Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 30683 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 30683 Anno 2024
Presidente: CONDELLO NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/11/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6269/2024 R.G. proposto da :
NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè
contro
NOME COGNOMENOME COGNOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 2569/2023 depositata il 20/12/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Fatti di causa
1.NOME COGNOME, da un lato, ed i suoi genitori e fratelli dall’altro (ossia NOME COGNOME COGNOME ed NOME COGNOME e NOME ed NOME COGNOME), hanno affidato la soluzione di una controversia sulla gestione delle società di famiglia ad un collegio arbitrale, che ha emesso il conseguente lodo.
Per transigere l’esecuzione di tale lodo, le parti hanno stipulato una transazione, in data 30 maggio 2001, con la quale, tra l’altro, NOME si è impegnato a far conseguire al fratello NOME il 52,12% del capitale sociale della società RAGIONE_SOCIALE, mentre, per contro, NOME si è impegnato a far avere a NOME la partecipazione totalitaria della società RAGIONE_SOCIALE, mediante cessione dell’intero capitale sociale di RAGIONE_SOCIALE, ed a garantire che il suo operato di amministratore
delle società del gruppo RAGIONE_SOCIALE non NOME oggetto di azioni di responsabilità.
Qualche mese dopo, nell’ottobre del 2001, NOME e gli altri familiari hanno sottoscritto un atto, denominato dalle parti ‘atto ricognitivo’, volto ad attestare l’avvenuto adempimento delle obbligazioni assunte nella transazione.
Tuttavia, NOME ha ritenuto il fratello NOME inadempiente agli obblighi assunti con i precitati accordi: secondo lui, quest’ultimo era venuto meno sia all’obbligazione di procurargli le quote della società, sia alla obbligazione di far sì che non NOME esposto ad azioni di responsabilità. Di conseguenza, nel 2008, si è avvalso della clausola risolutiva espressa (della transazione) ed ha notificato atto di citazione finalizzato a far accertare che il contratto si era risolto, per effetto dell’esercizio del diritto potestativo di risoluzione, e per ottenere la restituzione di quanto da lui versato in adempimento dell’accordo. In quel giudizio si sono costituiti sia NOME che le altre parti (i genitori sono poi deceduti nel corso della causa, cosi che è rimasta la sola sorella NOME), ed hanno resistito alle domande: il solo NOME ha proposto una domanda riconvenzionale di risarcimento del danno.
Le pretese di NOME sono state rigettate sia dal Tribunale di Bologna, in primo grado, che dalla Corte di Appello in secondo.
2.- Tuttavia, la decisione di appello è stata annullata da questa Corte con sentenza n. 16316/2018, sui seguenti aspetti. Intanto, si è deciso che l’atto chiamato dalle parti ‘atto ricognitivo’, dell’ottobre del 2001, non poteva ritenersi validamente concluso in quanto la proposta non era stata seguita da valida accettazione: le parti avevano previsto una forma scritta volontaria e dunque l’accettazione avrebbe dovuto farsi in quella forma, e non poteva essere surrogata da un comportamento concludente, come invece sosteneva chi quella scrittura invocava.
Né comunque quell’atto conteneva dichiarazioni confessorie o ricognitive dell’avvenuto esatto adempimento della transazione, in quanto era da intendersi la mera puntuazione di una ‘ulteriore’ transazione, mai conclusasi, per le ragioni di forma già dette.
Inoltre, non poteva neanche dirsi che l’inadempimento era imputabile a NOME, il quale era stato messo in mora dalla controparte affinché accettasse la prestazione, posto che la mora del creditore presuppone un atto formale che invece non c’era stato.
Ancora: dal fatto che erano state adempiute alcune obbligazioni non si poteva dedurre che lo NOMEro state anche altre.
Infine: quanto all’obbligo di NOME di far s ì che NOME NOME NOME esposto ad azioni di responsabilità per il suo operato di amministratore, questa Corte ha ritenuto insufficiente, o meglio apparente, la motivazione resa dalla Corte di Appello, la quale aveva preso atto di una delibera di settembre 2007 con cui la società RAGIONE_SOCIALE si impegnava a non far valere la responsabilità di NOMENOME ritenendo valida la data di deliberazione, e, per altro verso, ha ritenuto che la successiva decisione di impugnare la sentenza che escludeva la responsabilità di NOME, presa nel gennaio del 2008, dunque pochi mesi dopo, non era indicativa di un ripensamento e dunque di inadempimento dell’obbligo, in quanto quella successiva decisione era stata presa dall’amministratore giudiziario della società, rispetto a cui (sembrava sottinteso) NOME non poteva interferire.
