Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 4268 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 4268 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12733/2021 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall ‘ avvocato AVV_NOTAIO COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in RomaINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
R.G. 12733/2021
COGNOME.
Rep.
C.C. 15/12/2023
C.C. 14/4/2022
AFFITTO E VENDITA DI AZIENDA.
avverso la SENTENZA RAGIONE_SOCIALE CORTE D ‘ APPELLO di TORINO n. 249/2021 depositata il 04/03/2021. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/12/2023
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne in giudizio NOME COGNOME, davanti al Tribunale di Novara, affinché, previa declaratoria di risoluzione, per inadempimento RAGIONE_SOCIALE controparte, del contratto tra loro concluso, la convenuta fosse condannata al risarcimento del danno, determinato nella somma di euro 45.500.
A sostegno RAGIONE_SOCIALE domanda espose, tra l’altro: di aver concluso in data 1° febbraio 2012, con l’intermediazione dell’RAGIONE_SOCIALE, un contratto di affitto di azienda con NOME COGNOME, avente ad oggetto il ristorante gestito dal RAGIONE_SOCIALE a Borgomanero; che in quel contratto il COGNOME aveva assunto la possibilità di acquistare l’azienda, alla scadenza del termine fissato per il 30 novembre 2013, al prezzo concordato di euro 83.000, dei quali l’affittuario versava euro 10.000 a titolo di caparra; che la COGNOME, con una diversa scrittura privata stipulata lo stesso giorno del precedente contratto, si era impegnata ad acquistare l’azienda del COGNOME al medesimo prezzo concordato con il COGNOME, ove quest’ultimo avesse deciso di non esercitare l’opzione di acquisto; che il COGNOME non aveva esercitato l’opzione, per cui il COGNOME aveva comunicato alla COGNOME di voler accettare l’impegno RAGIONE_SOCIALE stessa di acquistare l’azienda allo stesso prezzo; che la COGNOME, però, aveva addotto varie scuse, rifiutandosi di stipulare il contratto di acquisto, per cui il COGNOME aveva dovuto svendere la sua azienda ad un terzo, al minor prezzo di euro 37.500; tutto ciò premesso, il COGNOME chiese la condanna RAGIONE_SOCIALE COGNOME nei termini suindicati, ritenendo che il danno da lui subito fosse pari alla
differenza tra il prezzo pattuito per la vendita e quello, minore, realmente realizzato.
Si costituì in giudizio la COGNOME, chiedendo il rigetto RAGIONE_SOCIALE domanda.
All’esito di un’istruttoria solo documentale, il Tribunale accolse la domanda e condannò la convenuta al pagamento RAGIONE_SOCIALE somma di euro 45.500, con il carico delle spese di lite.
Impugnata tale decisione RAGIONE_SOCIALE COGNOME, la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 4 marzo 2021, ha rigettato il gravame e ha condannato l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
2.1. Esaminando i primi due motivi di appello, la Corte territoriale li ha ritenuti privi di fondamento, escludendo che si potesse configurare una qualche forma di inadempimento a carico del COGNOME.
Ricapitolata rapidamente la cronologia degli eventi, la Corte ha innanzitutto rilevato che la COGNOME si era obbligata ad acquistare l’azienda allo stesso prezzo fissato al COGNOME (euro 83.000); la somma di euro 10.000 versata da quest’ultimo al COGNOME non poteva, quindi, essere detratta dalla somma che la COGNOME era tenuta a pagare, posto che si trattava di una caparra e non di un acconto sul prezzo, come tale non ripetibile da parte del COGNOME. Il fatto, poi, che il COGNOME avesse manifestato la sua disponibilità a vendere alla COGNOME al prezzo di euro 73.000 anziché 83.000, purché la vendita avvenisse entro il 20 febbraio 2014, indicava, appunto, una «disponibilità» del venditore, ma non un diritto RAGIONE_SOCIALE COGNOME ad acquistare ad un prezzo inferiore.
