Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 33938 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 33938 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 36366/2019 r.g. proposto da:
COGNOME NOME e NOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale resa in foglio separato spillato in calce al ricorso, i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e notifiche agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, succeduta nei diritti, obblighi e posizioni processuali della Milano
RAGIONE_SOCIALE a seguito di fusione per incorporazione con atto a rogito Notaio NOME COGNOME di Bologna, del 31/12/2013, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difend e, in via disgiunta, con l’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale contenuta nel controricorso, i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni presso gli indirizzi di posta elettronica certificata indicati
– controricorrente –
E
Comune di Caltagirone, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale rilasciata su foglio separato, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e notificazioni all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-controricorrente-
E
RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, Milano Assicurazioni RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore; RAGIONE_SOCIALE
-intimati-
avverso la sentenza della Corte di appello di Catania n. 2264/2018, depositata in data 29/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12 /2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Il Comune di Caltagirone aggiudicava in data 23/4/1996 la gara di evidenza pubblica per la realizzazione del locale palazzo di giustizia alla società RAGIONE_SOCIALE, successivamente dichiarata fallita il 4/4/2002, con contratto stipulato il 14/11/1996 e consegna dei lavori avvenuta il 4/10/1996.
Per quel che ancora qui rileva, a seguito di visite di collaudo da parte della stazione appaltante del 16/6/1997 e del 18/3/1998, ma soprattutto in ragione delle modifiche normative sopravvenute, non solo in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche per la riforma in materia ordinamentale, con l’introduzione del Giudice Unico e la soppressione della Procura presso la Pretura e della Pretura stessa, veniva disposta la sospensione dei lavori dal 14/5/1998.
Ciò in quanto doveva essere redatta perizia di variante per aggiornamenti progettuali, ma non per carenze progettuali originarie.
Con nota dell’Ingegnere Capo del Comune in data 22/7/1999 veniva invitata la società RAGIONE_SOCIALE a sottoscrivere l’atto di sottomissione.
La società, invece, con la nota del 22/11/1999 – l’interpretazione del cui contenuto rappresenta l’oggetto di questa controversia manifestava la volontà di sciogliersi dal contratto (nella nota si faceva riferimento sia alla risoluzione che al recesso, con indicazione dell’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994) perché l’importo della variante superava il quinto d’obbligo, ossia il 20% delle opere.
Con la delibera del Comune n. 38 del 24/2/2000 l’ente locale procedeva allo scioglimento dal contratto ex art. 344 legge n. 2248 del 1865.
Inoltre, la società nelle more aveva ricevuto la somma di lire 1.038.170.510, mentre i lavori eseguiti sino al momento della risoluzione operata da parte del Comune erano dell’importo di lire 603.727.649,70, con una riserva accolta pari a lire 12.133.184. Pertanto, vi era un obbligo restitutorio a carico della società di euro 228.433,8.
Era stata, però, stipulata una polizza assicurativa in ordine alle somme che la società doveva restituire all’ente locale dalla Milano Assicurazioni, mentre una fideiussione di regresso o sub fideiussione era stata concessa da NOME COGNOME in proprio e quale procuratore speciale di NOME COGNOME.
Pertanto, il fallimento della RAGIONE_SOCIALE con atto di citazione del 3/4/2003 chiedeva:1. Dichiararsi illegittimo lo scioglimento del Comune dal contratto di appalto con delibera del 24/2/2000; 2. Dichiararsi la risoluzione del contratto per colpa della stazione appaltante; 3. La condanna del Comune al pagamento dei lavori eseguiti e anche del 10% delle opere non eseguite, oltre alle riserve, per l’importo di euro 1.625.524,10; 3. In subordine, il pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali utili e del 10% dei lavori non eseguiti, ex art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994.
Si costituiva il Comune di Caltagirone proponendo domanda riconvenzionale nei confronti del fallimento per la restituzione delle somme ricevute per anticipazioni. Chiedeva, inoltre, l’autorizzazione alla chiamata in causa della Milano Assicurazioni e della Fondiaria Sai.
La Milano Assicurazioni deduceva che la risoluzione del Comune era nulla o illegittima e che, comunque, sussisteva la compensazione tra quanto doveva essere restituito al Comune ed il credito della società per i lavori eseguiti. Proponeva azione di regresso nei confronti dei sub-fideiussori.
La Fondiaria Sai eccepiva la sua totale estraneità giudizio, in assenza di polizze sottoscritte.
Si costituivano in giudizio i fideiussori deducendo l’illegittimità del vincolo negoziale sotto tre profili:1) nullità della fideiussione per violazione della legge n. 295 del 1988, in quanto estranea all’oggetto sociale dell’assicurazione;2) annullabilità per errore ostativo;3) vessatorietà delle clausole e tutela del consumatore.
Il tribunale con sentenza del 13/4/2012 rigettava la domanda del fallimento RAGIONE_SOCIALE nei confronti del Comune per la risoluzione del contratto.
Trovava applicazione l’art. 30 della legge n. 1063 del 1962, essendo legittima la sospensione anche se di durata oltre i sei mesi. In realtà, ad avviso del tribunale, proprio in ragione della legittimità della sospensione la manifestazione di volontà della società con la nota del 22/11/1999 doveva essere qualificata come recesso della stessa e non come risoluzione.
Il fallimento RAGIONE_SOCIALE aveva, dunque, diritto esclusivamente al pagamento dei lavori eseguiti, pari ad euro 228.433,88. Non aveva, però, diritto ad una percentuale dei lavori non realizzati.
Non sussisteva invece il grave inadempimento del Comune, in quanto la variante era stata resa necessaria dalle sopravvenienze normative, in materia di infortuni sul lavoro.
Veniva accolta la domanda riconvenzionale del Comune nei confronti del fallimento per la restituzione della somma di euro 222.309,26, ricevuta a titolo di anticipazioni, dovendosi tenere conto dell’entità dei lavori eseguiti alla data di scioglimento del contratto di appalto (somma inferiore a quella erogata titolo di anticipazione).
Il tribunale rigettava le domande del Comune di Caltagirone nei confronti della responsabile solidale RAGIONE_SOCIALE in quanto
la fattispecie non era riconducibile ad alcuna delle ipotesi oggetto di garanzia.
