Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 6644 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 6644 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20897/2022 R.G. proposto da : COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BARI n. 804/2022 depositata il 20/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Svolgimento del processo
Con querela dell’8 agosto 2010, NOME COGNOME esponeva di avere stipulato con NOME COGNOME in data 26 gennaio 2010, un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo ubicato in Bari per il periodo dal 1° marzo 2010 al 29 febbraio 2012 e di essersi avveduto, dopo poco tempo, che l’immobile presentava dei vizi che rendevano impossibile la prosecuzione della locazione, per cui in data 28 aprile 2010 comunicava al proprietario di voler recedere dal contratto entro e non oltre il 1 agosto 2010 avendo necessità di reperire una nuova abitazione ed effettuare il trasloco. In data 28 luglio 2010, però, il conduttore comunicava al proprietario di avere bisogno di qualche altro giorno per completare il trasloco. Aggiungeva il Carrieri che in data 6 agosto 2010 il proprietario si era introdotto nell’appartamento locato comunicando, il giorno successivo, di avere cambiato la serratura e che avrebbe avuto comunque cura degli effetti personali lasciati dal conduttore.
Dopo la prima querela, in data 26 novembre 2011, il locatore informava il COGNOME di avere venduto i beni di sua proprietà poiché lo stesso non aveva provveduto a ritirarli dall’immobile in questione ; al tempo stesso, il COGNOME apprendeva dell’esistenza di un procedimento di sfratto per morosità nei suoi confronti e dell’esistenza di una ingiunzione di pagamento per i canoni di locazione non corrisposti. A seguito di ciò presentava una seconda querela nei confronti del COGNOME, che veniva tratto a giudizio per i reati di violazione di domicilio, appropriazione indebita ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Con sentenza del 2016 il Tribunale penale di Bari assolveva il Petino dai reati contestatigli. Quanto alla violazione di domicilio il Tribunale aveva ritenuto attendibile la versione dell’imputato secondo cui le chiavi gli sarebbero state consegnate dallo stesso conduttore;
quanto all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il Petino aveva già fatto ricorso alla giustizia ottenendo lo sfratto per morosità e relativo decreto ingiuntivo esecutivo per il pagamento dei canoni non corrisposti; quanto all’appropriazione indebit a, il Tribunale aveva rilevato che i beni rinvenuti nell’appartamento non erano stati affidati all’imputato precedentemente così venendo meno il presupposto della indebita appropriazione.
Avverso tale sentenza proponeva appello ai soli effetti civili il Carrieri, e la Corte territoriale di Bari condannava l’imputato al risarcimento dei danni limitatamente ai reati di violazione di domicilio ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rilevando che il primo giudice non aveva tenuto conto delle norme civilistiche in materia di rilascio degli immobili a seguito dello sfratto. L’emanazione del provvedimento di convalida, difatti, non consentiva di ritenere concluso il procedimento, ma necessi tava dell’attività dell’ufficiale giudiziario per reim mettere nel possesso dell’appartamento il proprietario. Nello stesso modo risultava pacificamente che il proprietario dell’immobile avesse asportato i beni da sé, senza avvalersi dell’ufficiale giudiziario per l’inventario degli stessi. La Corte valorizzava le prove dichiarative espletata in primo grado senza provvederne alla riassunzione nel giudizio di appello.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il Petino.
La Corte di cassazione penale, con sentenza del 28 febbraio 2019 n. 8711, in applicazione del principio della obbligatorietà della rinnovazione delle prove dichiarative, rilevava che la Corte territoriale aveva riformato la decisione di primo grado ritenendo attendibile il racconto della persona offesa, riscontrato da altri elementi, anche di tipo dichiarativo, mentre la versione dei fatti resa dall’imputato in un cont esto di elevata conflittualità non era suffragata da adeguati elementi che potessero inficiare la ricostruzione della persona offesa. La Corte aveva ritenuto insufficiente la deposizione del figlio dell’imputato e dell’amico
fondando la propria decisione su una diversa valutazione delle stesse prove dichiarative, senza preventiva riassunzione delle stesse. Conseguentemente annullava la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
L’appellante in riassunzione articolava nuovi mezzi istruttori. Si costituiva NOME COGNOME richiedeva di essere abilitato alla prova contraria e la Corte d’appello civile disponeva la acquisizione delle deposizioni testimoniali.
