Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 8663 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 8663 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3292/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE E AMMINISTRAZIOE GIUDIZIARIA, elettivamente domiciliato in PALERMO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO PALERMO n. 2036/2019 depositata il 21/10/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- La società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (poi RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e amministrazione giudiziaria) nel 2004 ha convenuto avanti al Tribunale di Palermo il Banco di Sicilia s.p.a. e Capitalia s.p.a. chiedendone la condanna al risarcimento del danno di 50.000.000 di euro derivatole dall’inadempimento di due contratti di mutuo fondiario -il primo per l’importo di 39 miliardi di lire stipulato il 31.10.1991, il secondo per l’importo di 3 miliardi di lire stipulato il 12.7.1993 -garantiti da ipoteca di primo grado sul complesso immobiliare (di trecento unità) alla cui realizzazione il mutuo era destinato, da fideiussione personale dei soci e da ulteriori garanzie ipotecarie concesse da società terze datrici appartenenti alla società controllante RAGIONE_SOCIALE
La società aveva dedotto che entrambi i contratti (art. 1- bis) prevedevano il frazionamento del mutuo tra le unità abitative che avrebbero costituito l’immobile offerto in garanzia, con i criteri di cui all’art. 13 dell’allegato Capitolato delle condizioni generali, e che la richiesta di frazionamento presentata nel giugno 1994 -ultimati i lavori di costruzione – era stata riscontrata tardivamente con la comunicazione di un diverso progetto di finanziamento e con la richiesta che l’attrice consentisse la conferma dell’ipoteca immobiliare concessa dalla società terza nonostante tale ipoteca fosse stata rilasciata fino alla stipulazione dell’atto definitivo di erogazione finale e quietanza. Pertanto lamentava la illegittima condotta del Banco di Sicilia che si era immotivatamente rifiutata di frazionare il mutuo così causando gravissimi danni alla società poiché il mancato frazionamento – che consentiva in addebitamento contrattuale integrante anche la violazione del dovere di diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto- aveva impedito alla
mutuataria di pervenire alla definizione dei contratti preliminari stipulati per la vendita delle singole unità immobiliare con il conseguente obbligo di restituzione degli anticipi ricevuti, l’impossibilità di incassare il saldo, e di cedere le relative quote di debito, nonché l’aumento della propria esposizione debitoria per effetto della decorrenza degli interessi di preammortamento.
3. Il banco di Sicilia aveva dedotto, dal canto suo, l’infondatezza della pretesa sotto il profilo sia dell’ an che del quantum; in particolare quanto al primo aspetto, a dedotto che il contratto prevedeva erogazioni parziali in base allo stato di avanzamento dei lavori, le quali, alla data del 6.9.1994, ammontavano a complessivi 41 miliardi e 500 milioni di lire; per venire incontro alle richieste della società – che aveva ripetutamente manifestato l’esigenza di far fronte prioritariamente al pagamento dei fornitori per condurre a termine l’impegnativo programma edificatorio- il banco di Sicilia le consentiva, in via eccezionale, di incassare l’intero importo delle erogazioni effettuate a decorrere da febbraio del 1994 senza contestuale abbattimento degli interessi di preammortamento maturati nel frattempo e dei relativi interessi di mora (che ammontavano al 31.12.94 ad oltre 10 miliardi e 500 milioni di lire, somma di cui la società oggi ricorrente riconosceva di essere debitrice e che ammetteva espressamente di non poter pagare); in questo contesto, caratterizzato da un consistente squilibrio dell’operazione di finanziamento, il Banco di Sicilia non poteva né sic et simpliciter far luogo né alle ulteriori somministrazioni pretese dalla società, né alla definizione dei mutui mediante stipula degli atti di erogazione finale e quietanza, né, ancora, al frazionamento di quota del prestito e della relativa garanzia ipotecaria, che presupponevano -per definizione ancor prima che per espressa pattuizione contrattuale (art.1- bis dei due contratti di mutuo e 13 dell’allegato capitolato) il regolare adempimento degli obblighi gravanti sul mutuatario, in particolare di quelli assunti