Veniva respinta la domanda nei confronti della Fondiaria Sai, per essere la stessa estranei ai fatti. Restava assorbita la domanda di regresso della banca nei confronti dei sub-fideiussori.
Avverso la sentenza del tribunale proponeva appello principale (notificato il 28/5/2013) il Comune di Caltagirone chiedendo l’accoglimento della domanda di condanna solidale nei confronti della Milano Assicurazioni per euro 223.309,26, a titolo di anticipazioni.
Proponeva appello incidentale la RAGIONE_SOCIALE chiedendo accogliersi la domanda di risarcimento del fallimento RAGIONE_SOCIALE nei confronti del Comune, con accertamento del credito di quest’ultimo e conseguente compensazione con le somme dovute dal fallimento al Comune per restituzione dell’anticipazione. Chiedeva anche accertarsi l’inoperatività della polizza.
La RAGIONE_SOCIALE proponeva anche domanda di regresso nei confronti dei fideiussori NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione all’eventuale accoglimento dell’appello principale del Comune e di rigetto dell’appello incidentale proprio.
Proponeva appello incidentale il fallimento RAGIONE_SOCIALE (notificato il 3/6/2013).
A parere del fallimento era errata l’interpretazione data dal tribunale alla nota della società del 22/11/1999. Non trattavasi, infatti, di recesso manifestato dalla società, ma di risoluzione per inadempimento. Doveva allora applicarsi l’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994, per l’ipotesi di varianti oltre il quinto d’obbligo, con diritto anche al pagamento di una porzione dei lavori non eseguiti (primo motivo). Vi erano, in realtà, carenze del progetto
esecutivo (secondo motivo), con radicale irrealizzabilità del progetto iniziale (terzo motivo di appello).
Con il quarto motivo di appello incidentale il fallimento RAGIONE_SOCIALE rilevava che, ai sensi dell’art. 30 del d.P .R. n. 1063 del 1962, la sospensione dei lavori era stata illegittima e, comunque, oltre i 6 mesi; su un tempo contrattuale di 36 mesi per ben 18 mesi erano stati sospesi lavori.
Si deduceva, poi, la nullità della CTU (quinto motivo) e l’improcedibilità della domanda riconvenzionale del Comune nei confronti del fallimento, dovendo l’ente locale insinuarsi al passivo del fallimento (sesto motivo).
La Corte d’appello di Catania rigettava i motivi dal primo al quinto dell’appello incidentale del fallimento RAGIONE_SOCIALE
Chiariva preliminarmente la formazione del giudicato interno in ordine alla non applicabilità alla fattispecie in esame dell’art. 25 della legge n. 109 del 1994, in materia di varianti in corso d’opera e risoluzione («giova premettere che la Curatela non censura il capo di sentenza con cui è stato ricostruito il quadro normativo di riferimento escludendo – in particolare – l’applicabilità ratione temporis delle disposizioni di cui all’art. 25 della legge 109/94 relative all’adozione di varianti eccedenti il quinto dell’importo originario del contratto e quindi alla facoltà (per la stazione appaltante) di procedere alla risoluzione del contratto di appalto corrispondendo all’appaltatore il pagamento dei lavori eseguiti ed il 10% di quelli non eseguiti»).
La Corte territoriale sottolineava l’assenza di gravi carenze progettuali, non sussistendo il grave inadempimento da parte del Comune.
Tra l’altro, il CTU aveva evidenziato che le opere erano state eseguite con estrema lentezza e che tali ritardi non dipendevano da
carenze progettuali. Dalla relazione riservata risultava che i ritardi erano dovuti a carenze di mezzi e personale.
Del resto – proseguiva la Corte d’appello – l’assenza di carenze progettuali emergeva anche da altri elementi: la richiesta di acconto da parte della società con nota del 20/11/1996, mentre i lavori erano stati consegnati il 4/10/1996, senza alcuna riserva sul punto; nel primo SAL (unico SAL) del 7/3/1998 era stata iscritta un’unica riserva per i prezzi relativi agli scavi; nella conferenza di servizi del 10/5/1997 non si faceva riferimento a vizi progettuali; con la nota del 21/9/1998 la società sollecitava il Comune per la ripresa dei lavori.
La sospensione dei lavori era stata necessaria dovendosi prendere in considerazione le nuove norme in materia di sicurezza e prevenzione incendi, di cui al d.lgs. n. 626 del 1994 e al d.P.R. n. 37 del 1988, oltre che dovendosi tenere conto dei nuovi uffici giudiziari «in relazione all’istituzione del Giudice unico e, in particolare, della procura della Repubblica di Caltagirone».
La nota della società del 22/1/1999 doveva reputarsi recesso e non risoluzione, non spettando alcuna indennità ex art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962, ma esclusivamente il pagamento dei lavori eseguiti.
Trovava applicazione l’art. 344 della legge n. 2248 del 1865, con facoltà dell’appaltatore di chiedere la risoluzione del contratto nell’ipotesi di incremento dei lavori oltre il quinto del prezzo dell’appalto.
Le domande del fallimento dovevano essere tutte rigettate in quanto «l’importo netto dei lavori eseguiti effettivamente spettante all’impresa ascendeva a vecchie lire 603.727.649,70, oltre a vecchie lire 12.133.184 per la riserva accolta mentre la stessa avrebbe dovuto restituire al Comune (operando la differenza rispetto alle
anticipazioni ottenute) la somma di vecchie lire 442.309.676,30, pari ad euro 228.433,88».
Veniva, invece, accolto il sesto motivo di appello incidentale della società con la dichiarazione di improcedibilità della domanda riconvenzionale di condanna proposta dal Comune nei confronti della curatela del fallimento, non trattandosi di mera eccezione di compensazione.
13.1. La Corte territoriale accoglieva l’appello del Comune nei confronti della Milano Assicurazioni, in quanto la polizza atteneva tutte le ipotesi di restituzione dell’anticipazione, ex art. 3 D.M. 25/11/1972, con particolare riferimento al comma 3.
Pertanto, la Corte di merito condannava la RAGIONE_SOCIALE a pagare al Comune la somma di euro 228.433,88.