La Corte d’appello con sentenza del 20 maggio 2022 in accoglimento della domanda proposta da NOME COGNOME condannava NOME COGNOME al pagamento della somma di euro 8000 per danno patrimoniale e all’importo di euro 2000 per danno morale compensando per 1 /3 le spese di lite.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandosi a cinque motivi. Resiste con controricorso NOME COGNOME Entrambe le parti depositano memorie sensi dell’articolo 380 bis c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si lamenta la violazione degli articoli 112, 132, 177 e 178 c.p.c., in relazione all’articolo 360, n. 3 n. 4. La nullità della sentenza e l’omesso esame della domanda di revoca dell’ordinanza del 17 marzo 2021 della domanda -eccezione di compensazione totale o parziale e la violazione dell’articolo 111 della Costituzione.
In particolare, la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione la domanda di revoca dell’ordinanza istruttoria del 17 marzo 2021, formulata tempestivamente e reiterata nel verbale di causa del 16 giugno 2021 e nel foglio di precisazione delle conclusioni depositato in via telematica 17 novembre 2021. Allo stesso modo avrebbe omesso la valutazione della domandaeccezione di compensazione formulata in comparsa di costituzione e risposta e in sede di precisazione delle conclusioni. Con la prima si
richiedeva la revoca o la modifica dell’ordinanza perché adottata in difetto di idonea motivazione, con la seconda si faceva presente di avere un controcredito nei confronti del COGNOME costituito dai canoni non corrisposti e dalle spese della procedura di sfratto per complessivi euro 6600.
La censura, che più correttamente avrebbe dovuto essere dedotta ai sensi dell’articolo 360, n. 4 c.p.c. e 112 , è destituita di fondamento, poiché la Corte d’appello ha implicitamente disatteso la richiesta di revoca dell’ordinanza istruttoria del 17 marzo 2021 adottando una statuizione contraria al contenuto della richiesta del ricorrente.
Conseguentemente trova applicazione il principio secondo cui, nell’ipotesi in cui la sentenza impugnata abbia comunque, in qualche modo, espressamente deciso, sia pure in modo contrario alle aspettative del ricorrente, non è prospettabili il vizio di omessa pronunzia o omesso esame del fatto costituito dalla mancata revoca dell’ordinanza istruttoria (Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155).
Il vizio di omessa pronuncia non ricorre neppure quando la doglianza riguardi una o più istanze istruttorie non esaminate dal giudice del merito: in tal caso l’omessa pronuncia su un’istanza istruttoria può dar luogo al diverso vizio di omessa o insufficiente motivazione, che nel caso di specie è già oggetto del terzo motivo.
Pertanto, il mancato esame della richiesta di revoca dell’ordinanza istruttoria non è prospettabile ricorrendo l’ipotesi di rigetto implicito e cioè di provvedimento che accolga una tesi incompatibile con l’istanza e che quindi implichi, per logica incompa tibilità, il rigetto della stessa (Cass. 19 ottobre 2021, n. 28810).
Quanto al secondo profilo dedotto (omesso esame dell’eccezione di compensazione) il tema centrale riguarda la possibilità di proporre nuove domande o nuove richieste istruttorie o domande riconvenzionali o nuove eccezioni nel giudizio di rinvio ai sensi de ll’articolo 622 c.p.p. e, conseguentemente la natura giuridica e la
struttura del giudizio ex art. 622 c.p.p. davanti al giudice civile competente in gradi di appello.
Appare opportuno definire le caratteristiche essenziali del procedimento ex articolo 622 c.p.c. ed il rapporto tra il giudizio penale e quello civile.
L’esercizio dell’azione civile nel processo penale comporta l’insorgere di una serie di problematiche che spaziano dalla legittimazione attiva sino ai criteri di determinazione del danno patrimoniale e non patrimoniale ed alla sua liquidabilità totale o parziale anticipata.
Nel settore civile si privilegia la tutela del danneggiato, anche per il tramite di presunzioni legali o processuali, mentre nel settore penale vige un principio di stretta legalità, che impedisce di attribuire la responsabilità a un soggetto determinato per eventi troppo distanti dalla sua sfera di azione e controllo.