In relazione, poi, ai presunti inadempimenti del venditore nel pagamento dei canoni di locazione dell’immobile dove veniva gestito il ristorante, la Corte torinese ha osservato che il COGNOME aveva fatto recapitare alla COGNOME, in data 10 febbraio 2014, la prova RAGIONE_SOCIALE regolarità dei pagamenti da lui compiuti per quel titolo,
sicché i dubbi manifestati da quest’ultima erano, sul punto, del tutto pretestuosi. D’altra parte la COGNOME, allo scopo di non stipulare il rogito per la data fissata del 20 febbraio 2014, aveva contestato al COGNOME il fatto che l’attività di ristorazione era in quel momento chiusa; era stato quindi pattuito un incontro per la visita ai locali, avvenuto nel pomeriggio di un giorno di febbraio, nel quale la COGNOME aveva accampato di non aver potuto vedere bene la situazione a causa RAGIONE_SOCIALE mancanza di corrente elettrica, senza però che ella successivamente avesse chiesto la fissazione di un altro appuntamento.
La Corte d’appello, quindi, ha concluso nel senso che doveva «ritenersi raggiunta la prova che la consistenza dell’azienda alla data del 20 febbraio 2014 fosse corrispondente a quella esistente al momento RAGIONE_SOCIALE sottoscrizione RAGIONE_SOCIALE scrittura privata d’affitto d’azienda, allorché la COGNOME aveva assunto l’impegno ad acquistare»; ragione per cui alla data indicata il contratto avrebbe potuto e dovuto essere stipulato, essendo tutte le contestazioni sollevate dalla COGNOME prive di fondamento. D’altra parte, alla data del 20 febbraio 2014, l’azienda era stata riconsegnata dal COGNOME al COGNOME meno di due mesi prima, per cui erano da escludere sia il deterioramento dei beni aziendali che la perdita dell’avviamento, trattandosi di una chiusura pari al tempo medio di una normale ristrutturazione.
Nessuna norma di legge, poi, prevedeva – ad avviso RAGIONE_SOCIALE Corte d’appello – che una persona fisica dovesse rivestire la qualità di imprenditore iscritto al registro delle imprese per poter alienare la propria azienda, posto che l’art. 2495 cod. civ. è norma applicabile alle società, ma non certo alle persone fisiche.
2.2. Esaminando, poi, il terzo motivo di appello – avente ad oggetto la censura RAGIONE_SOCIALE sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva accolto la domanda risarcitoria nei termini in cui era stata
proposta -la Corte d’appello ne ha parimenti dichiarato l’infondatezza.
Ed infatti, fermo restando che la vendita dell’azienda sarebbe potuta avvenire alla data del 20 febbraio 2014, la perdita di valore RAGIONE_SOCIALE stessa verificatasi dopo quella data era da ricondurre all’ingiustificato rifiuto RAGIONE_SOCIALE COGNOME di onorare il proprio impregno di acquisto, gravando perciò a carico di quest’ultima, e non del venditore.
Quanto al minor prezzo realizzato dal COGNOME, la Corte d’appello ha osservato che egli aveva invitato la COGNOME a recarsi dal AVV_NOTAIO per la stipula una seconda volta, per la data del 9 aprile 2014; in tale data, dunque, l’azienda non poteva essere mutata rispetto al 20 febbraio precedente; né vi erano ragioni per ritenere che il valore potesse essere cambiato dal 9 aprile al 12 maggio 2014, data RAGIONE_SOCIALE vendita al prezzo inferiore, anche perché il COGNOME «aveva tutto l’interesse a mantenere integra l’azienda, onde cederla a terzi al prezzo più vantaggioso possibile».
Contro la sentenza RAGIONE_SOCIALE Corte d’appello di Torino ricorre NOME COGNOME con atto affidato a sei motivi.
