Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 33950 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 33950 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16862/2022 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, domiciliazione telematica come in atti
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, domiciliazione telematica come in atti
-controricorrente e ricorrente incidentale-
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA LINDIRIZZO TORRE INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, domiciliazione telematica come in atti
-controricorrente-
nonché contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 2260/2022 depositata il 23/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/11/2024 dal Presidente di sezione NOME COGNOME
Rilevato quanto segue.
NOME COGNOME e NOME COGNOME convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Napoli, Banco di Napoli s.p.a. e NOME COGNOME quale curatore del fallimento degli attori, chiusosi per integrale soddisfacimento dei creditori, chiedendo la condanna in solido al risarcimento del danno nella misura di Lire 796.679.202, o della diversa somm a, pari all’importo loro spettante quale residuo attivo della procedura, depositato presso il conto aperto presso la banca convenuta, importo diverso da quello falsamente indicato nel rendiconto approvato ed in relazione al quale erano state compiute una serie di irregolarità dal curatore in concorso con il comportamento infedele di alcuni funzionari della banca, nonché di tale NOME COGNOME coinvolto in procedimenti penali per reati commessi in relazione a procedure fallimentari. Esposero di avere appurato l’erroneità delle
poste riportate dal rendiconto approvato all’esito di accertamenti esperiti in seguito al ricevimento nel 1995 di un’ingiunzione di pagamento per tributi relativi al periodo in cui era ancora aperta la procedura concorsuale. Il Procaccini chiamò in causa il Ministero della Giustizia e la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La banca eccepì il decorso della prescrizione quinquennale a decorrere dalla chiusura del fallimento con decreto di data 30 agosto 1989.
Il Tribunale adito, disposta CTU, accolse la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento della somma di Euro 481.277,13, oltre interessi, e rigettò la domanda di cui alla chiamata in garanzia. Proposti separati appelli dai convenuti ed appello incidentale dagli attori, la Corte d’appello di Napoli, dichiarata l’inammissibilità delle residue impugnazioni, condannò con sentenza non definitiva Sanpaolo RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE, in via solidale con il RAGIONE_SOCIALE per il minor importo liquidato in primo grado, al pagamento della somma di Euro 809.411,87 e successivamente, con sentenza definitiva, quantificò l’importo dovuto dal Procaccini nella misura di Euro 588.650,26. Proposti ricorsi per cassazione, questa Corte, con sentenza n. 2955 del 2014, annullò la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, ed in particolare, con riferimento all’istituto di credito, per la mancata concessione di un termine a quest’ultimo ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, di cui era stato rilevato il difetto.
Per quanto qui rileva osservò il giudice di legittimità, con riferimento al primo motivo del ricorso proposto dal Procaccini, avente ad oggetto la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere il giudice di primo grado pronunciato su una domanda diversa da quella proposta per responsabilità contrattuale, avendo accolto una domanda risarcitoria per illecito extracontrattuale, che «la denunciata ultrapetizione non sussist, avendo riguardo non solo al petitum , che era certamente di risarcimento del danno al patrimonio della società tornata in bonis e
non alla massa attiva fallimentare, ma anche con riguardo alla causa petendi , posto che le violazioni degli obblighi gravanti sul curatore non erano allegate a titolo di responsabilità contrattuale nei confronti diretti della società, bensì a titolo di qualificazione dell’ingiustizia del danno, non potendosi considerare compiute jure le operazioni sul patrimonio che pure l’amministratore aveva titolo ad amministrare nella fase della liquidazione concorsuale – compiute in violazione di norme di legge». Aggiunse che invece fondato era il motivo con il quale si denunciava la violazione dell’art. 112 c.p.c. sotto il profilo che, caduta l’allegazione dell’indebito prelievo di somme da parte del curatore a seguito della mancata proposizione di istanza di verificazione in relazione al disconoscimento delle sottoscrizioni, la domanda era stata accolta sostituendola con quella basata sull’omessa custodia e cessione a terzi del libretto di risparmio (in violazione del vincolo d’intrasmissibilità delle funzioni sancito dall’art . 32 l. fall.), costituente una condotta colposa diversa da quella dolosa dell’indebita appropriazione di somme depositate in banca, allegata dalla parte attrice.
Riassunto il giudizio dagli originari attori, la Corte d’appello di Napoli con sentenza di data 23 maggio 2022 accolse gli appelli proposti dai convenuti, rigettando la domanda, sulla base dell’eccezione di prescrizione per quanto concerneva la banca.