Pertanto, se la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, quella penale ruota intorno al ruolo dell’autore del reato.
Il tema centrale riguarda le regole applicabili nel giudizio di rinvio innanzi alla Corte d’appello civile a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione penale ai soli effetti civili ai sensi dell’art. 622 c.p.p.
L’enigmatica norma contenuta nell’art. 622 c.p.p., con cui è stato codificato uno spazio di transizione processuale tra giudizio penale e quello civile, da autorevolissima dottrina è stato ritenuto frutto di un ‘lapsus normativo’, in quanto all’interno del la disposizione convivono due ipotesi eterogenee: l’annullamento dei capi civili (ad esempio, perché i danni risultano male liquidati) e l’accoglimento del ricorso dalla parte civile contro il proscioglimento dell’imputato.
Questa Corte, in una serie di decisioni, ha affermato che il fondamento della scelta compiuta dal legislatore ex art. 622 c.p.p. nel rimettere le parti dinanzi al giudice civile ben può essere ravvisato nella presa di coscienza del dissolvimento delle ragioni che
avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle r agioni dell’accertamento penale a seguito della costituzione di parte civile, privilegiando il ritorno dell’azione civile alla sede sua propria. Scelta che aveva già trovato riscontro nell’interpretazione datane in passato dalle Sezioni Unite penali e civili: sul versante penale, con la sentenza ‘COGNOME‘ e, su quello civile, con la precedente pronuncia a Sezioni Unite civili n. 1768 del 26 gennaio 2011.
Le Sezioni unite penali del 4 giugno 2021 n. 22065 hanno confermato tale impostazione, adottata espressamente della cassazione civile con la sentenza 15859/2019 , affermando che, ‘verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all’illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale’.
Dall’affermata natu ra autonoma del giudizio civile conseguente all’annullamento in sede penale agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. rispetto a quello penale discendono, da un canto, la possibilità che le parti possano allegare fatti che consentano l’emendatio della domanda secondo i principi affermati dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 12310/2015, dall’altro, la applicabilità delle regole processuali civilistiche sia in tema di nesso causale, sia di valutazione delle prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale.
Ulteriore avallo del principio di autonomia e indipendenza tra i due giudizi si rinviene nella recente decisione della Corte Costituzionale (sentenza 30 luglio 2021, n. 182) che, nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p., ha affermato che il giudice dell’impugnazione penale, quando deve pronunciarsi sull’azione civile in presenza di un’estinzion e del reato per prescrizione o amnistia, «non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento in base alla regola dell”alto grado di probabilità logica’ ( affermata, come è noto, da
Cass. Pen. Ss.uu., 11 settembre 2002, n. 30328), operando, per l’illecito civile opera il diverso criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente”. L’art. 622 c.p.p. prevede, secondo la Consulta, una più radicale separazione del giudizio civile dal giudizio penale, con la conseguenza che la decisione sull’azione civile avverrà non solo sulla base del suo proprio standard probatorio, ma in conformità alle norme del Codice di procedura civile.
Alla luce di quanto precede può ritenersi principio consolidato quello secondo cui il giudice civile competente in grado di appello deve applicare le regole processuali e sostanziali del processo civile, con conseguente possibilità, per le parti, di proporre nuove questioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, e conseguente legittimità della modificazione della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pure nel limite de lle preclusioni fissato dall’articolo 183 c.p.c. (al tempo vigente) e tenuto conto della domanda formulata con le originaria costituzione di parte civile, da strutturare secondo modalità di contenuto di forma omologhe a quelle previste per l’atto di citazione (Cass. 12 giugno 2019, n. 15.859; Cass. 25 giugno 2019, n. 16.916; Cass. 10 settembre 2019, n. 22525).