Questa Corte ha ritenuto insufficiente questa motivazione, sia quanto all’accertamento della data della prima delibera (settembre 2007), dato rilevante per stabilire se l’impegno assunto NOME anteriore o successivo all’esercizio del diritto di risoluzione del contratto; sia quanto al rilievo dato alla successiva delibera, che, pochi mesi dopo quella contenente impegno a non far valere la responsabilità, invece ha espresso volontà che la si accertasse.
Questa Corte ha ritenuto che la motivazione non potesse limitarsi a rilevare che la successiva delibera era stata assunta dall’amministratore giudiziario, segno di una decisione estranea al COGNOME.
Dunque, la precedente decisione di questa Corte (16316 /2018) ha rimesso in discussione, quanto ai profili di cui si è detto, la circostanza che NOME avesse adempiuto correttamente agli impegni assunti con la transazione e, con essa, il fatto che NOME si era avvalso illegittimamente della clausola risolutiva espressa, che aveva come presupposto l’inadempimento della controparte. Contrariamente, dunque, a quanto accertato dai giudici di merito.
Ma questa decisione è andata incontro ad una azione di revocazione: NOME ha infatti prospettato la circostanza che il settimo motivo di ricorso, che era stato dichiarato assorbito, andasse invece deciso nel merito. Ed era un motivo che verteva proprio sull’inadempimento di COGNOME.
Questa Corte, con decisione 32782 del 2019, ha dichiarato, sì, inammissibile la revocazione, ma ha precisato che il giudice di rinvio rimaneva libero di accertare l’esatto adempimento da parte di COGNOME, proprio perché la relativa questione era stata erroneamente ritenuta assorbita dalla precedente decisione della Corte.
3.- Dunque, nel giudizio di rinvio si è nuovamente discusso se NOME, al momento in cui NOME ha fatto valere la clausola risolutiva espressa, NOME effettivamente inadempiente.
La Corte di appello, in sede di rinvio, ha ribadito che: a) l’obbligazione assunta da NOME di procurare a NOME le azioni di NOME non è stata, sì, adempiuta, ma per condotta dello stesso NOME, che ha frapposto impedimenti, avendo la materiale disponibilità di quelle azioni, che RAGIONE_SOCIALE aveva dato in pegno a RAGIONE_SOCIALE, società facente capo, per l’appunto, a
NOME; b) l’obbligazione sempre assunta da NOME di far s ì che non si esercitassero azioni di responsabilità verso NOME era da considerarsi anche essa adempiuta, attesa la delibera in tal senso del settembre 2007, la cui data poteva dirsi certa, ed atteso che il successivo ‘ripensamento’, con la delibera del gennaio 2008, era frutto della iniziativa dell’amministratore giudiziario.
In conclusione, la Corte di Appello ha ribadito il rigetto delle pretese di NOME accertando che NOME, al momento in cui NOME si è avvalso della clausola risolutiva espressa, non poteva ritenersi inadempiente.
4.- Questa decisione è qui oggetto di ricorso per cassazione da parte di NOME COGNOME COGNOME con sei motivi di censura, illustrati da memoria, cui hanno fatto seguito i controricorsi di NOME COGNOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME, anche essi illustrati da memoria.
Ragioni della decisione.
1.- Con il primo motivo si prospetta nullità della sentenza per motivazione apparente e dunque per violazione dell’articolo 132 c.p.c., ma altresì violazione del principio di diritto imposto al giudice di rinvio, e dunque violazione dell’articolo 384 c.p.c. La tesi è la seguente.
