Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10007 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10007 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 30257/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , e COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME con domicilio digitale presso l’indirizzo pec del difensore;
-ricorrenti –
contro
MINISTERO RAGIONE_SOCIALE in persona del Ministro pro tempore , domiciliato, ex lege , presso l’Avvocatura Generale dello Stato, in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza n. 7892/2022 del TRIBUNALE di MILANO, pubblicata il 11/10/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Osserva
Il Giudice di pace di Milano, riuniti più processi, rigettò le opposizioni proposte da RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME avverso diverse ordinanze-ingiunzioni emesse dal Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti -Direzione Generale Territoriale del Nord-Ovest in ordine a violazioni dell’art. 7, co. 1, lett. c), in relazione all’art. 5, co. 1, lett. c), d. lgs. n. 285/2005, addebitandosi ai sanzionati che un autobus di linea della RAGIONE_SOCIALE aveva effettuato fermate in sito non autorizzato (INDIRIZZO Rogoredo in Milano).
Il Tribunale di Milano rigettò l’appello, disattendendo la prospettazione impugnatoria, secondo la quale il Comune di Milano avrebbe, senza far luogo ad alcuna comunicazione formale, modificato l’autorizzazione, sostituendo la fermata di INDIRIZZO con quella di San Donato Milanese; la norma asserita come violata concerneva il percorso e non le fermate; le violazioni non apparivano ‘molto gravi’, anche tenuto conto della buona fede della parte appellante.
RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME ricorrono in cassazione sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti resiste con controricorso.
Con il primo motivo viene denunciata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. e <>.
Si addebita alla decisione d’appello di avere <>.
In sintesi i ricorrenti affermano che il Giudice d’appello ha confermato la sentenza di primo grado omettendo di prendere in effettivo esame <>, di talché il Tribunale avrebbe omesso di dichiarare
la nullità della sentenza di primo grado per difetto di motivazione, d’accertare l’errata sussunzione nella fattispecie sanzionatoria, di tener conto della questione decisiva afferente alla sicurezza delle fermate, di non avere immotivatamente ammesso le prove articolate, di non avere considerato la buona fede della parte ricorrente.
4.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Il Giudice dell’appello ha spiegato che:
-l’art. 7, co. 1, lett. c), d. lgs. n. 285/2005 sanziona la condotta dell’impresa di trasporti che non rispetta le prescrizioni essenziali di cui all’autorizzazione, nonché l’obbligo di cui all’art. 5, co. 1, lett. c), del medesimo corpo normativo, che impone il rispetto delle ‘ prescrizioni relative alla sicurezza del percorso e delle fermate, nonché quelle relative alla circolazione stradale stabilite dalle competenti Autorità ‘;
-l’Amministrazione locale aveva legittimamente inteso evitare <>;
tra le autorità in parola rientrava senza dubbio il Comune, quale ente proprietario della strada;
la COGNOME non constava avesse mai ottenuto <>;
risultava dimostrata la conoscenza da parte di Baltour del mutamento di fermata e ciò faceva escludere sussistenza di buona fede;
non aveva fondamento la prospettazione secondo la quale trattavasi di violazioni non ‘molto gravi’, stante che il Giudice di pace aveva ridotto al minimo edittale la sanzione;
alcun rilievo aveva l’asserto, al fine della configurazione dell’illecito, che in INDIRIZZO non risultassero apposti segnali di divieto di transito per gli autobus;
generiche e indimostrate le affermazioni secondo le quali altri vettori continuassero a effettuare la fermata in INDIRIZZO
Quanto all’asserita mancanza di motivazione non può che ricordarsi come la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977/2019; ma già S.U. n. 22232/2016).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in
cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053 del 7/4/2014; S.U. n. 8054 del 7/4/2014; Sez. 6-2, n. 21257/2014).
Nel caso in esame si è in presenza di un compiuto, intellegibile e pertinente costrutto motivazionale, donde la critica mossa dalla parte ricorrente è del tutto priva di fondamento.
Oltretutto, i n presenza di ‘doppia conforme’, sulla base dell’art. 348 ter, co. 5, cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Sez. 2, n. 5528/2014; conf., ex multis , anche Cass. nn. 19001/2016, 26714/2016), evenienza che nel caso in esame non ricorre affatto.
Peraltro, a volere prescindere da ogni altra considerazione, l’omesso esame non sarebbe stato, in ogni caso, qui supponibile, non vertendosi in ipotesi di mancata considerazione di un fatto storico-documentale, avente carattere di decisività, bensì di rivendicazione di un diverso apprezzamento del complesso delle emergenze di causa (cfr., tra le tante, Cass. n. 18886/2023).
Tantomeno si rinviene l’omessa decisione su uno dei motivi d’appello, avendo il Tribunale di Milano come in precedenza evidenziato – deciso compiutamente su tutti i profili che gli erano stati sottoposti. Né i ricorrenti individuano con la necessaria specificità quali motivi la decisione impugnata avrebbe omesso di prendere in esame, quanto piuttosto si dolgono impropriamente del merito della decisione.