Vige pertanto un principio di autonomia dell’azione civile rispetto alla fase penale che si è definitivamente esaurita (Cass. n. 517 del 2020) con l’ulteriore conseguenza che la separazione del giudizio civile dal pregresso procedimento penale comporta l’i rrilevanza del giudicato penale formatosi a seguito della cassazione con rinvio (Cass. n. 15859 del 12 giugno 2019). Ciò consente al giudice di appello civile di applicare le regole in tema di nesso causale fondate sul criterio civilistico del ‘più probabile che non’ anche a prescindere dalle contrarie (quanto illegittime) indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio in guisa di (altrettanto illegittimo) principio di diritto volto ad imporre al giudice di rinvio l’adozione di principi causali del tutto incompatibili con il giudizio civile.
In questi termini è l’orientamento della giurisprudenza di legittimità civile, secondo cui ‘il giudice civile, chiamato a decidere sulla domanda di risarcimento del danno per un fatto che sia stato oggetto di un provvedimento di archiviazione in sede penale, è tenuto a verificare l’integrazione della fattispecie atipica di cui all’art. 2043 c.c., senza poter accertare, in via incidentale, la ricorrenza di quella tipica contemplata dalla norma incriminatrice, stante l’ontologica diversità strutturale tra le due forme di illecito e la necessità di conformare l’accertamento giudiziale al rispetto del canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza’ (Sez. 3 -, Sentenza n. 3368 del 03/02/2023) con la precisazione che ‘nell’ipotesi di cassazione della sentenza penale di assoluzione ai soli effetti civili, il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. è deputato all’accertamento dell’illecito civile quale fattispecie autonoma da quella penale, in ragione della necessità di rispettare , in quest’ultima sede, il diritto alla presunzione di non colpevolezza (declinato dalla giurisprudenza della Corte EDU e da quella della Corte di giustizia dell’Unione europea come diritto della persona a non essere presentata come colpevole nelle decisioni successive a quella penale che la abbia prosciolta), sicché in esso trovano applicazione le regole processuali e probatorie e i criteri di giudizio propri del processo civile, restando precluso l’accertamento, in via incidentale, della responsabilità penale del convenuto’ (Cass . Sez. 3 -, Ordinanza n. 30496 del 18/10/2022 (Rv. 666267 – 01).
Sotto altro profilo, nella verifica ex art. 2043 c.c., il giudice civile utilizzerà i criteri di giudizio funzionali all’accertamento della responsabilità civile e le regole processuali che presiedono all’esercizio della giurisdizione civile, con riguardo sia ai mezzi di prova in senso stretto, sia alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 15290 del 31/05/2024 (Rv. 671810 01).
Riguardo alla natura del giudizio ex art. 622 c.p.p. il collegio intende ribadire e precisare che si tratta di un giudizio in grado unico, deciso dalla Corte d’appello civile, sulla base delle regole del procedimento ordinario di primo grado.
La decisione della Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p. determina una sostanziale “translatio iudicii” dinanzi al giudice civile, sicché la Corte di appello competente per valore, cui sia stato rimesso il procedimento ai soli effetti civili, deve applicare le regole, processuali e sostanziali, del giudizio civile; ne consegue, oltre alla possibilità di formulare nuove conclusioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, anche la legittimità della modificazione della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pure nel limite delle preclusioni fissato dall’art. 183 c.p.c., come interpretato dalla giurisprudenza, e tenuto conto della domanda formulata con l’originaria costituzione di parte civile secondo modalità contenutistiche e formali sostanzialmente omologhe a quelle previste per la citazione. (Sez. 3 -, Sentenza n. 517 del 15/01/2020, Rv. 656811 – 01).
Pertanto, la parte civile che abbia modificato la domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile può indicare i conseguenti mezzi di prova e le produzioni documentali nella citazione in riassunzione ovvero, qualora la riassunzione sia eseguita dalla controparte, nella comparsa di costituzione da depositarsi entro venti giorni prima dell’udienza di trattazione, mentre il convenuto può indicare la prova contraria, nel primo caso, nella suddetta comparsa di costituzione o, nel secondo, entro l’udienza di trattazione (Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 24954 del 21/08/2023).
Va precisato che una recente decisione di questa Corte (Cass. Sez. 3, n. 24047 del 06/09/2024, Rv. 672066 – 01), predicativa di un principio apparentemente (quanto incondivisibilmente) contrario,
risulta nella sostanza tamquam non esset, perché la ratio decidendi è riferita al secondo motivo del ricorso incidentale dichiarato preliminarmente inammissibile – onde il riferimento al giudizio ex art. 622 c.p.c. come procedimento di appello e non come giudizio in grado unico esula dalla ratio decidendi stessa.