Come si è visto, la precedente decisione di questa Corte, ossia quella del 2018, aveva annullato la sentenza della Corte di Appello per vizio di motivazione, relativamente alla questione dell’adempimento da parte di NOME dell’obbligo di far s ì che cessassero le azioni di responsabilità verso NOME: i giudici di merito avevano ritenuto adempiuto tale obbligo prendendo atto della esistenza di una deliberazione societaria con cui, nel settembre 2007, si ‘rinunciava’ a proseguire nell’azione di responsabilità, ed avevano ritenuto irrilevante il fatto che pochi
mesi dopo invece era stata adottata una deliberazione di segno contrario, con cui si promuoveva l’impugnazione della decisione di primo grado che aveva escluso la responsabilità di NOME nella gestione delle società. Ciò in quanto questa successiva deliberazione, ossia questo ripensamento, era opera dell’amministratore giudiziario.
Il ricorrente ritiene che il giudice del rinvio è dunque incorso nel medesimo vizio di motivazione di quello precedente, ed ha assunto una decisione identica, nei motivi, a quella già annullata proprio per difetto di sufficiente motivazione: avrebbe dovuto il giudice del rinvio non solo precisare perché riteneva certa la data della prima delibera (2007), ma altresì perché riteneva ininfluente sulla questione dell’avvenuto adempimento la circostanza che una seconda delibera era stata presa, non potendosi limitare il giudice del rinvio, come aveva fatto quello precedente, ad addurre che la seconda delibera era opera dell’amministratore giudiziario e non di COGNOME. Avrebbe dovuto cioè dire di più, o di diverso.
Il motivo, che non è privo di autosufficienza, come suppone la controricorrente NOME, e che, anzi, è sostenuto da pregevoli argomenti, è tuttavia infondato.
Va fatta una premessa.
Il ricorrente, come si è detto, sintetizzando la sua censura, sostiene che il giudice del rinvio ha riproposto la medesima apparente motivazione di quello precedente, ossia non ha chiarito adeguatamente la questione del ritenuto adempimento da parte di NOME all’obbligo di far s ì che cessassero le azioni di responsabilità ai danni di NOME.
Il giudice del rinvio in sostanza sarebbe incorso nello stesso identico vizio che aveva portato all’annullamento della precedente decisione di secondo grado.
Questa prospettiva non tiene conto delle precisazioni svolte dalla decisione di questa Corte, resa nel 2019, a seguito del ricorso per
revocazione. Il giudizio di rinvio, che ciò sia avvenuto correttamente o meno è questione qui non più discutibile, è segnato non solo dall’annullamento della precedente decisione di appello, ma altresì dalla successiva decisione di questa Corte che ha deciso la revocazione.
In questa ultima decisione, infatti, si precisa che l’unico vincolo imposto al giudice di rinvio, è quello contenuto nel principio di diritto affermato dalla decisione del 2018: <> (p. 12). E che nessuna preclusione può ritenersi imposta al giudice di rinvio a pronunciarsi anche su tale aspetto, mantenendo la Corte bolognese, su di esso, quella possibilità di <> (p. 12).
Dunque, il giudice del rinvio aveva ‘ piena libertà’ di accertare l’adempimento di NOME, con l’unico limite di non poter indurre l’adempimento di una obbligazione dal fatto che era stata adempiuta l’altra.
Ciò detto, potrebbe sembrare che il problema della motivazione rimanga, ossia che, libero che NOME il giudice di rinvio di accertare nuovamente ed autonomamente quel fatto, era però tenuto a motivare rispettando le indicazioni della decisone del 2018.
Questa è invece una asserzione discutibile: se il giudice di merito è libero di accertare nuovamente i fatti, è altresì libero di motivare nuovamente e diversamente. Ossia: l’obbligo di motivare meglio in sede di rinvio presuppone che i fatti non si discutano, è solo la motivazione che va resa migliore. Invece, se il giudice di rinvio è
rimesso nel potere di accertare diversamente i fatti, o comunque autonomamente, è rimesso altresì nel potere di motivare di conseguenza. Non sarebbe logico che, pur potendo accertare i fatti nuovamente ed autonomamente, sia però obbligato a motivare in base all’accertamento fatto dal giudice precedente. La motivazione è l’esposizione degli argomenti in base ai quali è stato fatto un dato accertamento: nuovo l’accertamento, nuova la motivazione.