Resiste NOME COGNOME con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la nullità RAGIONE_SOCIALE sentenza per violazione degli artt. 14, 91 e 112 cod. proc. civ., nonché per violazione del d.m. 10 marzo 2014, n. 55, in punto di liquidazione delle spese di lite.
La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia liquidato le spese secondo lo scaglione che va da euro 52.000 a euro 260.000, pari ad un valore RAGIONE_SOCIALE causa di euro 83.000. Poiché, però, la domanda risarcitoria originaria era di euro 45.500, la Corte d’appello avrebbe dovuto liquidare le spese secondo lo scaglione
inferiore, che va da euro 26.000 a euro 52.000; per di più, nulla era dovuto per la fase di sospensiva RAGIONE_SOCIALE sentenza del Tribunale, trattandosi di attività non tabellata.
1.1. Il motivo non è fondato.
Ai fini RAGIONE_SOCIALE liquidazione delle spese di lite, com’è noto, occorre determinare il valore RAGIONE_SOCIALE causa; in materia contrattuale, esso è fissato in relazione al valore del contratto nella sua globalità, e non solo alla parte che è in discussione. Nel caso in esame è evidente che il valore del contratto, come correttamente rileva il controricorso, era di euro 83.000, cioè il prezzo di acquisto originariamente concordato; il fatto che il venditore abbia poi alienato ad un prezzo minore, come nella specie, chiedendo la differenza di prezzo alla controparte, non va ad alterare in alcun modo il valore complessivo del contratto in discussione. Anzi, a voler essere rigorosi, poiché il COGNOME ha proposto tanto la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento quanto quella di condanna al pagamento RAGIONE_SOCIALE differenza di prezzo, i due valori dovrebbero sommarsi (euro 83.000 ed euro 45.500); il che rende ancora meno fondate, se possibile, le ragioni di cui al motivo di ricorso in esame.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., nonché degli artt. 1324, 1385 e 1331 cod. civ., con riflessi sugli artt. 1455 e 1460 cod. civ. in tema di inadempimento.
La ricorrente sostiene che avrebbe avuto il diritto di stipulare il contratto non al prezzo di euro 83.000, bensì a quello inferiore di euro 73.000. Il contratto prevedeva, infatti, l’opzione a favore del COGNOME, che non l’aveva esercitata; ne consegue che la ricorrente si sarebbe sostituita a lui con una novazione soggettiva, di talché la consegna di euro 10.000 doveva intendersi come acconto, e non come caparra. La sentenza avrebbe quindi errato nel definire quella
somma una caparra, con la conseguenza che la differenza di prezzo richiesta dal venditore giustificava l’eccezione di inadempimento sollevata dalla ricorrente per non stipulare il contratto.
2.1. Il motivo, quando non inammissibile, è comunque infondato.
Il Collegio rileva, innanzitutto, che la censura si limita genericamente a lamentare la presunta lesione di regole di interpretazione del contratto, senza peraltro specificare di quali regole si stia parlando e perché.
Tanto premesso, si osserva che la Corte d’appello ha spiegato, con una motivazione ineccepibile, che il prezzo concordato tra le parti era stato fissato nella somma di euro 83.000 e che fu il COGNOME – allo scopo evidente di accelerare le operazioni di vendita (per evitare di perdere l’avviamento commerciale del ristorante) e di venire incontro alle ragioni RAGIONE_SOCIALE COGNOME, benché infondate – a dichiararsi disponibile a stipulare anche al prezzo inferiore di euro 73.000. La sentenza, inoltre, con un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, ha osservato che la somma di euro 10.000 versata dal primo acquirente COGNOME costituiva una caparra e non un acconto sul prezzo; ragione per cui, avendo avuto il COGNOME un ripensamento in ordine alla conclusione dell’affare, quella somma era da ritenere ormai incamerata dal COGNOME, senza che di quel pagamento potesse, ovviamente, giovarsi la COGNOME.