In tale quadro processuale vanno valutati i profili della ammissibilità e della tempestività della domanda o della eccezione di compensazione.
Il Petino a pagina otto del ricorso per cassazione deduce che la ‘domanda -eccezione’ di compensazione è stata avanzata nella comparsa di costituzione e risposta.
Sotto tale profilo la deduzione è inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. perché il ricorrente non precisa di avere depositato la comparsa di costituzione 20 giorni prima dell’udienza, non trascrive i passaggi rilevanti del verbale di udienz a e non localizza l’atto all ‘interno del fascicolo di parte, perché non consente di valutare la tempestività del deposito rispetto alle preclusioni e decadenze sopra illustrate (il rispetto del termine di 20 gg prima dell’udienza per formulare domande riconvenzionali).
Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’articolo 622 c.p.p. e degli articoli 112, 345 e 394 c.p.c., in relazione all’articolo 360, n. 3 n. 4 c.p.c. La nullità della sentenza, l’omesso esame dell’eccezione di inammissibilità della domanda di liquidazione del danno e la violazione dell’articolo 244 c.p.c. e la omessa motivazione, in relazione a ll’articolo 360, n. 3 e n. 4. Poiché la Corte di cassazione penale ha annullato la sentenza della Corte di appello di Bari condannando l’imputato NOME COGNOME o, in via generica, al risarcimento del danno limitatamente ai reati di violazione di domicilio e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, rimettendo le parti davanti al giudice civile competente per la liquidazione, tale giudice, ai sensi dell’articolo 622 c.p.p. , può esaminare il contenuto della domanda avanzata dalla parte civile in
sede penale, ma tale domanda non potrebbe essere modificata dalla formulazione di nuove domande. Nel caso di specie, al momento della costituzione di parte civile, COGNOME aveva chiesto ‘il risarcimento di tutti danni patrimoniali e non patrimoniali derivati e derivandi dalla costituzione di parte civile’ , e tale formulazione non avrebbe potuto consentire l’ampliamento della domanda con quantificazione in via equitativa del danno materiale e di quello morale.
Il motivo è destituito di fondamento: nella specie, non si pone alcun problema di novità delle domande, giacché l’atto di costituzione di parte civile prevedeva una formulazione così ampia da ricomprendere certamente il pregiudizio poi in concreto valutato dalla Corte territoriale. Inoltre, il tenore letterale della stessa (‘risarcimento di tutti danni patrimoniali e non patrimoniali derivati e derivandi alla costituita parte civile’) non consente di ritenere che vi sia stata una richiesta di condanna soltanto generica, difettando la specifica riserva di far accertare, in altra sede, l’ammontare dei danni lamentati.
Con il terzo motivo lamenta la violazione dell’articolo 622 c.p.p., degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 126, 2043 e 2059 c.c., con riferimento all’articolo 360, n. 3 e n. 4 c.p.c. oltre alla omessa o comunque contraddittoria motivazione, in relazione all’art icolo 360, n. 3 e n. 4 c.p.c. La Corte di cassazione penale, nell’annullare la sentenza di appello, aveva rilevato che la Corte territoriale aveva imperniato ‘la sua decisione su una diversa valutazione delle prove dichiarative, senza preventiva riassunzio ne delle stesse’. L’indicazione della Corte di legittimità era, pertanto, nel senso di rinnovare l’escussione dei testi. Al contrario la sentenza impugnata tiene conto soltanto di una ulteriore prova testimoniale, quella del figlio del proprietario (NOME COGNOME senza tenere conto del dictum della cassazione secondo cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto riassumere tutta la prova dichiarativa.
In secondo luogo, la Corte territoriale non avrebbe potuto porre a fondamento del proprio convincimento la testimonianza della parte civile poiché questa, nel giudizio civile rende dichiarazioni non utilizzabili ai fini della decisione, se non come mera allegazione di parte. Al contrario, nella sentenza impugnata il collegio ha reiterato il medesimo errato ragionamento della sentenza penale di secondo grado annullata, ribadendo la sussistenza dei reati ascritti al Petino e non argomentando sulla rilevanza di quei fatti come illecito civile.