Per quanto qui rileva, premise la Corte territoriale che sulla qualificazione della domanda in termini di responsabilità extracontrattuale si era formato il giudicato interno, avendo la Corte di Cassazione rigettato il motivo di ricorso proposto dal COGNOME secondo cui l’azione proposta aveva natura contrattuale, e che nei confronti di tutti gli imputati era intervenuta sentenza penale irrevocabile di estinzione del reato per prescrizione, nell’ambito di procedimento nel quale gli attori non si erano costituiti parte civile. Osservò quindi, premettendo che la sentenza di primo grado era venuta meno perché travolta dalla decisione di legittimità, che era da
escludere il concorso degli impiegati di banca nel delitto di peculato, alla luce dell’insussistenza di elementi per affermare la compartecipazione dolosa del COGNOME ai prelevamenti abusivi posti in essere dai dipendenti della banca, per quanto rilevato dalla Corte di Cassazione, né erano ravvisabili, già sul piano dell’allegazione attorea, gli elementi costitutivi del delitto di associazione per delinquere, posto che: il COGNOME, stante l’inconfigurabilità di condotte dolose, non poteva considerarsi associato; generica era l’indicazione di NOME COGNOME (la qualità di questi come coadiutore di fatto del curatore era stata tardivamente allegata con la riassunzione in sede di rinvio); non era desumibile una stabile struttura finalizzata alla realizzazione degli obiettivi criminosi; peraltro, quanto agli atti del procedimento penale, risultava prodotto solo il decreto di rinvio a giudizio, contenente i capi di imputazione. Precisò quindi che «gli unici reati che parrebbero ipotizzabili sono di appropriazione indebita, per i prescrizione, secondo la in vigore alla dei fatti, era sei anni, con la conseguenza che, anche a voler considerare quale inizio della decorrenza del termine – come dedotto da Intesa Sanpaolo S.p.A. data (30/8/1989), piuttosto che quella del reato, come previsto dall’art. 158 c.p., la sarebbe maturata prima notificazione dell’atto introduttivo del grado (15/5/1998)».
Ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME nella qualità di erede di NOME COGNOME sulla base di tre motivi e resistono con distinti controricorsi NOME COGNOME quale erede di NOME COGNOME che ha proposto altresì -con il controricorso adesivo – ricorso incidentale sulla base di tre motivi, e Intesa Sanpaolo s.p.a., che ha proposto altresì controricorso avverso il ricorso incidentale. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.. Tutte le parti costituite in questa sede hanno presentato memorie.
Considerato quanto segue.
Muovendo dal ricorso principale, con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 112, 163, 342, 346, 392 cod. proc. civ., 1173, 2946, 2909 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Premette la parte ricorrente che nella citazione a giudizio si era fatto riferimento quanto alla banca sia alla responsabilità contrattuale (punto 8 della parte assertiva e punto II delle conclusioni), in relazione tanto alla convenzione stipulata con la sezione fallimentare quanto alla violazione della diligenza professionale, sia alla responsabilità extracontrattuale e che il Tribunale ha qualificato l’azione in termini aquiliani. Osserva quindi che nell’appello incidentale degli attori era stata riproposta l’azione contrattuale (pag. 9 della comparsa di risposta in appello), e poi anche in sede di riassunzione, e che sulla qualificazione dell’a zione nei confronti della banca non si è formato il giudicato, essendo il capo di decisione di legittimità cui la Corte territoriale si riferisce relativo al motivo di ricorso proposto dal Procaccini, mentre alcuna pronuncia è intervenuta in relazione all’azione proposta nei confronti dell’istituto di credito, essendosi la cognizione della prima sentenza di appello arrestatasi all’inammissibilità dell’appello proposto da Sanpaolo IMI per difetto di procura, ed essendosi limitata la Corte di Cassazione ad annullare la decisione sul punto per la mancata assegnazione di un termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. all’istituto di credito per la regolarizzazione dell’atto. Aggiunge che erroneamente è stata estesa la pronuncia di legittimità, per ciò che concerne la natura dell’azione, dal curatore alla banca, limitando così la portata della prescrizione al disposto dell’art. 2947 c.c. e che, ove tale errore non fosse stato commesso, la domanda sarebbe stata esaminata anche sotto il profilo contrattuale, per due ragioni: a) i fratelli COGNOME avevano un diritto contrattuale al versamento delle somme giacenti sul libretto di deposito; b) la responsabilità della banca è da qualificare in termini di contatto sociale qualificato (art. 1173 c.c.), in relazione alla titolarità in capo al fallito
tornato in bonis della pretesa sul deposito bancario una volta chiuso il fallimento, pretesa rispetto alla quale la banca ha degli obblighi specifici a non disperdere le somme depositate ed a vigilare sui propri dipendenti (per cui l’obbligazione, insorta nei confronti del la curatela, tutela anche il fallito tornato in bonis ). Conclude nel senso che il termine di prescrizione è decennale.