13.2. Veniva accolto anche l’appello incidentale della Milano Assicurazioni, relativo alla domanda di rivalsa nei confronti dei fideiussori di regresso, NOME COGNOME e NOME COGNOME, in quanto «la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore ai fini della sussistenza del requisito soggettivo di consumatore».
Non vi erano vizi della volontà degli COGNOME riconoscibili dalla controparte e neppure la nullità della fideiussione per contrarietà a norme imperative.
Chiariva la Corte d’appello che «con la sottoscrizione del contratto denominato ‘appendice per atto di coobbligazione’ degli Astorina si sono limitati ad assumere – in via solidale con la RAGIONE_SOCIALE – i medesimi obblighi che questa aveva assunto con la stipulazione della polizza fideiussoria sopra citata, tra cui ( cfr. art. 7 delle condizioni generali di assicurazione) l’obbligo di rimborso, in favore dell’assicurazione, di tutte le somme che questa fosse chiamata a versare in forza della polizza stessa».
Tale contratto non rientrava nel novero delle operazioni estranee rispetto a quella di assicurazione, riassicurazione, capitalizzazione e risparmio «ma si risolve nell’estensione (a tutela delle ragioni di rivalsa contrattualmente sancite con la detta polizza fideiussoria e in stretto collegamento funzionale con detto contratto) del novero dei soggetti obbligati al rimborso previsto dalla polizza fideiussoria stipulata dalla RAGIONE_SOCIALE in bonis».
Si trattava, allora, «di un contratto che risulta strettamente connesso e strumentale rispetto all’esercizio dell’attività assicurativa, con caratteristiche analoghe alla cessione dei rischi in riassicurazione».
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE a seguito di fusione per incorporazione della RAGIONE_SOCIALE ed il Comune di Caltagirone, quest’ultimo depositando anche memoria scritta.
Sono rimaste intimate la Fondiaria RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE
Il Procuratore Generale, nella persona del dott. NOME COGNOME ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del terzo motivo.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell’art. 106 c.p.c., rilevante in quanto in contrasto con il disposto dell’art. 111 della Costituzione».
La Corte d’appello non avrebbe tratto le dovute conseguenze dall’affermata improcedibilità della domanda riconvenzionale svolta
dal Comune nei confronti del fallimento per il pagamento della somma di euro 222.309,24.
Per i ricorrenti, una volta ritenuto improcedibile la domanda riconvenzionale svolta dal Comune nei confronti del fallimento, sorgeva «il problema dell’ammissibilità di una chiamata in causa da parte del Comune inerente ad una domanda principale improcedibile sin dall’origine».
Pertanto – deducono i ricorrenti – «la parte che formula una domanda giudiziale, che già nel momento in cui viene proposta è manifestamente viziata da improcedibilità, non può estendere la domanda medesima da altri soggetti attivando il meccanismo della chiamata in causa».
Il vaglio di procedibilità di una domanda dovrebbe, dunque, precedere e condizionare quello di ammissibilità della chiamata del terzo.
Tra l’altro la domanda contro il terzo promossa dal Comune si fondava su un titolo diverso, traendo origine da una polizza fideiussoria a garanzia di un’obbligazione di carattere restitutorio, rivolgendosi al soggetto che aveva incamerato la somma di denaro.
Se, «l’amministrazione appaltante non era legittimata a proporre una domanda riconvenzionale contro la Curatela attrice, a fortiori non poteva essere autorizzata a rivolgerla verso soggetti originariamente non presenti in causa, e ancor meno poteva formulare contro di essi una domanda distinta e fondata su un titolo diverso da quello azionato con la riconvenzionale».
La Corte d’appello avrebbe dovuto quindi dichiarare «il non luogo a provvedere sulla domanda formulata dal Comune e fondata sulla polizza fideiussoria, e conseguentemente non luogo a provvedere anche sulla domanda rivolta ‘a cascata’ contro gli odierni ricorrente
(ossia: quella che l’impresa assicuratrice ha fondato sull’appendice per atto di coobbligazione)».
Conseguentemente anche le spese di lite non potevano essere poste a carico dei ricorrenti, mentre il Comune doveva essere condannato a rimborsarle sia alla compagnia assicuratrice, «ingiustamente chiamata in causa», che ai signori COGNOME «i quali senza la chiamata dell’assicuratore sarebbero rimasti estranei al giudizio».
Il motivo è inammissibile.
2.1. Il motivo è nuovo e, dunque, inammissibile, in quanto la censura è stata sollevata per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, mentre non ve ne è traccia nella motivazione della sentenza della Corte d’appello.
I ricorrenti, dunque, non hanno mai sollevato alcun rilievo in ordine alla presunta interferenza, sulla legittimità dell’autorizzazione alla loro chiamata in causa nel giudizio di primo grado, della procedibilità o meno della domanda riconvenzionale di condanna promossa, nel giudizio di prime cure, dal Comune di Caltagirone nei confronti del fallimento RAGIONE_SOCIALE quale obbligato principale.
2.2. Il motivo è anche infondato nel merito, non essendovi alcuna preclusione, per quanto concerne l’ente beneficiario delle polizze (il Comune) ad estendere le proprie pretese e domande creditorie nei confronti del garante, nell’ambito del giudizio promosso contro il debitore principale, al fine di ottenere la condanna del garante stesso al pagamento delle medesime somme reclamate nei confronti dell’appaltatore.
2.3. Va chiarito, sul punto, che, con riferimento alle obbligazioni solidali, in un primo tempo si è affermato che, in tema di competenza in ordine alle controversie aventi ad oggetto l’accertamento dei crediti nei confronti di un soggetto poi dichiarato fallito, ove l’attore,
a tutela della propria situazione soggettiva, faccia valere in giudizio l’esistenza di una obbligazione solidale per l’adempimento di una medesima prestazione (sì da poter richiedere l’adempimento per l’intero a ciascuno degli obbligati solidali), ed uno dei condebitori venga dichiarato fallito, l’esistenza di un unico interesse, cui non può che corrispondere un unico diritto, rende operativa la ” vis attractiva ” ex art. 24 legge fall., con conseguente spostamento della competenza presso il tribunale fallimentare anche della controversia relativa al rapporto corrente tra il creditore ed il condebitore non fallito, diversamente da quanto accade in presenza delle obbligazioni solidali di garanzia (Cass., sez. L, 23 luglio 2004, n. 13875).