Pertanto, la Corte territoriale civile non affronta il tema del danno conseguenza e della risarcibilità del danno. Ad esempio, nel caso di violazione di domicilio di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non
è stata allegata una situazione di danno.
Nello stesso modo erroneamente la Corte territoriale ritiene provato il danno da appropriazione indebita che non costituisce illecito civile. La Corte liquida in via equitativa del danno patrimoniale, mentre la liquidazione equitativa non può sopperire, come nel caso di specie, alla carenza istruttoria non avendo natura sostitutiva della prova del danno, ma solo della difficoltà di una sua valutazione esatta.
Ulteriore violazione riguarda l’articolo 2059 c.c. liquidando un danno morale da reato senza motivare sulla individuazione del valore della persona garantito costituzionalmente che dovrebbe rappresentare il presupposto del risarcimento.
Il motivo è infondato. Sulla base dell’ampia premessa fatta nell’esaminare il primo motivo, appare destituita di fondamento la censura con la quale il ricorrente lamenta il mancato rinnovo dell’esame testimoniale con riferimento a tutti i testi escussi in primo grado.
Deve ribadirsi che trovando applicazione le regole del processo e civile non può estendersi a tale giudizio l’orientamento della giurisprudenza penale di legittimità che impone in sede di appello, nell’ipotesi di diversa valutazione delle medesime prove co stituende, il rinnovo della prova testimoniale. Non trattandosi di un giudizio di
rinvio in senso tecnico , ai fini dell’accertamento del nesso causale il giudice civile competente in grado di appello non è vincolato alle statuizioni adottate nella sentenza della Corte di cassazione penale e quindi al disposto del secondo comma dell’articolo 384 c.p.c.
Quanto alla lamentata carenza di motivazione in ordine alla configurabilità di un autonomo illecito civile ex articolo 2043 c.c, rispetto alla fattispecie penale, la Corte d’appello a pagina 10 della sentenza ha implicitamente rilevato l’illiceità del comp ortamento del Petino ritenendo provato che lo stesso ‘si introdusse nell’appartamento di che trattasi, senza avere il possesso delle chiavi, esercitando arbitrariamente le proprie ragioni, con violenza sulle cose’. Ciò ha consentito alla Corte territoriale di ritenere risarcibili i danni conseguenza, sotto il profilo del danno patrimoniale e non patrimoniale.
Destituita di fondamento appare l’ulteriore censura secondo la quale nella sentenza impugnata la Corte territoriale si sarebbe appiattita sulle medesime motivazioni adottate dalla Corte d’appello penale di Bari e fondate, sostanzialmente, sul valore privilegiato attribuito alle dichiarazioni della parte offesa.
Nella sentenza impugnata, al contrario, la Corte affronta il tema del possesso delle chiavi (pagina sei e seguenti) rilevando preliminarmente che dallo scambio epistolare tra le parti non emergeva in alcun modo che vi sarebbe stato un accordo per la consegna, da parte del COGNOME, in favore del Petino delle predette chiavi. Ciò troverebbe conferma nel telegramma del 29 aprile 2010 inviato dal proprietario al conduttore con il quale si chiedeva l’immediata consegna delle chiavi. Le argomentazioni successive fanno riferimento a quanto dichiarato o scritto dal proprietario per confermare la tesi dell’inesistenza di un accordo per la consegna delle chiavi. Sulla base di tali elementi probatori, che non riguardano le dichiarazioni rese dalla persona offesa, la Corte territoriale ha tratto la logica conclusione che, in difetto di prova di un accordo e
risultando pacifico l’abusivo ingresso del proprietario nell’immobile, la condotta censurata doveva ritenersi provata, e con essa il relativo nesso causale fra l’illecito e il danno.