Il motivo è infondato. Va premesso che nella domanda originaria era stata denunciata la violazione della convenzione sottoscritta dalla banca (in realtà con la sezione fallimentare dell’ufficio giudiziario, e non con la parte attrice) e la violazione della diligenza professionale in relazione all’esatta identificazione dei soggetti che avevano proceduto ai prelievi ed in generale a tutte le operazioni irregolari. Nella sentenza del Tribunale viene affermato che la domanda proposta avverso la banca, che con gli attori non aveva mai intrattenuto un rapporto obbligatorio, doveva essere qualificata in termini di illecito aquiliano, ai sensi degli artt. 2043 e 2049. La qualificazione dell’azione promossa nei confronti della banca non è stata oggetto di impugnazione da parte degli attori, avendo costoro proposto appello incidentale soltanto per il mancato riconoscimento della somma di Lire 162.857.734 e della rivalutazione monetaria. Nella comparsa di costituzione in appello vi è menzione della natura contrattuale dell’azione proposta nei confronti della banca a pagina 9 dell’atto, ma in sede di confutazione del terzo motivo dell’appello proposto dalla banca avente ad oggetto l’intervenuta prescrizione. Del resto, la stessa ricorrente afferma che la responsabilità contrattuale sarebbe stata oggetto di mera riproposizione. Avendo il Tribunale statuito sulla qualificazione della domanda, parte attrice avrebbe dovuto proporre in relazione a tale statuizione appello incidentale condizionato. Non essendo stata proposta im pugnazione sulla natura extracontrattuale dell’azione proposta si è formato il giudicato interno.
Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 394, 383, 384, 112, 342 c.p.c. 2947, co. 3, cod. civ., 314, 357, 416 e 117 c.p., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Premette la parte ricorrente che nell’atto di appello della banca, ed in particolare nel motivo relativo alla prescrizione dell’azione risarcitoria (pagg.17 -20), reputata dal Tribunale superiore al termine quinquennale in applicazione dell’art. 2947, comma 3, c.c., si era affermato, senza contestare gli accertamenti in fatto compiuti dal Tribunale, che quest’ultimo aveva solo ipotizzato la commissione di reati da parte dei dipendenti della banca sulla base della mera pendenza del procedimento penale, senza eseguire un accertamento incidenter tantum circa la commissione degli stessi, con riferimento in particolare al reato di peculato, accertamento che comunque non avrebbe potuto compiere per la pendenza del giudizio penale, mentre avrebbe dovuto sospendere il giudizio in attesa della definizione di quello penale. Osserva che quindi il giudice di appello non avrebbe potuto discostarsi dall’accertata partecipazione ai crimini da parte dei soggetti qualificati come ‘coadiutori di fatto’ del curatore. Aggiunge che, dovendosi avere riguardo ai limiti dell’effetto devolutivo dell’appello, la sentenza del Tribunale non poteva ritenersi travolta, persistendo gli accertamenti, anche a mezzo di CTU, di una serie di condotte compiute da persone qualificate come ‘coadiutori di fatto’ del curatore, non censurati dall’atto di a ppello, accertamenti che la Corte territoriale doveva tenere fermi e dai quali era emersa l’esistenza di un nucleo di persone composto dal Di Capua ed altri dipendenti della banca, associati allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti al fine di appropriarsi delle somme giacenti sul libretto di deposito del fallimento attoreo e di altri fallimenti. Osserva ancora che, se la Corte territoriale avesse tenuto fermi i detti accertamenti di fatto, avrebbe ravvisato gli estremi dell’associazione p er delinquere, nonché del reato di peculato a carico dei dipendenti della banca, sul presupposto della qualità di
coadiutore di fatto del curatore in capo al Di Capua, con il relativo termine di prescrizione.
Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte la proposizione dell’appello in ordine alla sola statuizione sulla prescrizione non determina la formazione del giudicato interno sulla spettanza del diritto, in astratto riconosciuta in primo grado, se l’esame della questione sulla prescrizione non sia limitato all’identificazione del “dies a quo” o all’esistenza di cause interruttive, ma involga la qualificazione del diritto stesso (Cass. n. 1587 del 2020; n. 24488 del 2022). Il motivo di appello in questione non aveva ad oggetto esclusivamente l’identificazione del “dies a quo” o l’esistenza di cause interruttive, ma involgeva l’accertamento del diritto, posto che ciò che si censurava era l’ipotizzata esistenza del diritto sulla base della mera pendenza del procedimento penale, laddove invece, secondo la banca appellante, ai fini dell’accertamento del presupposto d i fatto del diritto, il Tribunale, che non aveva svolto – né avrebbe potuto fare in pendenza del procedimento penale – alcun accertamento incidentale sul fatto, avrebbe dovuto sospendere il giudizio in attesa della definizione di quello penale. Involgendo l’esame della questione della prescrizione il presupposto dell’esistenza del diritto a quest’ultimo soggetta, non può reputarsi formato il giudicato interno sul detto presupposto.