2.4. Successivamente, si è osservato diversamente che non v’è spostamento di competenza (né di rito diverso ex art. 93 l.f.) per il soggetto, obbligato solidale, non fallito.
In questa ipotesi (Cass., sez. 3, 28 settembre 2012, n. 16535) l’attore chiedeva i danni all’impresa edile che aveva effettuato i lavori di costruzione dell’acquedotto di un Comune. Il Tribunale aveva autorizzato la chiamata in causa del Comune. L’impresa falliva in primo grado e veniva dichiarata l’interruzione del giudizio. Il Tribunale condannava l’impresa ed il comune al risarcimento dei danni. La Corte di appello accoglieva l’appello del fallimento dell’impresa per la dichiarazione di incompetenza ex art. 24 l.f., trattandosi di sentenza di mero accertamento ma che fungeva da presupposto per la successiva condanna nei confronti del fallimento. Veniva condannato, quindi, solo il Comune, che proponeva ricorso per cassazione lamentandosi della violazione dell’art. 24 l.f. Questa Corte ha dissentito dal precedente n. 13875 del 2004 ed ha affermato che il fallimento del chiamato in garanzia determina l’improcedibilità della domanda proposta contro tale parte, mentre le
domande proposte contro i debitori in bonis non vengono attratte al foro del fallimento.
Per questa Corte dunque «la domanda contro il Comune è stata correttamente trattenuta dalla Corte d’appello, trattandosi di domanda autonoma per la quale non sussiste alcuna ragione giuridica che imponga la vis attractiva del tribunale fallimentare, tanto più in quanto il fallimento, come si è detto, è stato dichiarato durante il corso del giudizio di primo grado» (Cass., sez.3, n. 16535 del 2012).
2.5. Appare, invece, diversa l’ipotesi, quanto al rapporto di garanzia impropria, ritenendosi che, in ipotesi di chiamata in causa di terzo che introduca una domanda di garanzia (nella fattispecie diversa da quella in esame in cui il Comune chiama in garanzia un’assicurazione – già dichiarata fallita – per il risarcimento dei danni dovuto ad una caduta per strada), fondata su un distinto rapporto giuridico fra chiamante e chiamato, la dichiarazione di fallimento del chiamato comporta l’improcedibilità di tale domanda di garanzia, ai sensi degli artt. 24 e 52 l.fall. (anche nel testo sostituito dagli artt. 21 e 49, d.lgs. 9 gennaio 2006 n.5 con decorrenza 16 luglio 12006), ma tale improcedibilità non si riflette sull’autonoma controversia relativa alla domanda principale dell’attore contro il convenuto ossia il Comune (Cass., 8 marzo 2007, n. 5309; Cass., 24 febbraio 2011, n. 4464).
Con la precisazione, peraltro, che «al carattere solidale dell’obbligazione del fideiussore – che esclude la necessità di un litisconsorzio tra i condebitori – consegue, quindi, che il fallimento del debitore principale, dichiarato in pendenza del giudizio di pagamento proposto contro il fideiussore, non comporti il trasferimento al giudice fallimentare della causa proposta contro il fideiussore, la quale, qualora configuri una controversia riservata alla
competenza funzionale di altro giudice, rimane allo stesso affidata senza essere attratto nella competenza del giudice fallimentare» (Cass., n. 4464 del 2011; si richiama Cass., 20/6/2000, n. 8336; anche Cass., sez.1, n. 2902 del 2016;Cass., sez. L, n. 2411 del 2010; Cass., 9/7/2005, n. 14468; Cass., 1/9/1995, n. 9211; Cass., n. 105 del 1983).
2.6. Si è da ultimo affermato che nel giudizio promosso da un soggetto “in bonis”, e proseguito dal curatore, per il recupero di un credito, la domanda riconvenzionale, proposta dal convenuto, volta all’accertamento del proprio credito nei confronti del fallito, in quanto soggetta al rito speciale previsto dagli artt. 93 e ss. l.fall. per l’accertamento del passivo, deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile; la domanda principale, per contro, resta innanzi al giudice adìto, al pari di quelle formulate dal convenuto nei confronti del condebitore e del fideiussore del fallito, stante il carattere solidale della loro responsabilità e l’autonomia dell’azione di pagamento esercitata nei loro confronti rispetto a quella intrapresa verso il fallito (Cass., sez. 1, 21/12/2015, n. 25674).
Si è chiarito, infatti, che, in tema di obbligazioni solidali, la regola dell’improcedibilità nella sede ordinaria della domanda di adempimento e della conseguente attrazione a quella fallimentare, ai sensi dell’art. 24 l.f., non trova applicazione, in caso di sopravvenuto fallimento di uno dei condebitori, allorché contro tale soggetto non si era svolta alcuna domanda volta ad ottenere un titolo per partecipare al concorso e, dunque, il creditore possa proseguire il giudizio verso il condebitore in bonis (Cass., n. 25674 del 2015; Cass., n. 25403 del 2009; con riferimento alla responsabilità in capo al cessionario, ex art. 2560 c.c., per i debiti dell’azienda cedutagli dal cedente poi fallito, situazione qualificabile come fonte di solidarietà
impropria, cioè relativa rapporti eziologicamente ricollegati a fonti diverse).
Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la «violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della disciplina di cui agli articoli 1362-13631366-1367-1369-1371 c.c.».
In sostanza, i ricorrenti deducono che la Corte d’appello ha erroneamente reputato che la nota della società del 22/11/1999 costituisse una ipotesi di recesso e non di risoluzione contrattuale.
In realtà, la nota del 22/11/1999 richiamava in tre punti proprio la «risoluzione» del contratto.
Sarebbe stato univoco il riferimento alla «risoluzione in quanto indotta dalle varianti» imputabile a carenze della stazione appaltante.
Si manifestava la fondamentale differenza tra «varianti legittime», in relazione alle quali poteva porsi il problema del superamento del quinto d’obbligo ed il conseguente recesso dell’appaltatore, e «varianti illegittime» che, in quanto imputabili a negligenza della stazione appaltante, legittimavano la risoluzione del contratto, con le conseguenze risarcitorie.