indipendenza delle erogazioni rateali; ciononostante, per salvaguardare la continuità del rapporto e la possibilità del recupero del credito, tra il novembre 1994 e l’ottobre 1995, trasmetteva una serie di piani di frazionamento di cui sollecitava l’approvazione reiterando al contempo l’invito a provvedere al rientro delle esposizioni in essere; d’altra parte la mutuataria pretendeva un aumento dell’importo del mutuo, l’erogazione e la contestuale liberazione di 35 unità immobiliari vendute, ribadendo però di non essere in grado di pagare quanto dovuto; sicché il C.d.A. del Banco di Sicilia deliberava in data 20.12.95 di: (i) definire il mutuo per l’importo già erogato di 41 miliardi e 500 milioni – senza procedere al formale frazionamento – al fine di volgere il ricavato delle future vendite al ripianamento dell’anzidetto arretrato per interessi di preammortamento e di mora (giunti nel frattempo a 14 miliardi di lire); (ii) l’esclusione dalle ipoteche delle 35 unità immobiliari già vendute, senza coeva riduzione del mutuo, così incrementando la percentuale di intervento finanziario da 63,8% al 75% del valore per consistenza degli immobili, ovvero al massimo consentito dalla legge n. 175/91, previa inevitabile conferma della garanzia ipotecaria supplementare e delle fideiussioni dei soci; (iii) destinare il ricavato della vendita delle 35 unità immobiliari soltanto in parte- cioè per la somma di 2 miliardi 950 milioni di lire -a deconto del debito scaduto, consentendo alla società di trattenere la somma di 678 milioni di lire per il pagamento dei fornitori (purché la società dichiarasse formalmente l’insussistenza di altri debiti che potessero vanificare il piano di sistemazione); iv) l’abbattimento del 50% degli interessi di mora maturati al 31.12.95 pari a 1 miliardo e 10 milioni circa; (v) la stipulazione di frazionamenti a stralcio per le unità immobiliari da vendere con impiego del relativo prezzo (e di ulteriori risorse finanziarie della società) alla decurtazione dell’esposizione e al mantenimento del rapporto tra valore dei cespiti ipotecati e residuo
debito complessivo. Questa delibera veniva comunicata il 28.12.95 alla società RAGIONE_SOCIALE con il piano di frazionamento ideale dei due mutui sulle restanti 265 unità immobiliari, alla cui approvazione subordinava la stipula degli atti di erogazione finale. Detto programma, tuttavia, non trovava attuazione, sia perché la società non controfirmava il piano di frazionamento proposto e non rilasciava la dichiarazione sub (iii), sia per effetto delle iniziative assunte poco dopo nei confronti della società da altri esponenti del ceto creditorio bancario; nel 1997 diventavano, poi, di dominio pubblico le inchieste nei confronti degli esponenti della famiglia COGNOME che avevano condotto al sequestro di prevenzione della società ricorrente, che ostacolava il recupero coattivo degli ingentissimi crediti verso la società in attesa della definizione del procedimento penale, per cui il Banco di Sicilia classificava il credito a sofferenza.
In diritto la convenuta obbiettava, anzitutto, la sussistenza in capo alla mutuataria di un diritto al frazionamento del mutuo e della garanzia ipotecaria – previsto in sede legislativa solo nel TUB non ancora entrato in vigore nel momento della conclusione dei contratti -e che detto frazionamento era subordinato in sede contrattuale all’adempimento delle obbligazioni derivanti dalle erogazioni rateali giacché l’art. 13 del capitolato subordinava il frazionamento alla condizione che l’intero mutuo fosse in regola col pagamento delle semestralità, mentre la mutuataria -come detto era inadempiente, in quanto versava in crisi di liquidità, e, a partire dal mese di febbraio 1994, pur avendo incassato l’intero importo delle erogazioni periodiche, non aveva effettuato alcun abbattimento per il pagamento degli interessi di preammortamento via via maturati e dei relativi interessi di mora. Infine che la propria condotta era stata del tutto rispettosa del canone della buona fede.
4.-Il Tribunale, con sentenza del 2014, nella contumacia di Capitalia s.p.a., ha
respinto la domanda ritenendo insussistente il diritto soggettivo dell’attrice a ottenere il frazionamento del mutuo in base alla legislazione vigente ratione temporis nel contempo rilevando il difetto di prova del danno lamentato sulla base delle conclusioni rassegnate dal CTU.