Con il terzo motivo di denuncia violazione degli artt. 2935, 2947, comma 1, 2943, c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.. Premette la parte ricorrente che, fin dalla citazione di primo grado, era stato esposto che gli attori, avendo ricevuto da parte dell’Esattoria Comunale di Napoli una richiesta di pagamento di tributi risalenti al periodo in cui era aperta la procedura, avevano richiesto al Banco di Napoli con note del 1995 la documentazione idonea a comprovare l’avvenuto pa gamento di quei tributi e, avendo ravvisato nell’ estratto conto, alcune irregolarità, avevano sollecitato il curatore a rendere chiarimenti, per il che questi aveva contestato alla banca, con
nota del settembre 19 95, l’esistenza di movimentazioni delle quali non era dato comprendere la giustificazione. Osserva quindi che solo nel periodo 1995-1996 erano emersi per gli Amato sospetti circa le sottrazioni di cui erano stati vittima, acquisendo elementi di maggior certezza in ordine al danno subito solo accedendo agli uffici della banca in epoca prossima al 18 febbraio 1998 e che pertanto prima di tale epoca gli attori non avevano avuto il sospetto di irregolarità commesse ai loro danni (peraltro, l’indagine che aveva coinvolto centinaia di procedure fallimentari del Tribunale di Napoli, aveva preso le mosse solo nel 1997). Aggiunge che la prescrizione quinquennale non era maturata alla data di notifica della citazione ed al momento di invio della raccomandata di costituzione in mora di data 12 dicembre 1997.
Il motivo è infondato. Alla luce del richiamo in rubrica all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., deve ritenersi che la censura abbia ad oggetto l’omesso esame di fatto decisivo e controverso. L’onere di cui all’art. 366, comma 1, n. 5 c.p.c. risulta assolto avendo la parte ricorrente specificatamente indicato la sede di ingresso della circostanza nel processo di merito (l’originaria domanda, con la precisazione delle allegazioni documentali). Il fatto storico della cognizione dei fatti denunciati con la citazione in giudizio in epoca successiva alla chiusura del fallimento (e comunque all’interno della prescrizione quinquennale, avuto riguardo all’ulteriore fatto di cui risulta denunciato l’omesso esame, e cioè la costituzione in mora in data 12 dicembre 1997) è privo di decisività alla luce del principio di diritto secondo cui, in tema di risarcimento del danno, l’impossibilità di far valere il diritto quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex art. 2935 c.c. è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende, quando il danno sia percepibile all’esterno e conoscibile da parte del danneggiato, gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, tra i quali l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore
del suo diritto, o il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto od il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. n. 19193 del 2018). Circa gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, il successivo art. 2941 cod. civ. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione, nel cui ambito, salva l’ipotesi di dolo prevista dal n. 8, non rientra l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto od il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. n. 21206 del 2014). Ciò che la ricorrente denuncia, sotto il profilo del vizio motivazionale, è l’ignoranza del fatto costitutivo del diritto prima di una certa epoca.
Peraltro, il “dies a quo” dal quale la prescrizione comincia a decorrere va individuato nel momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto – o avrebbe dovuto avere, usando l’ordinaria diligenza sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato (Cass. n. 1263 del 2012). Sempre ai fini della decisività ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., la conoscenza del danno che è stata dedotta, riconducibile ad una richiesta di pagamento di tributi risalenti al periodo in cui era aperta la procedura, non pare conforme a quella che già in precedenza era esigibile sul piano dell’ordinaria diligenza, ove si consideri l’intervenuto rendiconto finale a chiusura del fallimento, di cui era prevista la comunicazione anche al fallito, che dunque fin da allora avrebbe potuto esperire tutti gli strumenti di controllo contabile.
Il ricorso incidentale ha contenuto identico al ricorso principale e pertanto merita il medesimo esito.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va disposta la compensazione quanto al rapporto processuale fra le due ricorrenti, principale ed incidentale.
Poiché i ricorsi proposti vanno disattesi, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012,
n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale.
Dispone la compensazione delle spese fra ricorrente principale e ricorrente incidentale.
Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore di Intesa Sanpaolo s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Condanna la ricorrente incidentale al pagamento, in favore di Intesa Sanpaolo s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incid entale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 21 novembre 2024