Infine, destituita di fondamento è la censura relativa alla liquidazione equitativa poiché la Corte territoriale ha fatto correttamente riferimento a tale modalità di determinazione del danno dopo aver accertato la oggettiva esistenza del pregiudizio giacc hé ‘il padre del COGNOME escusso come teste, ha confermato la lista dei beni … allegata alla denunzia penale’, aggiungendo che ‘questa Corte ritiene che le fatture allegate corrispondano grossomodo, alla lista dei beni… molti di tali beni risultano esser e individuati nelle fotografie allegate dal Petino agli atti del fascicolo del processo penale’. Il profilo equitativo ha riguardato la circostanza che si trattava di materiale usato del quale non era ben chiaro lo stato di conservazione. Conseguentemente non ricorre la denunziata violazione di legge.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’articolo 116 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c., in relazione all’articolo 360, n. 3 e n. 4 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art icolo 360, n. 3 e n. 5 c.p.c. La Corte territoriale avrebbe omesso di considerare il fatto storico della consegna delle chiavi.
In sede penale era stata esclusa l’ipotesi di violazione di domicilio giacché la porta risultava forzata e per aprire quella serratura senza forzarla il proprietario avrebbe dovuto necessariamente utilizzare le chiavi che erano nel possesso del COGNOME.
Orbene, davanti al giudice del rinvio quest’ultimo non ha fornito alcuna prova del fatto. Il giudice del rinvio ha invertito l’onere probatorio poiché spettava alla pubblica accusa dimostrare la violenza sulle cose quale fatto costituente reato e non al proprietario dimostrare di essere entrato nell’immobile con le chiavi fornitegli dal COGNOME.
Il motivo è infondato per quanto già riferito alla precedente censura. È sufficiente ribadire in questa sede che, rispetto al dato pacifico della introduzione non autorizzata del proprietario nell’immobile ancora nella disponibilità del conduttore, la versione dei fatti del primo non sarebbe stata convincente, non comprendendosi la ragione per la quale il conduttore non avrebbe dovuto restituire l’immobile, così come concordato, qualche giorno dopo, lasciando le chiaviche incustodite ‘in un posto in cui chiunque avrebbe potuto prenderle, continuando a lasciare, all’interno dell’appartamento beni di sua proprietà’ (pagina sette della sentenza). Si tratta di ragionevoli valutazioni riguardanti i mezzi di prova che non possono essere oggetto di sindacato in sede di legittimità non essendo consentito a questa Corte di effettuare un terzo grado di merito.
Con il quinto motivo si lamenta la violazione l’articolo 91 c.p.c., in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. Quanto alla regolamentazione delle spese la Corte territoriale non ha tenuto conto che il Petino è risultato parte vittoriosa in occasione della sentenza penale di primo grado, tanto che la parte civile è stata condannata al pagamento delle spese. Nello stesso modo è risultata parte vittoriosa nel giudizio di legittimità che ha determinato l’annullamento della sentenza penale di appello. Sotto altro profilo la compensazione per notevole riduzione della domanda, nella lieve misura di un terzo, risulterebbe inadeguata e priva di motivazione.
La censura è infondata trovando applicazione il principio secondo cui nell’ipotesi di cassazione della sentenza penale di assoluzione ai soli effetti civili, nel giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., il giudice civile deve provvedere sulle spese dell’intero giudizio applicando il principio della soccombenza all’esito globale del processo, e quindi liquidarle in favore della parte che, pur essendo stata soccombente nelle fasi precedenti l’annullamento, sia risultata vincitrice all’esito del rinvio (Cass. Sez. 3 n. 1570 del 19/01/2023 (Rv. 666966 – 01).
Per il resto la Corte territoriale ha individuato la parte soccombente in quella che ha dato corso in maniera ingiustificata al processo o che lo ha inutilmente proseguito resistendo alla avversa domanda. Infine, la statuizione sulla compensazione, anche parziale, delle spese di lite appartiene alla discrezionalità del giudice di merito, sicché essa non è censurabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo della carenza di motivazione (Cass. 26 aprile 2019, n. 11329), ad eccezione del caso in cui venga violato il principio per il quale la parte totalmente o parzialmente vittoriosa non possa essere condannata al pagamento delle spese.
Nel caso di specie tale presupposto non sussiste nel momento in cui il giudice civile deve applicare il principio della soccombenza all’esito globale del processo individuando la parte che sia stata vincitrice all’esito del rinvio ex articolo 622 c.p.p.
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in € 2.700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, ivi compresi esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte