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Impresa agricola fallibile: quando prevale il commercio

La Cassazione conferma la dichiarazione di fallimento di un’impresa agricola la cui attività era divenuta prevalentemente commerciale. A seguito di un’alluvione che ha impedito la coltivazione, la società ha iniziato ad acquistare e rivendere prodotti agricoli da terzi. La Corte ha stabilito che quando l’attività commerciale non è connessa e accessoria a quella agricola, l’impresa agricola è fallibile, respingendo il ricorso della società che cercava di ottenere una rivalutazione dei fatti.

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Impresa Agricola Fallibile: la Cassazione chiarisce quando prevale l’attività commerciale

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 11318 del 2024 offre un’importante chiave di lettura sulla fallibilità dell’imprenditore agricolo. In linea di principio, l’impresa agricola non è soggetta a fallimento, ma questa regola trova un’eccezione quando l’attività commerciale esercitata diventa prevalente rispetto a quella puramente agricola. La decisione in esame chiarisce i confini tra queste due nature, confermando che un’impresa agricola fallibile è una realtà concreta quando il suo core business si sposta dalla coltivazione alla mera compravendita di prodotti di terzi.

Il caso: da produttrice a commerciante a causa di una calamità naturale

Una società agricola srl, originariamente dedita alla coltivazione di terreni, veniva dichiarata fallita dal Tribunale. La società proponeva reclamo alla Corte d’Appello, che tuttavia confermava la decisione di primo grado.
La Corte territoriale rilevava che, sebbene l’oggetto sociale prevedesse l’attività agricola, includeva anche l’acquisto e la vendita di terreni, aziende agricole e attività nel settore turistico, industriale e commerciale. L’elemento decisivo, però, era l’attività effettivamente svolta. A seguito di un’alluvione avvenuta nel 2005, che aveva reso impossibile la coltivazione dei terreni, la società aveva iniziato ad acquistare ingenti quantitativi di prodotti agricoli (nello specifico, patate da consumo) da un’altra azienda per poi rivenderli. Questa operatività, secondo i giudici di merito, aveva trasformato la natura dell’impresa da agricola a commerciale, rendendola quindi soggetta alla procedura fallimentare.

I motivi del ricorso e l’analisi della fallibilità

L’impresa ricorreva in Cassazione lamentando, tra le altre cose, la violazione dell’art. 2135 c.c. che definisce l’imprenditore agricolo. Sosteneva che i giudici di merito avessero trascurato documenti che provavano la persistenza dell’attività agricola, come contratti di affitto di fondi, fatture per l’acquisto di sementi e materiale per l’irrigazione. In sostanza, la ricorrente chiedeva una nuova valutazione dei fatti, sostenendo che l’attività prevalente fosse rimasta quella agricola e che quella commerciale fosse solo una conseguenza temporanea della calamità.

La decisione della Corte di Cassazione: la prevalenza come criterio chiave

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno ribadito un principio fondamentale: lo svolgimento di un’attività agricola non pone l’impresa al riparo dal fallimento se, contemporaneamente, viene esercitata un’attività commerciale non connessa e non secondaria.

La distinzione tra attività agricola e attività connessa

L’art. 2135 c.c. definisce come “connesse” le attività di commercializzazione di prodotti ottenuti “prevalentemente” dalla coltivazione del proprio fondo. Nel caso di specie, la società non commercializzava i propri prodotti, resi inesistenti dall’alluvione, ma prodotti acquistati da terzi. Questa operatività non rientra nella nozione di attività connessa, ma costituisce un’attività commerciale autonoma e distinta. L’accertamento della prevalenza dell’una sull’altra è una valutazione di fatto, riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di Cassazione se, come in questo caso, adeguatamente motivata.

L’onere della prova e i limiti del giudizio di Cassazione

La Corte ha anche chiarito la ripartizione dell’onere probatorio. Spetta a chi chiede la dichiarazione di fallimento (il creditore o il PM) dimostrare l’esistenza di un’attività commerciale. Spetta invece all’imprenditore che invoca l’esenzione dal fallimento provare che tale attività commerciale rientra nei limiti dell’attività connessa ai sensi dell’art. 2135 c.c., ovvero che è secondaria e legata ai prodotti del proprio fondo. Il ricorso è stato giudicato inammissibile proprio perché, sotto la veste di violazione di legge, mirava a una rivalutazione dei fatti già compiuta dai giudici di merito.

Le motivazioni

La motivazione della Corte di Cassazione si fonda sulla netta distinzione tra il giudizio di merito e quello di legittimità. La Corte ha stabilito che la valutazione della natura, agricola o commerciale, e della prevalenza di un’attività sull’altra, si basa su elementi concreti (fatture, bilanci, dichiarazioni della stessa parte) il cui esame spetta esclusivamente ai giudici di primo e secondo grado. La Cassazione non può sostituire la propria valutazione a quella dei giudici di merito, ma solo verificare che la legge sia stata applicata correttamente e che la motivazione sia logica e non contraddittoria. Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva logicamente dedotto la natura commerciale prevalente dal fatto che, dal 2005, la società non coltivava più i terreni ma acquistava e rivendeva prodotti di terzi, trasformandosi di fatto in un’impresa commerciale.

Le conclusioni

La sentenza consolida il principio secondo cui la qualifica di imprenditore agricolo non è uno scudo assoluto contro il fallimento. Se l’attività commerciale, intesa come acquisto di beni da terzi per la rivendita, diventa l’attività principale o addirittura esclusiva, l’impresa perde la sua natura agricola ai fini dell’esenzione dal fallimento e può essere dichiarata fallita come qualsiasi altra impresa commerciale. Questa pronuncia serve da monito per le imprese agricole che, per scelta o per necessità, affiancano alla produzione primaria un’intensa attività di commercializzazione di prodotti non propri: il superamento del criterio di prevalenza può comportare la perdita di un importante beneficio di legge.

Un’impresa agricola può essere dichiarata fallita?
Sì, un’impresa agricola può essere dichiarata fallita se, accanto all’attività agricola, svolge un’attività commerciale che non è meramente accessoria o connessa, ma diventa prevalente o esclusiva. L’esenzione dal fallimento non è assoluta.

Cosa distingue un’attività commerciale ‘connessa’ da una prevalente ai fini della fallibilità?
Un’attività commerciale è ‘connessa’ (e quindi non rende l’impresa fallibile) se ha ad oggetto la commercializzazione di prodotti ottenuti ‘prevalentemente’ dalla coltivazione del proprio fondo. Diventa invece un’attività commerciale ‘prevalente’ (che rende l’impresa fallibile) quando riguarda principalmente o esclusivamente l’acquisto e la rivendita di prodotti di terzi.

A chi spetta l’onere di provare la natura commerciale dell’attività di un’impresa agricola?
Spetta a chi richiede la dichiarazione di fallimento (es. un creditore) allegare e dimostrare l’esistenza di un’attività commerciale. Grava invece sull’imprenditore agricolo, che invoca l’esenzione, dimostrare che tale attività rientra nei limiti di quelle ‘connesse’ previste dall’art. 2135 c.c. e non è quindi prevalente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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