Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2355 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2355 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28765/2019 R.G. proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentata e difesa dall ‘ avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE.
– Ricorrente –
Contro
COGNOME elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall ‘ avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE.
– Controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte d’ appello di Ancona n. 989/2019 depositata il 12/06/2019.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 15 gennaio 2025.
Comunione
Rilevato che:
Con sentenza n. 89/2014 il Tribunale di Macerata, dichiarata la contumacia del convenuto COGNOME NOMECOGNOME respinse le domande proposte da NOME COGNOME dirette ad accertare l ‘ intervenuta ‘comunione tacita familiare’ e, conseguentemente, a far dichiarare che l’attr ice era comproprietaria, con il coniuge NOME COGNOME della quota del 50% di un immobile acquistato dal convenuto, solo formalmente intestato al medesimo, e, in ogni caso, ad accertare che COGNOME aveva concorso all’acquisto dell’immobile ed era comproprietaria del bene in misura pari al 50%, o, in via subordinata, ad accertare che la stessa aveva contribuito al soddisfacimento delle esigenze familiari e, in maggiore misura, all’acquisto dell’immobile e a riconoscerle un diritto di credito, per un importo da euro 300.000 a euro 500.000;
l a Corte d’appello di Ancona, nella resistenza di NOME COGNOME ha disatteso l’appello di NOME COGNOME per questi motivi:
(i) la domanda dell’attrice ribadita in appello -diretta all’accertamento della costituzione della comunione tacita familiare tra le parti di cui all’abrogato art. 2140 c.c. va riqualificata come domanda ex art. 230 bis c.c., in tema di impresa familiare;
(ii) alla luce della nozione di impresa familiare delineata dalla giurisprudenza di legittimità è corretta la decisione del Tribunale di non accogliere le prove orali chieste dall’attrice al fine di dimostrare che l’immobile acquistato dal marito e a l medesimo intestato sarebbe stato, in realtà, acquistato con disponibilità finanziarie derivanti anche dal contributo della moglie. Invero, tanto la prova per testi che quella per interpello del convenuto sono generiche e irrilevanti perché non finalizzate a dimostrare la sussistenza dei presupposti oggettivi necessari per potere ravvisare un ‘ impresa familiare, presupposti la cui sussistenza è stata negata dal l’appellato nella costituzione in
appello, ferma la considerazione che dalla mancata partecipazione del convenuto al giudizio di primo grado non può evincersi l’operatività del principio di non contestazione. Del pari inconferenti, rispetto alla prova dell’esistenza dell’impresa familiare sono i documenti prodotti dall’attrice in primo grado, perché diretti a provare l’esistenza di un conto corrente intestato ai coniugi che veniva movimentato per pagare le rate del mutuo acceso per l’acquisto dell’immobile di cui si discute, e non la continuità dell’impegno lavorativo dell’appellante nell’impresa del marito né la misura dell’incremento della produttività;
(iii) per la prevalente giurisprudenza di legittimità, il titolo di acquisto del diritto reale non può essere l’esistenza dell’impresa familiare, configurandosi a carico di compratore, in tale ipotesi, solo un obbligo di trasferimento del bene immobile, per lo più non coercibile (salvo il risarcimento del danno) se non assistito da idoneo atto scritto. Nella specie, in mancanza di un atto scritto tra i coniugi (che pacificamente non è mai stato stipulato), l’impresa familiare non è titolo idoneo al fine dell’acquisto del diritto di proprietà rivendicato , ma può eventualmente attribuire al partecipante (all’impresa di famiglia) un diritto di credito agli utili, al controvalore del bene acquistato con i proventi dell’impresa, all’incremento aziendale , o un diritto di natura risarcitoria;
(iv) non è fondata nemmeno la domanda subordinata di riconoscimento del diritto di credito, in mancanza di prova dello svolgimento, da parte dell’attrice , di attività di lavoro costante, regolare e non saltuaria nell’impresa del coniuge e del l’accrescimento della produttività dell’impresa, ricollegabile all’apporto fornito dall’appellante;
(v) restano assorbite, anche in base al principio della ragione più liquida, le questioni sottese agli altri motivi di impugnazione,
soprattutto in punto di provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto dell’immobile , in ragione del fatto che la disciplina dell’impresa familiare attribuisce un diritto di credito al familiare che presti in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa e che, nella specie, non è stata data la prova di tali presupposti; per le medesime ragioni è superfluo disporre una c.t.u. per la stima del cespite;
avverso la sentenza d’appello , NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
In prossimità dell’ adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
Considerato che:
1. il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c. e dell’art. 115 c.p.c.: la corte d’appello , a causa della non corretta esegesi della nozione di impresa familiare desumibile dalla giurisprudenza di legittimità, ha trascurato che l’apporto della ricorrente all’impresa del marito era consistit o nel lavoro domestico e conseguentemente, per un verso, ha ritenuto irrilevanti i capitoli di prova per testi dedotti dall’appellante al fine di dimostrare tale presupposto, per altro verso, in violazione del l’art. 115 c.p.c., non ha compreso che l’appellato non aveva contestato l’attività domestica della moglie, ragion per cui doveva ritenersi certamente sussistente il diritto di partecipare all’impresa familiare vantato da NOME COGNOME;
il motivo è inammissibile;
nella disciplina anteriore alla riforma del diritto di famiglia di cui alla legge n. 151 del 1975, il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su un bene immobile intestato all ‘ altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare, idoneo ad estendersi ‘ ipso
iur e ‘ agli acquisti fatti da ciascun partecipante senza bisogno di mandato degli altri né di successivo negozio di trasferimento, ha l ‘ onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali (tra le altre, Sez. 2, Ordinanza n. 7872 del 19/03/2021, Rv. 660827 – 01).
È stato chiarito che, ai sensi dell ‘ art. 230 bis c.c., la concreta collaborazione del partecipante all ‘ impresa familiare – istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l ‘ esistenza della fattispecie, ben potendo l ‘ imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all ‘ impresa, opponendosi all ‘ esercizio di attività lavorativa nell ‘ ambito di essa -, se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all ‘ adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l ‘ attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell ‘ impresa, in quanto funzionale ed essenziale all ‘ attuazione dei fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l ‘ art. 230 bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell ‘ attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell ‘ azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione
all ‘ accrescimento della produttività dell ‘ impresa, procurato dall ‘ apporto dell ‘ attività del partecipante (Sez. U, Sentenza n. 89 del 04/01/1995, Rv. 489527 – 01).
Così fissate le coordinate concettuali e tornando all’esame del motivo di ricorso, rileva il collegio che la corte d’appello, mantenendosi nel perimetro tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, in adesione alla qualificazione della domanda operata dal tribunale, nell’ordine: ha escluso che venisse in gioco l’istituto (ormai abrogato) della comunione tacita familiare; ha richiamato la figura dell’ impresa familiare (art. 230 bis c.c.); ha negato il diritto reale di comproprietà rivendicato da NOME COGNOME sulla casa familiare, intestata al marito, in qualità di familiare partecipante all’impresa del coniuge, in ragione della considerazione, da un lato, che la documentazione prodotta in primo grado non era idonea a dimostrare la continuità dell’impegno dell’attrice nell’azienda del marito e, in ultima analisi, l’esistenza stessa di un’impresa familiare; dall’altro, che le prove orali articolate da NOME COGNOME erano generiche e irrilevanti.
In replica al ragionamento della corte d’appello -ineccepibile sul piano giuridico e fondato sulla valutazione del materiale probatorio che, poiché congruamente motivata, sfugge al sindacato di legittimità -la ricorrente si duole che la sentenza abbia posto l’accento esclusivamente su ll’attività lavorativa prestata dall’attrice presso le imprese del marito e che, invece, non abbia messo a fuoco l’attività che NOME COGNOME aveva svolto in ambito domestico, attività menzionata nel capitolo dodici della prova per testi che il giudice di merito non aveva ammesso.
Si tratta, a giudizio del collegio, di nuovi fatti costitutivi della domanda di accertamento del diritto di comproprietà dell’immobile acquistato dal convenuto : nei gradi di merito l’attrice ha allegato di
avere contribuito all’acquisto dell’immobile con i guadagni derivanti dall’attività prestata presso le imprese intestate al marito , ossia (prima) la RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Mario e NOME e (successivamente) la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE; in questa sede, invece, la ricorrente sostiene l’esistenza di un’impresa familiare, alla quale avrebbe partecipato con la propria attività in ambito domestico, senza per altro illustrare in maniera puntuale l’aspetto relativo alla necessaria correlazione tra l’attività domestica e la gestione dell’impresa , profilo, questo, sul quale correttamente si sofferma la decisione qui impugnata.
Il motivo è inammissibile sia per la sua estrema genericità, sia per la novità della questione di fatto nel quale si sostanzia. È stato precisato (da Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 38228 del 2021) che: ‘Secondo l’ indirizzo consolidato di questa Corte «In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l ‘ avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di specificità, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel ‘ thema decidendum ‘ del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio» ( ex plurimis Sez. 2, Sent. n. 20694 del 2018, Sez. 6-1, Ord. n. 15430 del 2018). Infatti, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto, ha l ‘ onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l ‘ avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del
giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (per l ‘ ipotesi di questione non esaminata dal giudice del merito: Cass. 02/04/2004, n. 6542; Cass. 10/05/2005, n. 9765; Cass. 12/07/2005, n. 14599; Cass. 11/01/2006, n. 230; Cass. 20/10/2006, n. 22540; Cass. 27/05/2010, n. 12992; Cass. 25/05/2011, n. 11471; Cass. 11/05/2012, n. 7295; Cass. 05/06/2012, n. 8992; Cass. 22/01/2013, n. 1435; Cass. Sez. U. 06/05/2016, n. 9138) ‘ .