Si tratta di una ricostruzione del tutto corretta in diritto e conforme alla normale logica degli affari; né il motivo in esame si preoccupa realmente di confutare il ragionamento RAGIONE_SOCIALE Corte d’appello, limitandosi ad insistere sul fatto che, non avendo il COGNOME esercitato l’opzione, «la traditio di euro 10.000 doveva leggersi necessariamente come acconto e non caparra». Affermazione, questa, del tutto priva di fondamento; anche perché non è dato comprendere per quale ragione la COGNOME dovesse giovarsi del pagamento fatto dal COGNOME.
Con il terzo motivo di ricorso si lamentano, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2697, primo comma, 1223, 1227 e 2729 cod. civ., in relazione al prezzo di vendita.
Il motivo contesta, innanzitutto, il fatto che sia stata posta a carico RAGIONE_SOCIALE ricorrente la diminuzione del prezzo di vendita realizzato dal COGNOME nel maggio 2014, in particolare rilevando che solo alla data del 20 febbraio 2014 erano stati chiariti alcuni profili relativi al saldo dei canoni e al possesso dei beni aziendali. A febbraio, comunque, erano passati tre mesi dal novembre 2013, momento RAGIONE_SOCIALE consegna da parte del COGNOME, per cui mancherebbe la prova del danno subito dal COGNOME. La Corte d’appello avrebbe violato le regole sull’onere RAGIONE_SOCIALE prova e sul ragionamento presuntivo, perché dal fatto noto RAGIONE_SOCIALE vendita avvenuta nel maggio 2014 al prezzo di euro 37.500 ha fatto discendere la prova del fatto, ignoto, per cui i beni aziendali valevano nel febbraio 2014 la somma pattuita di euro 83.000; prova del tutto mancante e dedotta con una praesumptio de praesumpto .
3.1. Il motivo, quando non inammissibile, è privo di fondamento.
La Corte d’appello ha illustrato in modo esauriente quale fu la cronologia degli eventi, spiegando, tra l’altro, che il rogito notarile si sarebbe potuto e dovuto compiere alla data del 20 febbraio 2014, momento in cui il COGNOME aveva messo a disposizione RAGIONE_SOCIALE COGNOME tutta la documentazione che quest’ultima poteva ragionevolmente chiedere (ivi comprese le copie dei versamenti dei canoni di locazione al proprietario). Il rogito non fu stipulato perché la COGNOME formulò dubbi che la sentenza ha definito pretestuosi ; e comunque quest’ultima non si presentò più per la stipula, nemmeno alla successiva data del 9 aprile 2014, il che rende del tutto giustificata la decisione RAGIONE_SOCIALE Corte d’appello, avvenuta con un corretto uso RAGIONE_SOCIALE prova presuntiva, di porre a carico RAGIONE_SOCIALE COGNOME la
differenza tra il prezzo pattuito e quello realmente ottenuto dal COGNOME nella sua vendita avvenuta in perdita.
Il Collegio rileva, altresì, fermo quanto si dirà per il motivo seguente a proposito RAGIONE_SOCIALE violazione dell’art. 2697 cod. civ., che la violazione dell’art. 2729 cit. non è dedotta secondo i criteri indicati, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto (paragrafi 4 e ss.) dalla sentenza 24 gennaio 2018, n. 1785, delle Sezioni Unite di questa Corte.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2697, primo comma, e 1227 cod. civ., nonché degli artt. 40 e 41 cod. pen., sempre in rapporto al presunto inadempimento del COGNOME.
La ricorrente ritiene che sino all’aprile 2014 il rogito fosse impossibile per l’intervenuta cancellazione del venditore dal registro RAGIONE_SOCIALE camera di commercio, mentre il COGNOME si era reiscritto solo dopo; ne consegue che a carico di quest’ultimo si doveva ritenere sussistente un concorso colposo, ritenendo che il danno subito fosse da ricondurre a responsabilità dello stesso venditore.
4.1. Il motivo è palesemente infondato.
La sentenza impugnata ha correttamente argomentato anche su questo punto e, richiamata la disposizione dell’art. 2495 cod. civ., ha osservato che nessuna norma prevede che una persona fisica debba rivestire la qualità di imprenditore iscritto al registro delle imprese per poter cedere la propria azienda. Per cui nessun colpevole ritardo poteva essere imputato al venditore a causa RAGIONE_SOCIALE cancellazione.
La ricorrente – senza in effetti contestare le ragioni RAGIONE_SOCIALE motivazione e ipotizzando in modo del tutto arbitrario un concorso di colpa in capo al venditore COGNOME – insiste nella propria tesi, tra l’altro lamentando la violazione delle regole sull’onere RAGIONE_SOCIALE
prova e sul principio di causalità in modo non corretto e senza alcun fondamento giuridico.
È appena il caso di ricordare, a proposito dell’onere RAGIONE_SOCIALE prova, che questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere RAGIONE_SOCIALE prova ad una parte diversa da quella sulla quale esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni; mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento RAGIONE_SOCIALE decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 cod. proc. civ. (così l’ordinanza 23 ottobre 2018, n. 26769).
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2697, primo comma, e 1225 cod. civ., perché la sentenza impugnata avrebbe errato nella liquidazione del danno, in particolare in ordine alla sua prevedibilità.
Dopo aver premesso che la prevedibilità riguarda non tanto il danno come evento lesivo, quanto il suo ammontare, la ricorrente osserva che la Corte d’appello avrebbe dovuto interrogarsi sul se, nel febbraio 2014, il COGNOME avesse fornito all’acquirente «tutte le spiegazioni del caso in ordine a canoni d’affitto e possesso dell’azienda»; e aggiunge che la prova RAGIONE_SOCIALE prevedibilità del danno grava sul creditore e che, nel caso di specie, essa non sarebbe stata fornita.
5.1. Il motivo è palesemente infondato.
Il Collegio osserva che, una volta accertato in modo irrevocabile che il rogito sarebbe potuto avvenire alla data del 20 febbraio 2014 e che non ebbe luogo a causa delle pretestuose obiezioni mosse dalla COGNOME, è evidente che il danno da ritardo era da porre a carico di quest’ultima. Il richiamo all’art. 1225 cod. civ. – posto per tentare di dimostrare che la perdita di valore del bene in vendita non potrebbe essere posta a carico RAGIONE_SOCIALE ricorrente, trattandosi di danno imprevedibile – viene ad essere destituito di fondamento una volta che la sentenza ha accertato l’inadempimento da parte dell’odierna ricorrente e la violazione dell’obbligo di correttezza (v. in argomento, tra le altre, la sentenza 30 gennaio 2007, n. 1956, e l’ordinanza 30 giugno 2021, n. 18498). E dal complesso RAGIONE_SOCIALE motivazione resa dalla Corte d’appello emerge che l’inadempimento era atto voluto da parte RAGIONE_SOCIALE COGNOME.
Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., motivazione omessa, o comunque insufficiente o contraddittoria, in ordine a un punto decisivo RAGIONE_SOCIALE controversia.
La ricorrente osserva che la sentenza sarebbe motivata in modo insufficiente là dove afferma che il valore del complesso aziendale non potrebbe essere mutato dal 9 aprile 2014, data del rogito non stipulato, al 12 maggio successivo, quando i beni furono venduti ad un prezzo inferiore.
6.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, infatti, pone una censura di vizio di motivazione secondo un modello che non trova più riscontro nel testo vigente dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ.; senza contare che si tratta di una doglianza che si risolve nel tentativo surrettizio di sollecitare in questa sede un diverso e non consentito esame del merito.
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna RAGIONE_SOCIALE ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a regolare i compensi professionali.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 -quater , del d.P .R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte RAGIONE_SOCIALE ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 6.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto RAGIONE_SOCIALE sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte RAGIONE_SOCIALE ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio RAGIONE_SOCIALE Terza