5.La Corte d’appello di Palermo su gravame proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE per errate esclusione del proprio diritto soggettivo al frazionamento in ragione delle previsioni contrattuali nonché della legge n. 175 del 91 e per l’errata pronuncia di difetto di prova della consistenza e dell’entità del danno -ha respinto l’appello osservando (quanto al primo motivo, ritenendo assorbito il secondo) che:
secondo la giurisprudenza di legittimità (cita Cass. n. 23232/2013), il frazionamento del mutuo, nel vigore della normativa precedente al TUB, non era oggetto di un diritto del mutuatario e di correlato obbligo della mutuante e che « il comportamento della banca che rifiuti ingiustificatamente il frazionamento del mutuo e delle relative ipoteche, richiesto dalla mutuataria a seguito della vendita a terzi delle unità immobiliari edificate, procrastinando immotivatamente tale rifiuto (nella specie per oltre tre anni nei confronti di una mutuataria in regola con il pagamento delle rate) » integrava « la violazione dei doveri di solidarietà derivanti dal rispetto del principio di correttezza e buona fede oggettiva »; perciò l’oggetto dell’indagine andava identificato con le specifiche previsioni contrattuali e con la condotta delle parti nell’esercizio del contratto sulle quali la sentenza impugnata non si era in alcun modo soffermata;
alla luce della disciplina negoziale del rapporto, il frazionamento era inscindibilmente connesso all’erogazione della rata finale e quietanza nonché sottoposto alla condizione sospensiva di efficacia del regolare adempimento degli obblighi
derivanti dalle erogazioni rateali, cioè del pagamento degli interessi di preammortamento;
d) era fatto incontestato che l’appellante non aveva corrisposto gli interessi di preammortamento, i quali ammontavano al 21.11.1994 a 10,5 miliardi delle vecchie lire, per ascendere a 14 miliardi alla fine del 1995 e a 21,7 miliardi al 31.12.96; perciò legittimamente la banca mutuante aveva formulato un’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. rifiutandosi di addivenire all’erogazione finale e al frazionamento alle condizioni previste in contratto a meno che non fosse stata confermata la garanzia del terzo datore di ipoteca;
e) era infondata la pretesa dell’appellante di ravvisare nel comportamento della banca una violazione dell’obbligo di buona fede nel senso che – a fronte del mancato pagamento degli interessi di preammortamento -questa avrebbe potuto esercitare la facoltà di risolvere il contratto e, non avendola esercitata, aveva ingenerato nella società mutuataria il legittimo affidamento di ottenere il frazionamento, determinando altresì una levitazione degli interessi di preammortamento e di mora, lucrando, così’, il più possibile dal finanziamento concesso; invero non era ravvisabile una condotta della banca idonea a ingenerare alcun legittimo affidamento della mutuataria alla definizione del finanziamento (vale a dire all’erogazione finale e al frazionamento nonostante il perdurare del suo inadempimento) dal momento che, pur essendo vero che la banca -a partire dal mese di febbraio 1994- aveva consentito che la mutuataria incassasse l’intero importo dell’erogazione rateale senza decurtazione degli interessi di preammortamento per far fronte alle esigenze di liquidità dell’impresa, era, altresì, pacifico che contestualmente alle proposte di frazionamento formulate aveva ripetutamente richiesto alla mutuataria di rientrare nella propria esposizione debitoria; e dopo una corrispondenza interlocutoria protrattasi per più di un
anno – perdurando l’inadempimento con contestuale aggravarsi dell’esposizione -l’istituto bancario aveva, sì, proposto di consentire la definizione del mutuo e il suo frazionamento, ma con la prestazione di ulteriore garanzia rispetto a quella prevista contrattualmente; condotta questa che non poteva considerarsi illegittima perché contraria a buona fede nell’esecuzione del contratto in ragione -secondo la tesi dell’appellante – del mancato esercizio della facoltà di recedere dallo stesso di cui pure sussistevano i presupposti (infatti, laddove l’appellata avesse esercitato la facoltà di recesso, gli interessi avrebbero ugualmente continuato a decorrere a sfavore della società al medesimo tasso di mora e, per di più, la banca avrebbe potuto agire esecutivamente per recupero dell’intero credito comprensivo del capitale, aggredendo i beni ipotecati, tra i quali gli immobili della società terza); perciò era da ritenersi del tutto infondata la tesi che il mancato recesso del contratto avesse determinato un peggioramento della situazione debitoria della mutuataria e una posizione di maggior vantaggio per la mutuante;
dunque non poteva essere imputato alla banca il mancato passaggio in ammortamento del mutuo con conseguente abbattimento del tasso di interesse del capitale, dal momento che questa era una conseguenza della mancata erogazione della rata finale, legittimamente rifiutata alla luce dell’inadempimento della mutuataria.