Che si trattasse di risoluzione doveva emergere, ex art. 1363 c.c., dalle singole clausole ove si faceva riferimento al termine «risoluzione».
Precisano i ricorrenti che anche se il riferimento all’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994 era errato, tuttavia nella nota si assumeva il diritto al risarcimento inerente al mancato utile di impresa (10% sui lavori non eseguiti).
Pertanto, anche se il richiamo all’art. 25, comma 5, citato era avvenuto per errore, tuttavia «l’impresa aveva certamente inteso riferirsi ad una previsione normativa che individua una possibile
azione di risoluzione contrattuale da cui scaturiva un risarcimento in termini di perdita dell’utile che si sarebbe conseguito».
Alle medesime conclusioni conduceva anche l’art. 1367 c.c., in base al quale, nel dubbio, il contratto deve interpretarsi nel senso in cui possa avere qualche effetto, mentre l’interpretazione fornita dalla Corte d’appello avrebbe «sostanzialmente svuotato e privato di contenuto i plurimi riferimenti alla risoluzione».
Tra l’altro, ex art. 1369 c.c., «il senso più conveniente per l’impresa in ordine a quanto rappresentato era quello di interpretare la volontà della parte nel senso di chiedere la risoluzione + danni da mancato utile, e solo in subordine il recesso (qualora fosse stata ritenuta legittima la variante)».
Il motivo è inammissibile.
4.1. Risulta incontestato tra le parti che alla fattispecie in esame non trovava applicazione l’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994, relativa alle varianti in corso d’opera.
Recita l’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994, nella versione vigente dal 3/6/1995 18/12/1998, che «le varianti in corso d’opera possono essere ammesse, sentiti il progettista ed il direttore dei lavori, esclusivamente qualora ricorra uno dei seguenti motivi: a) per esigenze derivanti da sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari; d) per il manifestarsi di errori o di omissioni del progetto esecutivo che pregiudicano, in tutto o in parte, la realizzazione dell’opera ovvero la sua utilizzazione; in tal caso il responsabile del procedimento né da immediata comunicazione all’osservatorio e al progettista».
Si chiarisce, al comma 4, dell’art. 25, citato, che «ove le varianti di cui al comma 1, lettera d), eccedano il quinto dell’importo originario del contratto, il soggetto aggiudicatore procede alla
risoluzione del contratto e indice una nuova gara alla quale è invitato l’aggiudicatario iniziale».
Al comma 5 dell’art. 25 citato si prevede, infine, che «la risoluzione del contratto, ai sensi del presente articolo, dà luogo al pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali utili e del 10 per cento dei lavori non eseguiti, fino a quattro quinti dell’importo del contratto».
Ciò significa che, ove fosse stato applicabile l’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994, e ove le varianti fossero state illegittime, in quanto vi erano stati «errori o omissioni del progetto esecutivo», si sarebbe verificata una risoluzione contrattuale, ove ritualmente richiesta dall’impresa appaltatrice.
4.2. Tuttavia, la fattispecie in esame risulta governata, come reputato correttamente dalla Corte d’appello, dall’art. 30 del d.P.R. 16/7/1962, n. 1063 (Capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del ministero dei Lavori Pubblici), che disciplina la sospensione dei lavori.
Se la sospensione è legittima, dunque, l’impresa appaltatrice ha diritto al recesso dal contratto, senza che le spetti alcun compenso o indennizzo.
L’art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962 prevede, infatti, che «qualora cause di forza maggiore, condizioni climatologiche o altre simili circostanze speciali impediscano in via temporanea che i lavori procedano utilmente a regola d’arte, l’ingegnere capo, d’ufficio o su segnalazione dell’appaltatore, può ordinare la sospensione dei lavori, disponendone la ripresa quando siano cessate le ragioni che determinarono la sospensione».
Si aggiunge, poi, che «fuori dei casi preveduti nel precedente comma, l’ingegnere capo può, per ragioni di pubblico interesse o necessità, ordinare la sospensione dei lavori per un periodo di tempo
che, in una sola volta, o nel complesso se a più riprese, non superi un quarto della durata complessiva preveduta per l’esecuzione dei lavori stessi, e mai per più di sei mesi complessivi».
Inoltre, si stabilisce che «qualora la sospensione avesse durata più lunga, l’appaltatore può chiedere lo scioglimento del contratto senza indennità; se l’amministrazione si oppone allo scioglimento l’appaltatore ha diritto alla rifusione dei maggiori oneri derivanti dal prolungamento della sospensione oltre i termini suddetti».
Il secondo comma dell’art. 30, citato, dispone, poi, che «per la sospensione disposta nei casi, modi e termini indicati nel primo comma e nella prima parte del secondo comma del presente articolo, non spetta all’appaltatore alcun compenso o indennizzo».
Pertanto, si evidenzia che non è fissato un termine di durata della sospensione legittima, che è condizionata dal perdurare della ragione che la determina.
Solo per la sospensione ordinata «per ragioni di pubblico interesse o necessità» è stabilito che la sospensione per tal titolo non possa superare un quarto della durata complessiva prevista per l’esecuzione dei lavori e mai più di 6 mesi complessivi.
Si è comunque precisato che qualora la sospensione abbia durata maggiore, l’appaltatore può chiedere lo scioglimento del contratto, ma senza indennità e senza l’onere della preventiva formulazione di riserva nel registro di contabilità (Cass., 17 marzo 1982, n. 1728).
Solo nell’ipotesi di sospensione illegittima dei lavori da parte dell’amministrazione committente, protratta oltre i limiti segnati dall’art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962, dopo che siano venute meno le cause di forza maggiori o altre simili circostanze ostative alla loro prosecuzione a regola d’arte, ovvero dopo che siano venute meno le ragioni di pubblico interesse o necessità, deve riconoscersi all’appaltatore, oltre al diritto ad una congrua proroga del termine
per l’ultimazione dell’opera, nonché al rimborso delle maggiori spese, anche il diritto di conseguire la risoluzione del contratto per inadempimento dell’amministratore medesima, senza necessità di preventiva riserva, ed è in applicazione dei principi generali sui contratti sinallagmatici, ove ne ricorrano i relativi requisiti (Cass., sez. 1, 17/3/1982, n. 1728).