In tal senso, non si può ritenere violata la regola che impone al giudice del rinvio di attenersi al principio di diritto enunciato dalla Corte (art. 384 c.p.c.), poiché quel principio di diritto è stato integrato dalla successiva decisione del 2019, né può dirsi nuovamente apparente la motivazione: essa dà conto delle ragioni che, secondo la corte di merito, portano a credere nella data della prima delibera e che portano ad escludere un ruolo di COGNOME nella seconda. Su quest’ultimo punto, non si può peraltro ritenere apodittica la decisione, poiché dire che la seconda delibera è assunta da un amministratore giudiziario implica dire che di conseguenza non è assunta da NOME, ossia implica dire che costui non poteva impedirla.
Altro discorso è quello relativo alla corretta valutazione dei fatti e delle prove che hanno portato il giudice di rinvio a questa sua conclusione. Altro discorso è dire che invece quella successiva delibera è frutto della condotta del convenuto, a dispetto di quanto accertato dai giudici di merito: proporre una diversa ricostruzione dei fatti, dicendo che l’amministratore giudiziario non c’era, è indagine qui preclusa.
Di certo la motivazione non può dirsi apparente, posto che fornisce argomenti (fondati o meno che siano, la relativa questione appartiene ad altro) del perché è stata assunta.
2.Con il secondo motivo si prospetta un vizio di ‘omesso esame di fatti decisivi con riguardo alle obbligazioni correlate, ma ben
distinte o alternative rispetto alle obbligazioni di trasferire le azioni, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.’ .
La tesi del ricorrente è che COGNOME si era obbligato ad una prestazione alternativa: cedere la società RAGIONE_SOCIALE o la società Casella, ad ogni modo far sì che, rinunciando RAGIONE_SOCIALE alle sue pretese su RAGIONE_SOCIALE e sulle RAGIONE_SOCIALE, queste ultime potessero andare al ricorrente. Ma questa ultima obbligazione sarebbe rimasta inadempiuta, come è dimostrato dall’azione intentata da RAGIONE_SOCIALE verso RAGIONE_SOCIALE (che aveva in pegno le azioni di RAGIONE_SOCIALE).
Sostiene il ricorrente di avere prospettato questo fatto, ossia di aver allegato la volontà di COGNOME di non adempiere (oltre che il relativo inadempimento) all’obbligo contrattualmente assunto di cedere i ‘diritti connessi’, di procurare COGNOME, senza che però il giudice del rinvio se ne sia fatto carico.
Scrive il ricorrente: <> (p. 45).
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la ratio della decisione impugnata è un’altra: la Corte di rinvio si occupa della questione se NOME abbia adempiuto alla obbligazione di trasferire RAGIONE_SOCIALE ed i diritti connessi, e ritiene che non
possa ravvisarsi alcun inadempimento in quanto, oltre ad accettare la dilazione richiesta da NOME, NOME era titolare delle quote di RAGIONE_SOCIALE, che aveva in pegno quelle di RAGIONE_SOCIALE, ed è stato il suo comportamento a rendere impossibile il trasferimento di quest’ultima società.
Scrivono i giudici del rinvio che <> (p. 19).
Ma soprattutto concludono nel senso che: <> P. 20).
Ossia: quanto detto in ordine alla difficoltà di cedere azioni senza la cooperazione di NOME, secondo i giudici di merito, è sufficiente ad escludere l’inadempimento, anche senza valutare le altre circostanze: si tratta di una ratio decidendi autonoma.
Per meglio dire: i giudici di merito, ed ancora una volta qui non rileva stabilire se abbiano valutato adeguatamente i fatti (che è cosa diversa dall’omesso esame), sostengono che allo scopo di stabilire se vi sia stato inadempimento da parte di NOME basterebbe quella circostanza, ossia basterebbe prendere atto che costui ha provato ad adempiere, e che il trasferimento non si è potuto realizzare anche per il comportamento di NOME, senza bisogno di indagare oltre.
Inoltre, aggiungono che tale ratio decidendi , espressa già dal giudice del primo grado, non è stata impugnata.
Dunque, abbiamo qui due rationes che reggono la decisione del giudice di rinvio: la prima è che quanto accertato dal giudice del primo grado -ossia che l’esito del trasferimento non è stato positivo anche per colpa di NOME -è un accertamento che, da solo, consente di escludere inadempimento; la seconda è che tale ratio neanche è stata impugnata.
Questa due rationes non sono attinte qui dalla censura di omesso esame.
Lo sono con il motivo successivo.
3.- Con il terzo motivo, infatti, il ricorrente prospetta una violazione degli articoli 384 e 393 c.p.c. e dunque una violazione degli ambiti propri del giudizio di rinvio.
La tesi è la seguente.
La Corte di rinvio ha ritenuto che l’adempimento da parte di NOME è stato impedito dal comportamento di NOME, ossia dagli ostacoli da costui frapposti. Secondo il ricorrente però questo tema di indagine non era ricompreso nel giudizio di rinvio, che è giudizio chiuso, nel quale non si possono introdurre per l’appunto temi di indagine nuovi rispetto ai giudizi precedenti. I temi imposti dall’annullamento ad opera della sentenza del 2018 infatti erano diversi: l’ambito del giudizio di rinvio è segnato da quell’annullamento, ed in quell’ambito non era compreso che si accertasse il ruolo di NOME nel trasferimento a costui delle azioni di RAGIONE_SOCIALE o di altre società.
Questa tesi è infondata.
Non tiene conto del fatto che l’ambito del rinvio è segnato oltre che dalla decisione del 2018, altresì da quella del 2019, di revocazione della prima. E nella decisione del 2019, di questa Corte, come è pacifico, e come si è ricordato più volte, è statuito che il giudice del rinvio è rimesso nel potere di accertare nuovamente ed autonomamente l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte da COGNOME (p. 12 della ordinanza 32782/ 2019)
Non si può stabilire quale NOME il giudizio di rinvio senza tener conto della decisione successiva, che interpreta le statuizioni della decisione del 2018, oggetto di revocazione, e che concorre a fissare l’ambito del giudizio di rinvio.
Ora, sostiene il ricorrente, che pure tiene conto della decisione di revocazione, che essa non sposta i termini del problema, sia in quanto le affermazioni che quella ordinanza fa sono meri obiter , sia in quanto la sua ratio è quella di chiedere al giudice di rinvio di accertare nuovamente se vi sia inadempimento di NOME, ma non già di accertare se l’adempimento sia stato reso impossibile da NOME.
Ma questi argomenti non sono condivisibili. Intanto, l’affermazione contenuta nella decisione del 2019, di revocazione, secondo cui la precedente decisione del 2018 non impedisce al giudice di rinvio di accertare autonomamente e di nuovo l’adempimento di COGNOME, non è un mero obiter dictum , ma costituisce la ratio della decisione, ciò che fonda la decisione di inammissibilità della revocazione, che, altrimenti, sarebbe stata ammissibile. In secondo luogo, quella decisione chiaramente individua l’ambito del giudizio di rinvio, e lo individua nei seguenti termini: che il giudice di rinvio è libero di accertare di nuovo ed autonomamente i fatti, ossia l’adempimento, con il solo limite che non si può ricavare l’avvenuto adempimento di una obbligazione dalla circostanza che sia stata adempiuta l’altra: <> (p. 12).
Naturalmente accertare quali siano le obbligazioni adempiute, significa accertare altresì le cause che eventualmente hanno impedito l’adempimento: il tema non è ristretto ad un solo momento della attuazione del rapporto obbligatorio, ma
evidentemente comprende anche l’altro. Non si può demandare al giudice di merito di accertare se un tale sia inadempiente precludendogli di accertare le cause dell’inadempimento.
Pare al collegio ragionevole dire che dunque quello era l’ambito del giudizio di rinvio, fermo restando che eventuali perplessità favorite dalla prima e dalla seconda decisione di questa Corte non possono qui costituire motivo di doglianza.
3.1.- Su queste due rationes decidendi , ossia, da un lato, il fatto di ritenere sufficiente ad escludere l’inadempimento la circostanza che il creditore ha ostacolato l’adempimento e la circostanza che questo accertamento (la condotta ostativa del creditore) non è stato appellato il ricorrente muove censure nel quinto motivo, che dunque è da esaminare, per conseguenzialità, prima degli atri.
Con tale quinto motivo, infatti, il ricorrente prospetta violazione dei principi e delle norme in tema di giudicato interno e in tema di principio di non contestazione, nonché in tema di effetto sostitutivo dell’appello, ex artt. 338 e 393 c.p.c.
La sua tesi è la seguente.
Intanto, non è vero che l’accertamento circa il ruolo del creditore, ossia circa il fatto che il creditore avrebbe ostacolato l’adempimento, non è stato impugnato: lo è stato invece ampiamente e si indicano i luoghi di tale contestazione. In secondo luogo, si tratta di accertamento non suscettibile di passare in giudicato e dunque è irrilevante, che, in ipotesi, non sia stato oggetto di impugnazione.
La tesi di fondo è la seguente: il giudice di appello, sul punto, si è limitato a prendere per buono un accertamento fatto dal giudice di primo grado, nel procedimento precedente l’annullamento con rinvio, senza compiere un autonomo accertamento di quei fatti: con la conseguenza che l’accertamento di cui il giudice del rinvio si è fidato è stato travolto sia in appello che nel giudizio di cassazione, che l’ha, per l’appunto, annullato.
Più precisamente, ha dato efficacia vincolante (p. 66) ad accertamenti, che invece erano meri obiter dicta e che non sono sopravvissuti alla fine, ossia sono stati annullati dalla decisione di questa Corte del 2018.
Il motivo è infondato.
Infatti, la corte di rinvio non ha preso per vincolanti le considerazioni del giudice di primo grado, ma ha compiuto una autonoma valutazione di quell’accertamento, sia dando un rilievo diverso alla lettera di COGNOME, che compiendo nuovo esame delle risultanze istruttorie (p. 20 e ss.): dunque quando anche si ammettesse che quelle valutazioni, nella decisione di primo grado, erano meri obiter dicta , in quella qui impugnata, ed è ciò che rileva, sono rationes decidendi autonome.
4.- Il quarto motivo prospetta una violazione degli articoli 101 e 112 c.p.c.
È subordinato al precedente, ed attiene alla medesima questione. Si sostiene che, quando anche si ammettesse che faceva parte del giudizio di rinvio la questione della impossibilità di adempiere, essa è stata decisa però senza contraddittorio sul punto. Ciò in quanto COGNOME si era difeso diversamente, ossia aveva ammesso che si doveva discutere solo dell’adempimento del suo obbligo di trasferire le azioni, e non di altro, e dunque il giudice di merito, accertando l’ altro, ha violato il principio del contraddittorio (<>.( p. 55) ).
Inoltre, sempre d’ufficio e senza stimolare il contraddittorio sul punto, la corte di rinvio ha dato rilievo alla lettera scritta da NOME con cui quest’ultimo si era dichiarato disponibile al
trasferimento delle azioni, e l’ha intesa quale indizio del fatto che NOME non era inadempiente.
Invece, secondo il ricorrente, la corte di merito avrebbe dovuto segnalare alle parti la questione del rilievo da dare a tale lettera e far sì che esse potessero argomentare di conseguenza.
Il motivo è infondato.
Le questioni asseritamente sollevate d’ufficio erano in atti: era già in atti la questione della lettera inviata da NOME, il quale l’aveva nei precedenti gradi invocata a dimostrazione del fatto che non era inadempiente. Anzi, su quel punto, sul rilievo da dare a tale lettera, c’è stato annullamento da parte di questa Corte con la sentenza del 2018: annullamento che ha riguardato solo l’impossibilità di attribuire a quella lettera il valore di una formale messa in mora, e che dunque ha lasciato libero il giudice di rinvio, secondo quanto detto sopra, di intenderla in altri termini: ed il giudice del rinvio ha provveduto conformemente, intendendo la lettera alla stregua di un indizio o di un elemento di prova dell’assenza di colpa del COGNOME. Va poi osservato che il tema di indagine devoluto al giudice del rinvio non è segnato dalle difese delle parti, ma dall’ambito del devoluto. In altri termini, se la parte non argomenta su un tema devoluto al giudice del rinvio, non vuol dire che quest’ultimo non se ne debba occupare: anche ammesso che NOME abbia inteso di doversi difendere solo sulla sua condotta e non già sulla condotta concorrente di NOME, ciò non significa che il tema di indagine dipenda dalla scelta difensiva della parte, né che dipenda da come la parte lo ha interpretato. Se un tema di indagine fa parte del giudizio di rinvio il giudice se ne deve occupare a prescindere dal fatto che le parti siano di diverso avviso o si difendano senza tener conto di quel tema di indagine. Ciò sempre ammesso che nelle difese di NOME ci NOME veramente la tesi che solo della sua condotta doveva discutersi e non già di quella di NOME, che era accusato di aver concorso ad impedire l’adempimento.