– Contro la sentenza ha proposto ricorso la società RAGIONE_SOCIALE affidandolo a tre motivi di cassazione. Ha resistito Unicredit s.p.a RAGIONE_SOCIALEincorporante Banco di Sicilia s.p.a.). Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.5 legge n. 175/91 laddove la sentenza afferma che nella fattispecie in esame il frazionamento del mutuo
costituisce non un obbligo ma una mera facoltà unilaterale della banca; invero la Corte farebbe erroneo richiamo ad un precedente di legittimità non in termini (Cass. n. 23232/2013) giacchè riferito ad una fattispecie nella quale il ricorrente aveva prospettato un diritto soggettivo al frazionamento del mutuo fondiario ai sensi del d.p.r. n.7/76, non ai sensi della l. 175/91 (cui erano, invece, assoggettati entrambi i mutui oggetto della controversia), il cui l’art. 5 comma 5 – prevedendo che « in caso di edificio o complesso condominiale l’ente consente nell’atto di quietanza finale a saldo e a richiesta del mutuatario, la suddivisione del mutuo in quote e, correlativamente, il frazionamento dell’ipoteca a garanzia » -avrebbe stabilito, già prima del TUB, che il frazionamento, a richiesta del mutuatario, era un comportamento dovuto e non discrezionale per la banca, come stabilito anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 24952/2020), che aveva chiarito che le norme succedutesi nella disciplina del frazionamento del mutuo fondiario, avevano portato ad affermare il diritto del mutuatario ad ottenerlo già in forza della legge 175/91 predetta, poi abrogata dal d.lgs. 385/93, che, all’art. 39, confermerebbe il diritto in tal senso del mutuatario. Pertanto la Corte d’appello sarebbe incorsa nella falsa applicazione della legge in ragione di una massima erratamente tratta dalla sentenza di legittimità richiamata, finendo erroneamente per ritenere che la verifica della legittimità della condotta della banca andasse condotta alla luce delle specifiche previsioni contrattuali e della condotta delle parti nell’esecuzione del contratto.
1.1- Il motivo è inammissibile.
Anzitutto va precisato che nella sentenza richiamata nella sentenza gravata (Cass. n. 23232/2013), questa Corte non aveva affermato alcunchè a proposito del fatto che il frazionamento fosse oggetto di obbligo o di facoltà, avendo in quel caso respinto il motivo di ricorso perché « la prospettazione della doglianza (…) si
mostra del tutto generica ed incongrua, atteso che non viene presa in esame – ne’ invero congruamente riportata – la ratio decidendi della statuizione impugnata » (laddove la Corte di merito -sulla base del fatto che quanto al frazionamento era ravvisabile una mera facoltà -aveva però ritenuto che la banca, negando ingiustificatamente il frazionamento, fosse incorsa in inadempimento del contratto per violazione dei doveri di solidarietà derivanti dal rispetto dei principi di correttezza e buona fede). Dunque questa sentenza è inconferente rispetto al tema di censura non avendo affermato che il frazionamento fosse oggetto di obbligo o di facoltà.
Ciò detto , il Collegio osserva che nella specie la Corte di merito, a prescindere dalla citazione della massima, ha valorizzato il la disciplina negoziale esplicita sul punto del rapporto, affermando che « l’oggetto dell’indagine va identificato con le specifiche previsioni contrattuali e con la condotta delle parti nell’esercizio del contratto sulle quali la sentenza impugnata non si è in alcun modo soffermata », e che, alla luce di detta disciplina, il frazionamento era inscindibilmente connesso all’erogazione della rata finale e quietanza nonché sottoposto alla condizione sospensiva di efficacia del regolare adempimento degli obblighi derivanti dalle erogazioni rateali, cioè del pagamento degli interessi di preammortamento. Dunque ha riconosciuto che, alle condizioni previste dal contratto, sussisteva un diritto al frazionamento, ma – ed è questa è la ratio decidendi – ne ha negato ricorressero i presupposti, avendo la banca legittimamente opposto, al diritto di addivenire all’erogazione finale ed al frazionamento previsti dal contratto, l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (peraltro la previsione delle condizioni predette di cui all’art.1 bis di entrambi i contratti per cui « ….detto mutuo, in sede di erogazione finale e quietanza…. sarà frazionato…coi criteri di cui all’art. 13 dell’allegato capitolato delle condizioni generali» è conforme all’art. 5 comma 5
della legge 175/91 laddove fa riferimento all’atto di quietanza finale e saldo: « In caso di edificio o complesso condominiale l’Ente consente, nell’atto di quietanza finale a saldo ed a richiesta del mutuatario, la suddivisione del mutuo in quote e, correlativamente, il frazionamento dell’ipoteca a garanzia»).
Pertanto il motivo che invoca la violazione di legge è inammissibile perché non coglie e non si confronta con la ratio decidendi della sentenza gravata.
2.Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e 1371 c.c. in quanto, dirigendo la propria indagine sulle previsioni contrattuali dei mutui del ’91 e del ’93 ne aveva compiuto un’interpretazione non rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale; e ciò con particolare riguardo all’art. 1-bis dei contratti e dell’art.13 del capitolato generale d’appalto; in sintesi la Corte di merito avrebbe fatto malgoverno dello strumento di esegesi negoziale fondato sulla formulazione letterale dell’accordo e del canone di interpretazione secondo buona fede; nonché, quanto al capitolato generale, del canone d’ interpretatio contra proferentem di cui all’art. 1371 c.c. poiché la sentenza avrebbe confuso la condizione di efficacia di un frazionamento già attuato (di cui all’articolo 13 del capitolato) con la condizione ovvero il presupposto – al cui ricorrere il frazionamento doveva essere operato; violando i predetti canoni interpretativi la Corte avrebbe obliterato l’unica interpretazione giuridicamente possibile delle pattuizioni contrattuali, vale a dire quella per cui l’articolo 1bis del contratto di mutuo attribuiva all’odierna ricorrente un diritto «potestativo » al frazionamento, non soggetto ad alcuna condizione, giacché ogni diversa interpretazione ascriverebbe alla regolamentazione pattizia il significato di configurare il frazionamento come una facoltà unilaterale della banca, così riproponendo una qualificazione in contrasto con la normativa vigente all’epoca, espressiva di un principio di ordine pubblico
economico tradottosi nella deroga alla regola di diritto comune di cui all’articolo 2809 comma 2 c.c.; per cui in ragione del meccanismo della sostituzione automatica di clausole previste dall’art. 1419 comma 2 c.c. l’esito di questa errata operazione sarebbe il riconoscimento del diritto potestativo della società a ottenere il frazionamento.
2.1 -Il motivo è inammissibile.
Fermo quanto detto a proposito del primo motivo di ricorso, ovvero che nella fattispecie la Corte non ravvisa in capo alla Banca una facoltà, bensì un obbligo contrattuale di provvedere al frazionamento a determinate condizioni (che sono in linea con il disposto normativo applicabile ratione temporis ), il motivo è, in effetti, tutto versato in fatto, mirando ad una revisione dell’accertamento motivatamente compiuto dal giudice di merito sul contenuto degli atti negoziali: va, invero, ribadito il principio consolidato di legittimità che riguarda i limiti della denunciabilità del ragionamento decisorio di merito relativo all’ interpretazione degli atti negoziali, per cui, traducendosi l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. n. 9461/2021; Cass. n.16987/2018; Cass. n. 28319/2017), poiché, per sottrarsi al
sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. n. 15604/2007; Cass. n. 4178/2007).
Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009; Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014).
Nella specie la ricorrente si limita a censurare l’interpretazione della Corte di merito sostenendo che la propria (vale a dire quella per cui l’articolo 1-bis del contratto di mutuo attribuiva all’odierna ricorrente un diritto potestativo al frazionamento non soggetto ad alcuna condizione) fosse l’unica possibile, ponendosi quindi al di fuori della cornice in cui è ammesso il controllo di legalità della decisione di merito a proposito del ragionamento ermeneutico relativo ad un atto negoziale.
