Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 3026 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 3026 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 01/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1189/2021 R.G. proposto da:
NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende;
-ricorrenti-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona dell’Amministratore delegato e legale rappresentante, NOME COGNOME, nella qualità di procuratrice di RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO (CODICE_FISCALE) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 5236/2020, depositata il 23/10/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/01/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato in fatto che:
RAGIONE_SOCIALE, procuratrice di RAGIONE_SOCIALE, cessionaria di una serie di rapporti giuridici di RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, citava, dinanzi al Tribunale di Roma, NOME COGNOME e NOME COGNOME, perché venisse dichiarata l’inefficacia ex art. 2901 cod.civ. dell’atto costitutivo di fondo patrimoniale risalente al 6 dicembre 2012 in cui era confluito l’unico immobile di proprietà dei due coniugi; adducendo, a tal fine, che RAGIONE_SOCIALE aveva stipulato con NOME COGNOME un mutuo di euro 75.000,00 con indicizzazione in yen, da restituire in dieci anni, che NOME COGNOME si era reso inadempiente agli obblighi restitutori, che la mutuataria era stata costretta a promuovere una procedura esecutiva immobiliare conclusasi con l’aggiudicazione di euro 35.000,00 insufficienti ad estinguere il mutuo, che la costituzione del fondo patrimoniale pregiudicava il soddisfacimento del credito residuo;
i convenuti, costituitisi, deducevano che non vi erano i presupposti dell’azione revocatoria e con domanda riconvenzionale chiedevano che fosse accertato, anche attraverso CTU, che il debito residuo verso la banca ammontava ad euro 21.049,25;
il Tribunale accoglieva la domanda attorea, dichiarava inefficace nei confronti della banca istante l’atto di costituzione del fondo patrimoniale e rigettava la domanda riconvenzionale;
la Corte d’appello di Roma, dinanzi alla quale i coniugi COGNOME impugnavano la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva rigettato la domanda riconvenzionale, con la sentenza n. 5236/2020, resa pubblica in data 23/10/2020, ha respinto l’appello ed ha confermato la pronuncia del Tribunale;
segnatamente, la Corte territoriale ha, in primo luogo, esaminato d’ufficio la questione concernente la mancata proposizione dell’opposizione all’esecuzione istaurata per l’intero credito, conclusasi con il soddisfacimento parziale dello stesso, ed ha ritenuto, applicando la giurisprudenza di questa Corte -Cass. n. 20994/2018; Cass. n. 23182/2014, Cass. n. 7371/2011 -che l’inerzia dell’esecutato cioè il mancato esercizio da parte sua dei poteri di contestazione della pretesa creditoria e/o di denuncia di errori del giudice dell’esecuzione anche nella fase distributivo/satisfattiva -precludesse l’esercizio anche della condictio indebiti ;
ha concluso, dunque, per il rigetto dell’appello, atteso che i debitori non avevano proposto opposizione all’esecuzione avviata dalla banca nei loro confronti; ha poi rigettato l’appello anche nel merito, in quanto ha ritenuto che la statuizione del giudice di prime cure, reiettiva della domanda riconvenzionale per l’inadeguatezza delle allegazioni a fondamento della stessa, essendo stati i calcoli della banca contestati genericamente, senza l’indicazione del tasso di interesse applicabile e facendo riferimento ad una transazione mai prodotta in atti, dovesse essere confermata, perché: i) il Tribunale aveva correttamente rigettato la richiesta di espletamento della CTU, dato il carattere meramente esplorativo della stessa, e altrettanto correttamente aveva negato alla perizia di parte l’idoneità a sopperire al difetto di allegazione; ii) non era stata fornita la prova (scritta) dell’avvenuta sottoscrizione di una transazione novativa che avrebbe rimesso in bonis il mutuatario, non bastando a provarla le ricevute di una serie di versamenti eseguiti in favore della banca; iii) emergeva dagli atti di causa che la banca aveva accolto la richiesta dei clienti di conversione della valuta; iv) non vi era alcuna ragione che giustificasse la rinuncia da parte della banca ad applicare il tasso convenzionale, parametrato a quello praticato per i mutui a tasso variabile in moneta italiana;
i coniugi COGNOME ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando tre motivi;
resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.;
il Pubblico Ministero non ha formulato conclusioni.
Considerato in diritto che:
1) con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, l’omessa motivazione, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 487, 512, 615 e 101 cod.proc.civ. e dell’art. 2033 cod.civ., la ricorrenza di un error in procedendo , ex art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.;
la tesi dei ricorrenti è che la Corte d’appello abbia introdotto d’ufficio la questione concernente la mancata proposizione dell’opposizione all’esecuzione instaurata dalla banca per l’intero credito e conclusasi con il soddisfacimento parziale dello stesso e il conseguente effetto preclusivo per i convenuti in ordine alla domanda di accertamento del quantum debeatur ;
2) con il secondo motivo lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed omessa motivazione ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ. nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ., in riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.;
la Corte d’appello ha ritenuto inammissibile l’appello nella parte in cui richiamava la documentazione prodotta in primo grado senza censurare il rilievo del Tribunale concernente l’omessa allegazione specifica degli errori di calcolo in cui sarebbe incorsa la banca;
secondo i ricorrenti ‘la banca non ha mai allegato alcun calcolo in giudizio, né ha mai fatto riferimento ad un qualsivoglia interesse applicato per la ricostruzione del presunto credito’, né avrebbe mai
fatto riferimento all’ammontare del proprio credito al momento dell’instaurazione del giudizio, limitandosi a sostenere che quanto ottenuto in sede di aggiudicazione non aveva estinto il credito; neppure dopo la proposizione della domanda riconvenzionale aveva preso posizione sulle deduzioni degli esponenti, limitandosi ad affermare che la perizia di parte era di provenienza unilaterale; neppure aveva depositato alcun estratto conto o un riepilogo dei rapporti dare/avere;
solo i precetti notificati contenevano una presa di posizione della banca in merito ai calcoli, perciò di essi l’elaborato peritale aveva tenuto conto, facendone emergere gli errori attraverso il confronto con i conteggi effettuati sulla base delle pattuizioni contrattuali; i diversi conteggi contenuti nella perizia avrebbero dovuto essere considerati pacifici tra le parti, non avendo la banca contestato la comunicazione del 28 giugno 1995, l’accordo sul piano di rientro né di aver ricevuto alcuni pagamenti;
insistono, inoltre, i ricorrenti circa la correttezza dei conteggi contenuti nella perizia e la fondatezza degli errori in essa riscontrati;
lamentano che la banca anziché dimostrare di avere adempiuto agli obblighi contrattuali si sia trincerata dietro una posizione generica e che il giudice a quo non abbia motivato espressamente sul perché non si rintracciavano le allegazioni dei presunti errori di calcolo;
contestano anche l’ulteriore affermazione della sentenza impugnata, secondo cui la perizia non poteva sopperire al difetto di allegazione, ‘posto che la produzione documentale confusa e sovrabbondante, rende inattendibili le conclusioni raggiunte dal consulente di parte’;
censurano anche l’erronea applicazione dell’art. 2697 cod.civ., perché la banca non aveva provato l’ammontare del suo credito, né l’adempimento degli obblighi di comunicazione previsti dall’art. 117
TUB circa le condizioni praticate per i mutui a tasso variabile con provvista obbligazionaria in lire, depositando gli estratti dai quali evincere che non era stato applicato, come era stato contestato, il cambio yen/lira ;
aggiungono che se la Corte avesse esaminato tutti gli elementi allegati avrebbe dovuto ammettere la CTU o almeno ritenere forniti una serie di indizi che, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, avrebbero potuto acquisirla ove fossero stati valutati nella loro convergenza globale;
3) con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e dell’omessa motivazione, ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., nonché della violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.;
premesso che ‘è vero che le espressioni dei deducenti nei precedenti gradi possano avere in qualche modo complicato la vicenda’, la conclusione di un accordo novativo doveva ritenersi provata: dalla risposta della banca del 6 febbraio 1997 alla proposta di pagamento di l. 4.000.000 e di successive rate di l. 800.000 mensili; dall’esecuzione dell’accordo mediante pagamento di 22 rate, quietanzate;
la Corte territoriale avrebbe erroneamente limitato il proprio esame solo ad uno degli elementi a sua disposizione, cioè i 22 pagamenti;
attinta da censura è anche la statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto correttamente operato dalla banca il cambio valuta dallo yen alle lire, nonostante dai precetti successivi al 1995 risultassero addebiti per oltre l. 46.000.000 per oneri di variazione cambio, salvo conguaglio che avrebbero dovuto essere considerati illegittimi, atteso che l’art. 4 del contratto consentiva ai mutuatari il diritto di chiedere il cambio valuta;
in aggiunta, anziché motivare il perché non fosse fondato l’addebito alla banca di non aver applicato il tasso minimo dei bot, attesa la nullità della clausola uso piazza, e di non aver comunicato il tasso, la Corte d’appello si sarebbe limitata ad affermare che non si capiva perché la banca avrebbe dovuto rinunciare ad applicare il tasso convenzionale parametrato a quello praticato per i mutui a tasso variabile in moneta italiana;
4) va innanzitutto precisato che i l giudice di merito che, dopo avere aderito ad una prima ” ratio decidendi “, esamini ed accolga anche una seconda “ratio”, al fine di sostenere la propria decisione, non si spoglia della ” potestas iudicandi “, atteso che l’art. 276 cod.proc.civ. distingue le questioni pregiudiziali di rito dal merito, ma non stabilisce, all’interno di quest’ultimo, un preciso ordine di esame delle questioni; in tale ipotesi, pertanto, la sentenza risulta sorretta da due ” rationes decidendi “, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata; sicché l’inammissibilità del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile (Cass. 13/06/2018, n. 15399);
ora, la Corte territoriale ha disatteso l’appello per ragioni di rito e per ragioni di merito;
per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, i ricorrenti avrebbero dovuto censurare, e farlo utilmente, tutte le rationes decidendi della sentenza impugnata, per non privare il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cass. 19/05/2021, n. 13595);
ciò non è avvenuto nel caso di specie;
è sufficiente considerare che:
con i motivi secondo e terzo è dedotta la violazione dell’art. 360, 1° comma, n. 5 cod.proc.civ., nonostante la preclusione processuale di cui all’art. 348 ter cod.proc.civ.; nell’ipotesi di ‘ doppia conforme ‘, prevista dall’art. 348 -ter, 5° comma, cod.proc.civ., il ricorrente in cassazione -per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 25/02/2022, n.6295);
il difetto di motivazione imputato alla Corte d’Appello non emerge dalla sentenza, ma dal confronto tra la sentenza e le risultanze processuali; per meritare accoglimento la denunciata anomalia motivazionale deve risultare dal testo della sentenza impugnata in sé e per sé considerato e non essere basato su elementi estrinseci (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054);
un motivo denunciante la violazione dell’art. 2697 cod.civ. si configura effettivamente e, dunque, dev’essere scrutinato come tale solo se in esso risulti dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni; al contrario, allorquando il motivo deducente la violazione del paradigma dell’art. 2697 cod.civ. non risulti argomentato in questi termini, ma solo con la postulazione (erronea) che la valutazione delle risultanze probatorie abbia condotto ad un esito non corretto, il motivo stesso è inammissibile come motivo in iure ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod.proc.civ. (se si considera l’art. 2697 cod.civ. norma processuale) e ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ. (se si considera l’art. 2697 cod.civ.
norma sostanziale, sulla base della vecchia idea dell’essere le norme sulle prove norma sostanziali) e, nel regime dell’art. 360 n. 5 oggi vigente si risolve in un surrettizio tentativo di postulare il controllo della valutazione delle prove oggi vietato ai sensi di quella norma scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. , Sez. Un ., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054 ; Cass., Sez. Un., 5/08/2016, n. 16598 e già Cass. 10/06/2016, n. 11892, seguite da copiosa giurisprudenza conforme);
gli errores in iudicando attribuiti alla Corte d’appello sono dedotti senza la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. Un., 05/05/2006, n. 10313); in altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle;
la inidoneità dei motivi di ricorso a confutare efficacemente la statuizione della Corte territoriale che ha rigettato nel merito l’appello rende, allora, irrilevante lo scrutinio del ricorso nella parte che attinge la statuizione di rito, perché, come anticipato, quand’anche le censure mosse alla sentenza impugnata fossero fondate, esse non condurrebbero alla sua cassazione;
il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a corrispondere alla controricorrente la somma di euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.pr. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso nella Camera di Consiglio dell’8/01/2024 della Terza