Anche in dottrina si è evidenziato che la durata della sospensione, anche se illegittimamente disposta, non deve superare i limiti di tempo quali sono definiti in concreto dal suo scopo e dalle ragioni che l’hanno ispirata.
Laddove la cessazione di queste cause dipende dall’attività che l’amministrazione deve espletare, come nel caso di redazione del progetto di variazioni resesi necessari in corso d’opera ed il cui studio ha determinato la sospensione dei lavori, la stessa deve compiere quest’attività entro un ragionevole margine di tempo, secondo le circostanze del singolo caso.
Nella specie, la Corte d’appello ha reputato, con esame pienamente meritale, l’insussistenza di gravi carenze progettuali e l’assenza di grave inadempimento da parte della stazione appaltante, evidenziando che la sospensione dei lavori era avvenuta per il sopraggiungere di nuove norme, sulla sicurezza e nella disciplina antincendi, ai sensi del d.lgs. n. 626 del 1994 del d.P.R. n. 37 del 1998.
Per la Corte territoriale, dunque, si trattava «in tutta evidenza di situazioni non imputabili alla stazione appaltante in quanto non previste né prevedibili al momento della redazione del progetto posto a base della gara» derivandone «la legittimità della sospensione a mente dell’art. 30 del d.P.R. n. 1063 del 1962, come affermato dal tribunale».
Ha aggiunto il giudice di secondo grado che era infondata la censura del fallimento relativa alla protrazione della sospensione dei lavori per 18 mesi, che avrebbe integrato l’illecito contrattuale, in quanto imputabile alla stazione appaltante, in modo da autorizzare l’appaltatore a chiedere la risoluzione del contratto con gli effetti risarcitori del mancato utile e del pagamento delle riserve.
Infatti, «la situazione creatasi con il prolungamento della sospensione rientra pienamente nelle previsioni di cui al citato art. 30 del d.P.R. 1063, ossia configura il diritto potestativo in capo all’appaltatore – una volta superato il limite di un quarto della durata originaria dell’appalto – di chiedere lo scioglimento del contratto senza indennità».
La sospensione dei lavori è stata, dunque, ritenuta del tutto legittima.
Trova, poi, applicazione ratione temporis l’art. 344 della legge 20/3/1865, n. 2248, in base al quale «occorrendo in corso di esecuzione un aumento od una diminuzione di opere, l’appaltatore è obbligato ad assoggettarvisi fino a concorrenza del quinto del prezzo di appalto alle stesse condizioni del contratto. Al di là di questo limite egli ha diritto alla risoluzione del contratto».
In tal caso, ai sensi del comma 2 dell’art. 344 citato, «sarà all’appaltatore pagato il prezzo dei lavori a termini di contratto».
La nota della società del 22/11/1999 è stata riportata dai ricorrenti per come trascritta nella sentenza di prime cure, in quanto trattavasi di una missiva di «11 pagine» in cui «vi sono una moltitudine di censure rivolte alla stazione appaltante alla Direzione lavori».
Pertanto tale nota era del seguente tenore «dall’esame complessivo di detta perizia redatta dalla DL l’impresa ritiene di non potere dare seguito utilmente all’appalto quantomeno alle condizioni
contrattuali aggiuntive previste nello schema dell’atto di sottomissione ad ogni buon conto la variante predisposta comprende i lavori che pongono in essere un’opera del tutto diversa da quella originaria e supera il 20% dell’importo contrattuale legittimando pertanto l’impresa scrivente a richiedere la risoluzione del contratto con conseguente diritto al pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali utili e del 10% dei lavori non eseguiti fino ai 4/5 dell’importo contratto ai sensi del 5º comma dell’art. 25 legge 109/1994. Sul punto si informa codesta committenza che il comma 5 dell’art. 25 legge 109/94 secondo il quale la risoluzione del contratto dà luogo al pagamento in favore dell’impresa appaltatrice di quanto sopra ricordato regolamenta gli effetti di qualsiasi risoluzione indotta dalle varianti e dunque anche da varianti eventualmente rese necessarie da sopravvenute disposizioni. La scrivente impresa viceversa ritiene le varianti in questione dipendenti esclusivamente da carenza di progetto imputabile alla committenza anche qualora la variante dovesse rientrare nell’ipotesi prevista dall’art. 25 lettera a) pure in tale evenienza in esito al legittimo recesso oggi azionato competerà alla scrivente quanto previsto dal comma 5 a titolo di indennizzo e dunque il pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali utili presenti nel cantiere e del 10% dei lavori non eseguiti fino ai 4/5 dell’importo del contratto».
La Corte d’appello ha proceduto all’interpretazione del contenuto della nota della società del 22/11/1999, qualificata in termini di «recesso» e non di «risoluzione».
A giudizio della Corte d’appello era privo di rilevanza «l’erroneo richiamo» all’art. 25, comma 5, della legge n. 109 del 1994.
Inoltre, era dirimente «il chiaro tenore dei ripetuti riferimenti all’incremento dei costi determinato dalla perizia di variante (che
appare la ragione principale delle lamentele mentre solo incidentalmente si fa riferimento alle carenze progettuali)».
Il focus delle doglianze del fallimento riguardava essenzialmente la ritenuta illegittimità della sospensione dei lavori in virtù della perizia di variante redatta dalla stazione appaltante, in ragione dei mutamenti normativi.
Prosegue la Corte d’appello affermando di «reputare che la volontà dell’impresa fosse quella di conseguire lo scioglimento dal contratto senza versare alcuna indennità ma percependo il pagamento dei lavori eseguiti ed invocando – del tutto erroneamente – il pagamento delle ulteriori indennità risarcitorie, non previste per tali ipotesi, non ricorrendo – per quanto detto sopra – alcun inadempimento imputabile alla stazione appaltante né una sospensione illegittima».
Quanto all’utilizzo del termine risoluzione nella nota del 22/11/1999 da parte dell’impresa, in luogo del termine recesso, che avrebbe dunque significato la volontà della società di chiedere la risoluzione di risarcimento dei danni, la Corte territoriale ha osservato che «lo stesso art. 344 della legge 2248/1865 (certamente applicabile al caso di specie) faculta l’appaltatore a chiedere la risoluzione del contratto (che si risolve, ben vedere, nell’esercizio della facoltà di recedere) nell’ipotesi di incremento dei lavori oltre il quinto del prezzo dell’appalto».