Da una diversa angolazione giuridica, osserva il collegio che la corte d’appello ha respinto la domanda principale dell’attrice anche basandosi sulla considerazione che, in assenza di un atto scritto tra i coniugi, la dedotta impresa familiare non rappresenta un titolo idoneo ai fini dell’acquisto del diritto di comproprietà sul bene immobile. Questa ratio decidendi , coerente con la giurisprudenza di legittimità (vedi Sez. L., Sentenza n. 15810 del 06/06/2024, Rv. 671276 -01, secondo cui, in tema di impresa familiare, i diritti di partecipazione del collaboratore sui beni acquistati dal titolare con gli utili non ripartiti hanno natura obbligatoria e non reale), non è stata attinta da specifica censura, e ciò basta al fine di dichiarare l’inammissibilità (sotto altro profilo rispetto a quello illustrato in precedenza) del motivo per difetto di interesse.
Infatti, nel caso in cui (come nella specie) la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l ‘ autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Sez. 1, Sentenza n. 18641 del 27/07/2017, Rv. 645076 -01);
2. il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in tema di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e la nullità della sentenza ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. per insussistenza di uno dei requisiti posti dall’art. 132 comma 2, n. 4 c.p.c., e dall’art. 118 disp. att. c.p.c.
Si lamenta che la corte d’appello abbia valutato la domanda subordinata dell’attrice relativa al diritto di credito vantato per l’acquisto della casa intestata al marito facendo riferimento esclusivamente all’istituto della comunione tacita familiare e a quello dell ‘ impresa familiare benché la domanda di quest’ultima (vedi pag. 31 del ricorso per cassazione) ‘ essere sorretta, vieppiù in difetto di una esplicita e vincolante qualificazione da parte della medesima, da una causa petendi radicalmente diversa da quella fatta valere con la domanda principale (ad esempio, mutuo, indebito arricchimento, associazione in partecipazione), in quanto faceva valere un diritto di credito anziché l’originario diritto reale prospettato’.
Nell’ampio motivo è dedotta anche la nullità della sentenza per carenza della struttura argomentativa;
il motivo, nelle diverse sfaccettature, è infondato.
La corte d’appello ha negato il diritto di credito, quale pretesa subordinata dell ‘attrice , sul rilievo che quest’ultima non aveva dimostrato di avere partecipato all’impresa del marito. Vi è assoluta corrispondenza tra il contenuto della domanda (o, meglio, delle domande, principale e subordinata) e la decisione del giudice di appello, la cui motivazione soddisfa senz’altro il requisito del minimo costituzionale secondo l’accezione della giurisprudenza di legittimità.
Questo chiaro percorso argomentativo fa sì che rimangano esclusi i prospettati vizi di motivazione apparente e di difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
In particolare, si deve ricordare che il vizio di motivazione apparente ricorre quando (diversamente da quanto accade nel caso di specie) la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639, che, in motivazione , richiama Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145).
Inoltre, ragionando in astratto, piuttosto, sarebbe stata viziata da ultrapetizione la pronuncia di appello che avesse riconosciuto un diritto di credito fondato non già sull ‘asserita (ma non provata) attività di lavoro prestata dall’attrice nell ‘ impresa familiare, bensì su un diverso titolo -mutuo, indebito arricchimento, associazione in partecipazione -nemmeno ventilato nei gradi precedenti, ma prospettato per la prima volta in sede di legittimità.
Facendo riferimento alla disciplina processuale -applicabile ratione temporis anteriore alla riforma Cartabia, la modificazione della domanda ammessa in corso di causa può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ( ‘ petitum ‘ e ‘ causa petendi ‘ ), purché la domanda così modificata risulti comunque inerente alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e siano rispettate le preclusioni processuali previste dall ‘ art. 183 c.p.c. Ne consegue che
detta modificazione, qualora avvenga dopo la scadenza del termine ex art. 183, comma 6, c.p.c., risulta inammissibile; qualora formulata per la prima volta in appello, costituisce un ‘ novum ‘ inammissibile, vietato dall ‘ art. 345, comma 1, c.p.c. (Sez. 3, Sentenza n. 27566 del 21/11/2017, Rv. 646846 – 01). È stato anche chiarito che costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella relativa ad un diritto cd. eterodeterminato (o non autoindividuante) allorquando i fatti storici allegati in primo grado a sostegno dell ‘ azione vengono sostituiti o integrati da fatti nuovi e diversi, dedotti con i motivi di gravame (Sez. 3, Ordinanza n. 19186 del 15/09/2020, Rv. 658987 01).