3. -Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1375 e 1460 c.c. poiché, anche qualora fosse corretta l’interpretazione della Corte d’appello, la condotta in executivis della banca -di non mandare il mutuo in ammortamento per la mancata corresponsione da parte della società degli interessi di preammortamento – avrebbe dovuto essere ritenuta contraria a buona fede oggettiva; la Corte di merito avrebbe violato standard conformi ai valori dell’ordinamento e in particolare quelli richiamati dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della verifica dei
presupposti dell’eccezione di cui all’art. 1460 comma 1, secondo i quali l’importanza dell’inadempimento va valutata in ragione della sua incidenza concerta nell’economia complessiva del rapporto (il pregiudizio causato all’altro contraente deve aver dato luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma negoziale) e del comportamento di entrambe le parti (quale una protratta tolleranza dell’inadempimento dell’altra) che possono, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata. Secondo la ricorrente la mancata erogazione della rata finale sarebbe stata illegittimamente rifiutata dalla mutuante, la quale, aveva tollerato nel corso del tempo l’inadempimento della mutuataria al pagamento di parte degli interessi di preammortamento per un cospicuo ammontare generando il legittimo affidamento nella erogazione finale e quietanza; né poteva ritenere che tale scorretta condotta trovasse spiegazione nell’esigenza per la banca di tutelare i propri diritti, perché, se il mutuo fosse stato mandato in ammortamento, la banca avrebbe maturato interessi di mora in misura almeno pari a quelli di preammortamento e per di più avrebbe potuto agire esecutivamente anche per il recupero del credito da restituzione del capitale qualora la società o i terzi acquirenti che si fosse accollati le singole quote di mutuo, poiché tale accollo non avrebbe prodotto effetti liberatori per la società che fosse stata inadempiente al pagamento delle rate di ammortamento: il passaggio in ammortamento del mutuo non avrebbe causato alla banca alcun reale pregiudizio e il rifiuto al frazionamento sarebbe stato funzionale a condurre da una posizione di forza trattative sulle modalità del frazionamento onde ottenere il massimo risultato possibile anche in termini di sopravvenienza di garanzie quali quelle offerte dal terzo datore di ipoteca. Così operando avrebbe impedito alla società di realizzare lo scopo pratico del contratto, circostanza alla quale la sentenza
impugnata non ha dato alcun peso ponendosi in contrasto con l’insegnamento secondo cui nel giudizio di buonafede il giudice è tenuto ad apprezzare ogni circostanza di fatto rilevante e il risultato stesso che l’operazione era idonea a produrre in concreto.
3.1- Il motivo è infondato.
3.1.1 – Va premesso che il motivo, contrariamente a quanto sostenuto dalla contro ricorrente, è ammissibile, perché la censura della ricorrente non attinge l’accertamento di fatto della corte territoriale. Invero spetta al giudice del merito la ricostruzione del «fatto storico» – vale a dire la ricostruzione degli accadimenti nei quali si risolve e si sostanzia la vicenda sottoposta al vaglio giudiziale – ma una volta ricostruito il «fatto storico» (il contegno delle parti in executivis ), la valutazione di quest’ultimo in base alla clausola generale della buona fede nell’esecuzione del contratto costituisce un giudizio di diritto, sindacabile in sede di legittimità, in quanto integrazione del precetto di natura elastica alla luce delle circostanze del caso, e concretizzazione dello standard valutativo previsto dalla clausola generale, ovvero un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui viene data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale.
L’applicazione della clausola generale, secondo il tradizionale indirizzo, era da assimilare al giudizio di fatto ed il sindacato di legittimità era originariamente inteso come controllo del vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
A partire da Cass. 10514/1998 questa Corte -a proposito del rapporto di lavoro -ha stabilito che gli obblighi di correttezza e buona fede « imponendo una serie di comportamenti di contenuto atipico, vengono individuati mediante un giudizio applicativo di norme elastiche e soggetto al controllo di legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge; infatti gli obblighi stessi vanno individuati con il rispetto del complesso di regole in cui si sostanzia la civiltà del lavoro in un certo contesto
storico – sociale, vale a dire dell’assieme dei principi giuridici puntualizzati dalla giurisdizione di legittimità, e vengono quindi ad assumere la consistenza di “standard” che rispetto a detti principi sono in rapporto essenziale ed integrativo ». Principio ulteriormente ribadito da Cass.5026/2004 (a proposito di licenziamento) nella quale la Corte ha affermato che « nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per sua natura, si limita ad indicare un parametro generale), il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento: di conseguenza, la valutazione di conformità dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida ». (conformi Cass. n.10058/2005; Cass. n. 8017/2006).
3.1.2 – Di tali principi, via via consolidatisi, la Corte ha fatto, poi, applicazione anche in ambito contrattuale generale con la sentenza n.14198/2004, che ha richiamato il principio fissato da Cass. n. 10514/1998 (in una fattispecie riguardante la condotta delle parti in pendenza dell’avveramento della condizione sospensiva, quindi con specifico riguardo agli obblighi imposti dall’art. 1358 c.c.) ove ha affermato che, gli obblighi di correttezza e buona fede, avendo hanno, nell’ambito contrattuale, « la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilità che la stessa assicura » ed impongono « una serie di , che assumono la consistenza di integrativi di tali principi generali, e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche e soggetto al controllo di
legittimità al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge » (v. la massima; in senso conforme Cass. n. 18450/2005).