Pertanto, l’argomentazione della Corte d’appello muove dalla piena legittimità della sospensione dei lavori per causa non imputabile alla stazione appaltante, ma derivante dalla necessità di redigere una perizia in variante a causa delle disposizioni normative sopravvenute «in tema di sicurezza sul lavoro e prevenzione incendi, di cui al d.lgs. 626/94 e d.P.R. n. 37/1998 (cfr. verbale di sospensione dei lavori del 14/5/1998, alleg. 40 del fascicolo del originaria attrice)
nonché per conformarsi alle mutate esigenze degli uffici giudiziari in relazione all’istituzione del giudice unico e, in particolare, della procura della Repubblica di Caltagirone».
La Corte d’appello, poi, evidenzia l’insussistenza di gravi inadempimenti da parte della stazione appaltante, e di una condotta invece negligente da parte dell’impresa, per carenza di mezzi e di personale.
Pertanto, i ricorrenti chiedono sostanzialmente una nuova valutazione degli elementi istruttori, e, in particolare, chiedono di sovrapporre una propria personale valutazione all’interpretazione della delibera della società e 22/11/1999, condotta dalla Corte d’appello in modo logico ed analitico, tenendo conto, non solo del contenuto letterale della stessa, ma anche del reale significato dell’intendimento delle parti, soprattutto della società appaltatrice, che ha manifestato la propria intenzione di recedere dal contratto, e non di risolvere lo stesso.
L’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata giudice di merito, sicché il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 e seguenti, non solo deve trascrivere in ricorso, in omaggio al principio di autosufficienza, le clausole negoziali e fare esplicito riferimento alle regole legale interpretazione ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni del giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche o insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., sez 1, 15/11/2017, n. 27136; Cass., sez. 3, 28/11/2017, n. 28319;
Cass., sez. L, n. 17168 del 2012; Cass., sez. 2, n. 13242 del 2010; Cass., sez. 3, n. 13839 del 2004).
8. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione della disciplina di cui all’art. 1469bis seguenti c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente risulterebbe evidente l’errore della Corte d’appello nell’aver reputato che, ai fini della individuazione del consumatore, la qualità del debitore principale «attrae quella del fideiussore».
Al contrario, troverebbe applicazione la giurisprudenza di questa Corte più recente per la quale i requisiti soggettivi di applicabilità della disciplina legislativa del consumatore, in relazione ad un contratto di fideiussione, devono essere «valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale)» (si cita Cass., n. 32225 del 2018).
Inoltre, ad avviso del ricorrente, «in capo agli odierni ricorrenti NOME NOME e NOME la qualifica di ‘consumatore’ va presunta, e non è stata peraltro in alcun modo contestata nel corso dei gradi di merito (né è stata fornita alcuna prova in ordine a una loro diversa qualifica soggettiva)».
Per tale ragione dovrebbe «considerarsi vessatoria l’intera appendice di vincolo, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata».
L’appendice per atto di coobbligazione era stampata su modello predisposto dalla Milano Assicurazioni e mirava «a trasferire integralmente su 2 persone fisiche il carico economico dell’area della fideiussione che – dietro pagamento di un corrispettivo (‘premio’) il professionista rende in favore dell’impresa appaltatrice».
La sentenza sarebbe errata «nella parte in cui non riconosce la natura vessatoria dell’appendice per atto di coobbligazione ed afferma l’obbligo di NOME NOME ed NOME di tenere indenne la società assicuratrice».
Inoltre, l’appendice della polizza non prevedrebbe alcuna obbligazione a carico del predisponente, né la Milano Assicurazioni avrebbe dedotto di aver effettuato una qualsivoglia riduzione del premio per via della presenza dell’appendice di coobbligazione.
Il motivo è inammissibile.
10. Invero, il ricorrente non indica le norme di cui agli artt. 1469bis e ss. c.c. e ora del codice del consumo, di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che sarebbero state asseritamente violate, e neppure riporta, neppure per stralcio, il contenuto della polizza della RAGIONE_SOCIALE cui accede l’appendice per atto di coobbligazione, incorrendo, dunque, nel vizio di difetto di autosufficienza.
Neppure indica le specifiche clausole asseritamente vessatorie tra quelle individuate dall’art. 1469bis , nella versione vigente dal 25/2/1996 al 22/10/2005, data di entrata in vigore del codice del consumo.
Peraltro, ai sensi dell’art. 1469quinquies c.c., «le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 1469bis e 1469ter sono inefficaci mentre il contratto rimane efficace per il resto».
Di qui, la non concludenza dell’affermazione del ricorrente relativa alla nullità dell’intera appendice di coobbligazione.
10.1. Inoltre, i ricorrenti, pur ammantando il motivo di ricorso come vizio di violazione di legge, attraverso l’invocazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in realtà richiedono una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, già compiutamente effettuata dal giudice di merito, non consentita in questa sede.
10.2. Il motivo, peraltro, presenta aspetti di novità, in quanto pur risultando trattati nella motivazione della sentenza della Corte d’appello, non risulta che siano stati dedotti nella comparsa di costituzione e nel corso del giudizio di primo grado.
Tanto più che la nozione di significativo squilibrio contenuta nell’art. 1469bis c.c. (e, successivamente, nell’art. 33 codice del consumo), relativamente alle clausole vessatorie contenute nei contratti tra professionista e consumatore, fa esclusivo riferimento ad uno squilibrio di carattere giuridico e normativo, riguardante la distribuzione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, non consentendo invece di sindacare l’equilibrio economico, ossia la convenienza economica dell’affare concluso (Cass., sez. 6-2, 25/11/2021, n. 36740).
L’onere dell’autosufficienza del motivo di ricorso risulta ancor maggiore, in quanto la Unipolsai, in sede di controricorso, ha espressamente eccepito la novità della censura, rilevando che la stessa «è ben diversa da quella sostenuta nei precedenti gradi di giudizio dai coobbligati quali, come si evince dalla comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, avevano sollevato tra le varie eccezioni quella di invalidità non già dell’intero atto di coobbligazione bensì l’invalidità ed inefficacia delle clausole di rinunce diritti derivanti dagli articoli 1955-1956 e 1953 c.c., riportate in calce al predetto atto di coobbligazione, per vessatorietà delle stesse».
