del giudizio di legittimità per la metà e condanna la ricorrente alla rifusione del residuo, in favore del controricorrente, che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. NOME COGNOME dichiaratosi antistatario ai sensi dell’art. 93 cod. proc. civ.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della Corte