3.1.2 – Con tali pronunce è stata accolta da questa Corte quella dottrina in materia di clausole generali per cui queste non fissano il contenuto della regola giuridica in via generale astratta secondo la tecnica della norma a fattispecie fissa già predisposta, ma fissano il criterio di identificazione della regola giuridica relativa al caso concreto, attribuendo al giudice l’impegno come è stato detto- di «capire in modo giusto» la norma, secondo le circostanze del caso concreto e nello specifico contesto storico sociale, alla luce di forme esemplari di valore elaborate dalla giurisprudenza e rappresentate dagli standards valutativi. Ne discende che allorchè non è fissato direttamente dal legislatore il contenuto della regola giuridica, la sua applicazione non implica, da parte del giudice che ne è interprete un’operazione di «sussunzione» del caso concreto nella previsione astratta e generale (che presuppone una fattispecie generale astratta definita in una serie di elementi determinati e tutti necessari nelle nella quale riportare un caso concreto attraverso la selezione degli elementi corrispondenti all’ipotesi astratta), ma un’attività di «concretizzazione della clausola generale» di contenuto elastico, in cui la fattispecie consta di un complesso di elementi non identificati a priori: dunque un’operazione di individuazione, nello specifico caso concreto, di una «pretesa normativa», cioè del contenuto precettivo che la clausola generale esprime nel caso concreto. Detto in altre parole non c’è la correttezza ma un comportamento corretto a fronte di date determinate circostanze di fatto, perché non può ammettersi un significato oggettivo preesistente della clausola generale indipendente dalle prospettive dell’interprete aventi riguardo al caso concreto.
Ne consegue che l’applicazione di c.d. clausole generali non è un enunciato fattuale, ma normativo, e come tale è soggetto alla
contro
llo di legittimità al pari di ogni altro controllo fondato su norme giuridiche, poiché nell’esprimere il giudizio valutativo necessario integrare il parametro generale contenuto nella norma elastica, il giudice compie un’attività di interpretazione giuridica dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla a un determinato contesto storico sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificati a priori: come è stato anche detto, la sentenza, nella misura in cui il diritto è solo quello del «caso concreto», «esprime la norma» e il vincolo che deriva dalla pronuncia giudiziale non è meramente «persuasivo» (com’e proprio del giudizio sul fatto) ma è normativo.
Al giudice di legittimità spetta, dunque, il sindacato su siffatto giudizio espresso dal giudice di merito, poiché esso deve essere conforme ai principi propri dell’ordinamento come compendiato dai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità e degli standards v alutativi del contesto storico e sociale, i quali devono essere coerenti al diritto vivente in una certa materia; come affermato, del resto, con orientamento consolidato da questa Corte con pronunce relative a casi e materie diverse (v. per tutte Cass. Sez. Un.n. 2572/2012 in materia di compensazione delle spese, la quale ha precisato altresì che l’accesso a detto sindacato implica « che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto a quegli standards, conformi ai valori dell’ordinamento» , quindi « mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge »; Cass. 30939/18 in materia di circolazione stradale e accertamento di giustificato motivo che esonera da responsabilità; Cass. n. n. 8047/2019, in materia di offerta al pubblico di strumenti finanziari, e di nozione elastica di «coerenza» tra le informazioni diffuse e quelle riportate nel
prospetto informativo successivamente pubblicato; Cass. 34017/2019 a proposito dell’interpretazione della diligenza del buon padre di famiglia di cui art. 1176 in materia bancaria, cui sono seguite innumerevoli pronunce conformi).
3.1.3- In conclusione anche in questo caso il Collegio intende ribadire che la nozione di norma «elastica», configurabile quando una disposizione prescrittiva generale ed astratta non delimita l’obbligo in modo specifico (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali), delinea un modulo prescrittivo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa. Perciò allorquando un determinato comportamento deve essere valutato conforme o meno a buona fede il giudice di merito è chiamato ad integrare il contenuto della norma, e tale attività di precisazione e integrazione, è censurabile in sede di legittimità al pari di ogni giudizio fondato su norme giuridiche, atteso che, nell’esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto nella norma elastica, il giudice compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori.
3.2 – Ciò precisato circa la sindacabilità in sede di legittimità nei termini predetti della valutazione contenuta nella sentenza gravata della violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto, il motivo è infondato.
Il giudice ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle
stesse; per cui, qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, c.c. (Cass. 22626/16).