Le questioni ovviamente relative al valore probatorio di quella lettera, se volte a contestare l’apprezzamento del giudice di merito, sono qui inammissibili. Ma sono infondate quanto alla violazione del vincolo del rinvio. Va da sé che la precedente sentenza di questa Corte ha vincolato il giudice del rinvio solo ad un negativo accertamento: non affermare che quella lettera potesse costituire una formale messa in mora; il giudice del rinvio era tenuto a non considerare quella lettera come una formale messa in mora. Ma era libero, per quanto si è detto prima, di valutarla diversamente, e cosi ha fatto: l’ha ritenuta infatti un indizio del fatto che COGNOME ancora non era inadempiente. Né si è trattato dell’indizio decisivo ed esclusivo, poiché la corte di merito, con apprezzamento delle prove e dei fatti, qui non censurabile, ha basato la sua conclusioneche NOME, al momento dell’esercizio del diritto potestativo di risoluzione contrattuale, non era ancora inadempiente – anche su altre prove, o su altri argomenti di prova emersi nei giudizi precedenti.
Né può ravvisarsi eccesso di pronuncia (112 c.p.c.) nel fatto di aver dato ad alcuni elementi (la cancellazione della società RAGIONE_SOCIALE dal registro delle imprese) un valore diverso da quello allegato dalle stesse parti (p. 61 del ricorso), poiché si tratta semmai di una diversa valutazione rimessa al giudice di merito, che, acquisito regolarmente agli atti un fatto o un atto, può valutarlo anche contro la parte che l’ha prodotto, e comunque in modo diverso da come quest’ultima propone. Ed in questo non c’è violazione della corrispondenza tra chiesto e giudicato.
6.Il sesto motivo prospetta motivazione apparente e contraddittoria, e comunque nuovamente omesso esame ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
Quanto alla motivazione contradditoria ed apparente la questione torna ad essere quella della mancata collaborazione all’adempimento da parte del creditore: secondo il ricorrente, la
corte di rinvio avrebbe, da un lato, usato il NUMERO_DOCUMENTO per asserire l’adempimento di NOME, per altro verso, avrebbe invocato quello stesso documento per inferirne l’impossibilità di adempiere da parte di NOME.
Questa censura però è infondata.
Non è alcuna contraddizione, posto che la ratio della decisione è chiara, non apparente né contraddittoria: non è stato possibile cedere le azioni in quanto il creditore non ha collaborato, ed aveva la disponibilità dei titoli, per la cui formale cessione era dunque necessario un suo comportamento. Né rileva alcuna contraddizione tra la valutazione del documento fatta dal giudice di rinvio e quella fatta dal giudice di primo grado.
Va da sé per altro che il vizio di motivazione rileva oggi, dopo la riforma, solo se impedisce di comprendere le ragioni della decisione, ossia se manca del tutto l’esposizione degli argomenti che hanno indotto il giudice di merito a decidere in quel modo.
Infine, il motivo ripropone la questione dell’omesso esame del fatto che la società RAGIONE_SOCIALE ha fatto causa a COGNOME, azione giudiziaria da cui avrebbe dovuto indursi che il ‘gestore’ di RAGIONE_SOCIALE, cioè NOME, non aveva alcuna intenzione di fare la cessione delle quote di RAGIONE_SOCIALE (NOME le aveva in pegno).
Vale quanto si è già detto: il fatto non è omesso, ma ritenuto non essenziale ai fini del decidere, in quanto secondo l’apprezzamento del giudice di merito, a dimostrare che NOME non era inadempiente è bastato dare rilievo agli impedimenti frapposti da NOME.
7.Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione, per ciascuno dei controricorrenti, delle spese di lite, nella misura di
7.500,00 euro per compensi, oltre 200,00 euro per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 18/10/2024.