Pertanto, solo in sede di ricorso per cassazione i ricorrenti deducono «l’invalidità e vessatorie età dell’intero negozio giuridico rappresentato dall’appendice di coobbligazione» (cfr. pagina 16 del controricorso di Unipolsai).
10.3. Inoltre, si evidenzia che effettivamente si è assistito ad un mutamento giurisprudenziale radicale in tema di individuazione della nozione di consumatore nell’ipotesi di fideiussione.
In giurisprudenza di legittimità si reputava che, in presenza di un contratto di fideiussione, è all’obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo della qualità di consumatore, ai fini dell’applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore, di cui agli artt. 1469bis e segg. cod. civ., nel testo vigente “ratione temporis”, attesa l’accessorietà dell’obbligazione del fideiussore rispetto all’obbligazione garantita – nella specie, la S.C., nell’enunciare l’anzidetto principio, ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso l’applicabilità della disciplina di cui agli artt. 1469bis e segg. cod. civ. alla fideiussione collegata ad un contratto di “leasing” di un’autovettura stipulato, quale locatrice, da una società per lo svolgimento della sua attività imprenditoriale (Cass., 29/11/2011, n. 25212).
Successivamente, però, la Corte di giustizia, con sentenza del 14/9/2016, n. 534, ha chiarito che il contratto di fideiussione è accessorio a quello principale, ma si presenta, dal punto di vista dei contraenti, come un «contratto distinto» in quanto è stipulato tra soggetti diversi. Pertanto, solo se la persona fisica è amministratore o socio unico di una RAGIONE_SOCIALE o di una s.p.aRAGIONE_SOCIALE non è consumatore.
Questa Corte, a sezioni unite (Cass., Sez.U., 27/2/2023, n. 5838; in precedenza Cass., sez. 6-1, 24/1/2020, n. 1666; Cass., sez. 3, 13/12/2018, n. 32225), ha ritenuto che nel contratto di fideiussione, i requisiti soggettivi per l’applicazione della disciplina consumeristica devono essere valutati con riferimento alle parti di esso, senza considerare il contratto principale, come affermato dalla giurisprudenza unionale (CGUE, 19 novembre 2015, in causa C74/15, Tarcau, e 14 settembre 2016, in causa C-534/15, Dumitras),
dovendo pertanto ritenersi consumatore il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla stessa, nel senso che la prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività, né essere strettamente funzionale al suo svolgimento (cd. atti strumentali in senso proprio).
Si è dunque ritenuta, in sede di regolamento di giurisdizione, la giurisdizione italiana nella causa riguardante un libero professionista che aveva garantito l’adempimento delle obbligazioni di una società commerciale, al medesimo riconducibile sulla scorta di plurimi elementi indiziari, e ha statuito che spetta al giudice di merito stabilire se la prestazione della garanzia rientri nell’attività professionale del garante o se vi siano collegamenti funzionali che lo leghino alla garantita o se abbia agito per scopi di natura privata e che non si può necessariamente considerare il fideiussore alla stregua di un “professionista di riflesso”, rimanendo altrimenti frustrate le finalità della disciplina consumeristica (Cass., Sez.U., n. 5868 del 2023).
Tuttavia, l’affermazione della Corte d’appello risulta corretta anche tenendo conto del nuovo indirizzo giurisprudenziale di legittimità, avendo i signori COGNOME rilasciato le coobbligazioni proprio in quanto erano i due soci risultanti dall’atto pubblico del 17/10/1995 costitutivo della società appaltatrice contraente delle polizze, come evincibile dalla visura societaria della camera di commercio.
Tale circostanza è stata dedotta in modo specifico dalla Unipolsai in sede di controricorso, in quanto il motivo di ricorso risulta del tutto nuovo.
11. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione della disciplina di cui agli articoli 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Ad avviso dei ricorrenti la sentenza della Corte d’appello sarebbe erronea, in quanto stabilisce che essi devono tenere indenne la Milano Assicurazioni S.p.A. «per tutte le somme da questa dovute al Comune in forza della presente sentenza», con la conseguente condanna, nel dispositivo, di NOME COGNOME e NOME COGNOME alla rifusione, in favore della Milano Assicurazioni, delle spese del giudizio di primo e secondo grado.
In tal modo – a giudizio del ricorrente -la compagnia assicuratrice resterebbe del tutto indenne, in quanto le spese finirebbero per gravare sugli Astorina.
Al contrario, vi sarebbe stata «una soccombenza piena della RAGIONE_SOCIALE nei confronti del Comune di Caltagirone».
In realtà, la società assicuratrice avrebbe dovuto «porsi in atteggiamento di neutralità rispetto alla pretesa dell’ente appaltante e dirottarla sui soggetti firmatari dell’appendice contrattuale».
12. Il motivo è infondato.
Infatti, la Corte d’appello ha fatto applicazione piana del principio di soccombenza, in quanto, mentre a posto a carico della RAGIONE_SOCIALE le spese nel rapporto processuale tra essa il Comune di Caltagirone, a posto a carico degli Astorina le spese processuali relative all’appendice di coobbligazione ed alla relativa accoglimento della domanda di regresso.
La Corte d’appello, dunque, non ha fatto altro che applicare in modo corretto la previsione contrattuale in cui risiedeva l’obbligo di rivalsa gravante sul ricorrente.
Tra l’altro, è evidente che le difese spiegate dalla compagnia assicuratrice nei confronti della pretesa avanzata dal Comune in
forza delle polizze, pur giovando all’assicurazione, avrebbero favorito anche i coobbligati. L’eventuale rigetto della domanda del Comune di Caltagirone nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, per inesistenza del debito dell’impresa appaltatrice garantita, avrebbe comportato effetti favorevoli anche nei confronti dei coobbligati, in relazione all’obbligo di rivalsa.
Del resto, il tribunale, in prime cure, aveva reputato inesigibili tutte le polizze fideiussorie erano state emesse in favore del comune.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della Unipolsai Assicurazioni le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore del comune di Caltagirone le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 dicembre 2024
Il Presidente NOME COGNOME