La compiuta valutazione di non contrarietà a buona fede, nel caso di specie è condivisibile, poiché – diversamente da quanto sostiene parte ricorrente i giudici d’appello hanno attentamente vagliato, sulla scorta proprio dell’articolo 1460 comma 2° e degli standard interpretativi richiamati dalla ricorrente, la legittimità e la proporzionalità del diniego opposto dalla banca alla richiesta di procedere al frazionamento.
Invero la Corte ha, prima di tutto, ritenuto non condivisibile la doglianza di Villa Heloise secondo cui il banco di Sicilia avrebbe «tollerato » l’inadempimento della mutuataria non chiedendo la risoluzione dei contratti di mutuo in corso pur esistendone pacificamente tutti i presupposti e ingenerando così illegittimo affidamento di ottenere il frazionamento, invero la Corte d’appello ha espressamente escluso che fosse ravvisabile « una condotta della banca idonea a ingenerare un legittimo affidamento della mutuataria alla definizione del finanziamento con l’erogazione finale e frazionamento nonostante il perdurare del suo inadempimento», avendo accertato che, benché avesse consentito che la mutuataria incassasse l’intero importo dell’erogazione rateale senza decurtazione degli interessi di preammortamento per far fronte alle esigenze di liquidità dell’impresa, tuttavia, la banca, « contestualmente alle proposte di frazionamento aveva ripetutamente richiesto alla stessa mutuataria di rientrare dalla propria esposizione debitoria (vedi corrispondenza intercorsa)»; (così la sentenza pag.8), e che « dopo una corrispondenza
interlocutoria lo trattasi per più di un anno perdurando l’inadempimento con contestuale aggravarsi dell’esposizione debitoria l’istituto bancario aveva consentito la definizione del mutuo e al suo frazionamento ma con un’ulteriore garanzia rispetto a quella prevista contrattualmente»: condotta della banca che « non può nemmeno ritenersi contraria a buona fede nell’esecuzione del contratto. Infatti il mancato esercizio della facoltà di recedere dal contratto non può comportare di per sé anche la rinunzia a tutti gli altri strumenti di derivazione contrattuale e/o normativa posti a tutela del diritto del contraente».
In secondo luogo la Corte d’appello ha giudicato del tutto privo di fondamento la tesi dell’appellante – odierna ricorrente- secondo cui il Banco di Sicilia, non chiedendo immediatamente la risoluzione del mutuo avrebbe abusato del proprio diritto determinando un’ulteriore deteriore deterioramento l’esposizione di vittoria della mutuataria: osserva, infatti, la Corte d’appello che se la banca avesse risolto il contratto essa avrebbe potuto calcolare gli interessi di mora sull’intero capitale mutuato e non solo sulle rate di preammortamento scadute, trovandosi al contempo libera di aggredire immediatamente tutte le (302) unità immobiliari costituenti il complesso ipotecato, oltre agli immobili ipotecati della società terza garante; mentre « in difetto di recesso dal contratto, a fronte di un’esposizione debitoria del tutto equivalente , il credito costituito dal capitale non poteva essere azionato», ha quindi, smentito, che il mancato recesso del contratto abbia determinato un peggioramento della situazione debitoria della mutuataria ed una posizione maggiormente vantaggiosa per la mutuante . Infine ha osservato che « non poteva essere imputato alla banca il mancato passaggio in ammortamento del mutuo dal momento che si tratta di una conseguenza della mancata erogazione della rata finale che era stata legittimamente rifiutata alla luce dell’inadempimento della mutuataria»: valutazione, anche questa,
del tutto corretta alla luce del principio di buona fede che la resistente assume violato, ove si consideri l’incidenza dell’inadempimento sull’economia complessiva del rapporto, poiché è incontestato che l’appellante non corrispose più gli interessi di preammortamento a partire dal mese di febbraio 1994, che tali interessi ammontavano già a 10,5 miliardi di vecchie lire il 21.11.94 (pari ad 1/4 del capitale mutuato, complessivamente con i due contatti pari a 42 miliardi di lire) in una situazione di crisi di liquidità dell’impresa per cui la banca già aveva consentito l’incasso dell’intero importo delle erogazioni periodiche senza effettuare alcun abbattimento per il pagamento degli interessi di preammortamento già maturati ed ai relativi interessi di mora, e che non mostrava alcuna possibilità di essere recuperata se non attraverso le vendite delle (poche) unità terminate che la società intendeva, quindi, destinare eslcusivamente al proprio fabbisogno, sena onorare gli impegni assunti con la mutuante.
– Il ricorso in conclusione va respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese in favore di parte controricorrente, liquidate nell’importo di euro 15.200,00cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° Sezione