3. il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 276 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.: la corte d’appello , lì dove ha ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di gravame richiamando il principio della ragione più liquida, non ha considerato che la domanda subordinata dell’attrice diretta al riconoscimento di un diritto di credito non era certo assorbita per effetto della reiezione della domanda principale di accertamento del suo diritto di comproprietà sulla casa familiare, data la piena autonomia e le differenti causae petendi delle due domande.
Si sostiene, altresì , che l’erronea applicazione del principio della ragione più liquida avrebbe indotto la corte d’appello a giudicare irrilevante la richiesta dell’appellante di una c.t.u. per la stima dell’immobile, la cui rilevanza invece era correlata alla necessità di contrastare l’erroneo assunto del giudice di primo grado secondo cui l’attrice aveva omesso di indicare la consistenza catastale del cespite del quale rivendicava la contitolarità;
il motivo è infondato;
posto che il riferimento, in sentenza (a pag. 10), al ‘principio della ragione più liquida’ costituisce un a notazione marginale, ossia
un obiter dictum di un ampio e coerente percorso argomentativo, è evidente, sulla scorta delle considerazioni svolte in precedenza (al punto 2), che la corte d’appello ha correttamente ravvisato la conseguenziale irrilevanza delle questioni concernenti la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto dell’immobile di proprietà del convenuto (nonché l’inutilità della c.t.u. estimativa) dopo avere stabilito che l’attrice non aveva titolo per fare fondatamente valere alcun diritto di credito ex art. 230 bis c.c., in mancanza di prova della sua partecipazione all’impresa del coniuge;
4. il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. , l’omesso esame circa fatti decisivi e la violazione degli artt. 115, 116 e 246 c.p.c. : si addebita alla corte d’appello di avere pretermesso alcuni fatti storici, documentati, e cioè che: la maggior parte del pagamento dell’immobile era stata effettuata mediante mutui fondiari accesi rispettivamente con Banca delle Marche e con BNL; tutte le rate dei mutui erano state saldate mediante versamenti provenienti dal c/c n. 2013, acceso presso Banca delle Marche, intestato congiuntamente ai coniugi; l’attrice aveva eseguito personalmente il pagamento di beni e servizi destinati all’acquisto, all’arredamento ed alla rifinitura dell’immobile con denaro proprio, anche prelevato da posizioni bancarie di sua diretta, autonoma e personale titolarità; dal matrimonio in poi l’attrice aveva sempre provveduto, con ricorso e mezzi propri, alle esigenze di vita, familiare e domestica, proprie, del coniuge e della prole. Circostanze, queste, che, nella prospettiva della ricorrente, comprovavano il suo apporto all’acquisto della casa coniugale e corroboravano sia la domanda principale che quella subordinata;
il motivo, articolato in distinti rilievi critici, è complessivamente inammissibile: in primo luogo, la dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è inammissibile perché la censura è puramente abbozzata
e non soddisfa il principio di specificità; in secondo luogo, quanto al l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio di cui al n. 5 dell’art. 360 comma 1 c.p.c., deve farsi applicazione del principio di diritto secondo cui, n ell’ipotesi (come nella specie) di ‘doppia conforme’ prevista dall’art. 348 ter comma 5 c.p.c., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5528/2014), adempimento non svolto. È stato anche chiarito che il principio della doppia conforme ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice. (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022, Rv. 664193 -01; Cass. n. 8982/2024);
in conclusione, dichiarati infondati il secondo e il terzo motivo e inammissibili il primo e il quarto motivo, il ricorso va rigettato;
ritiene il Collegio che non sussistano i presupposti per la condanna della ricorrente per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., sollecitata dalla parte vittoriosa;
le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, provvisoriamente ammessa al patrocinio a spese dello Stato, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art.
13, se dovuto. Va fatta applicazione del principio di diritto per il quale, nel caso in cui il ricorso per cassazione venga respinto, perché rigettato integralmente ovvero dichiarato inammissibile o improcedibile, la S.C. attesta l ‘ obbligo del ricorrente, ancorché ammesso in via anticipata e provvisoria al patrocinio a spese dello Stato, di versare l ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, rilevando a tal fine soltanto l ‘ elemento oggettivo costituito dal tenore della pronuncia che ne determina il presupposto, mentre le condizioni soggettive della parte devono invece essere verificate, nella loro specifica esistenza e permanenza, da parte della cancelleria al momento dell ‘ eventuale successiva attività di recupero del contributo (Sez. 1, Ordinanza n. 27867 del 30/10/2019, Rv. 655780 -01; Cass. n. 8982/2024, cit.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 5.000,00, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali, e agli accessori di legge.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, in data 15 gennaio 2025, nella camera di