Infine, per larga parte dell’esposizione i ricorrenti sottopongono a critica la sentenza di primo grado, che, com’è ovvio, non è in questa sede censurabile.
Con il secondo motivo viene denunciata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 179 (rectius: art. 7), lett. c), d. lgs. n. 285/2005) in relazione al regolamento comunitario n. 1191/69, alla l. n. 122/2010, all’art. 54 ter e all’art. 3 l. n. 689/1981.
I ricorrenti lamentano <>. Soggiungono che non avrebbe potuto ipotizzarsi alcuna violazione di legge, non riscontrandosi alcuna irregolarità nel servizio; che la norma contestata non poteva trovare applicazione, non trovandosi in presenza di violazione di prescrizioni essenziali relative al percorso e non alle fermate. Ed ancora, il Tribunale non aveva considerato che la fermata Milano Rogoredo in INDIRIZZO era stata autorizzata e che nel 2014, senza comunicazione alcuna era stata modificata dal Comune di Milano. Peraltro, la vecchia fermata aveva continuato a essere utilizzata fino al febbraio 2018 da tutti i vettori. Quest’ultima fermata era da reputarsi sicura e, inoltre, in INDIRIZZO non risultava apposta alcuna segnaletica che vietasse il
transito degli autobus; nessun accertamento era stato effettuato in merito alla sicurezza della nuova fermata. L’infrazione non era ‘molto grave’, come invece risultante dall’ordinanza -ingiunzione. Illegittimamente la Polizia municipale di Milano aveva elevato nove verbali per la medesima infrazione in un arco temporale strettissimo. Il controllo risultava demandato dalla legge alle competenti autorità e <>. Infine, si insiste nel sostenere che la vecchia fermata possedeva i necessari requisiti di sicurezza e risultava espressamente indicata nella originaria autorizzazione e che la stessa continuava a essere utilizzata dagli altri vettori, nonché sull’irrilevanza dell’inserimento della nuova fermata in sostituzione della precedente nel ‘Portale dell’automobilista’.
Dopo la esposizione di critiche meramente fattuali alla scelta del Comune di Milano e all’investimento economico effettuato dalla RAGIONE_SOCIALE in INDIRIZZO ove aveva messo in atto una biglietteria, e sintetizzate le avverse deduzioni davanti al Giudice di pace, i ricorrenti insistono nel perorare la loro buona fede.
5.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Senza necessità di soffermarsi sull’atipica struttura di esso, palesemente estranea al paradigma proprio della doglianza di legittimità, infarcito di apprezzamenti in fatto privi di rilievo in
questa sede, riportante financo critiche alle contrarie deduzioni di primo grado, la critica impinge in plurime convergenti ragioni d’inammissibilità.
Non è controverso che la fermata era stata mutata e le ragioni di ciò, attinenti alle scelte della pubblica amministrazione, restano irrilevanti in questa sede.
La sentenza d’appello ha spiegato correttamente che la circostanza che altri vettori possano avere illegittimamente potuto continuare a utilizzare la fermata soppressa è priva di ogni rilievo.
La conoscenza in capo ai ricorrenti della soppressione della vecchia fermata e istituzione della nuova risulta essere stata accertata aliunde e non già solo dall’inserimento nel ‘Portale dell’automobilista’ (cfr. la sentenza alle pagg. 5 e 6) e una tale ratio non consta essere stata contestata. Ratio che ben sorregge il giudizio negativo sull’asserita buona fede.
Sulla gravità o meno della trasgressione la sentenza d’appello ha spiegato che il Giudice di primo grado aveva ridotto al minimo edittale la sanzione, ragion per cui non è dato cogliere in che consista la doglianza in discorso e, ancor prima, quale sia l’interesse che la supporti .
Quanto all’evocazione di normativa varia, senza alcuna specifica allegazione del come e del perché essa sarebbe stata violata non può che concludersi per l’inconoscibilità e, quindi, inammissibilità, della critica (cfr., S.U. n. 23745/2020).
Infine, destituita di ogni fondamento – e, quindi, va respinta – la pretesa di escludere dall’area della punibilità la condotta addebitata ai ricorrenti.
Dispone l’art. 7 del d.lgs. n. 285/2005, alla lett. c) del suo primo comma: ‘ Le infrazioni relative all’esercizio di un servizio di linea si verificano quando l’impresa:
(…) c) non rispetta le prescrizioni essenziali contenute nell’autorizzazione relative al percorso, alle relazioni di traffico autorizzate e agli autobus impiegati, nonché l’obbligo previsto all’articolo 5, comma 1, lettera c) (…)’.
L’art. 5, co. 1, lett. c), a sua volta, prevede: ‘ L’impresa, per tutto il periodo di validità dell’autorizzazione, deve rispettare:
(…) c) le prescrizioni relative alla sicurezza del percorso e delle fermate, nonché quelle relative alla circolazione stradale stabilite dalle competenti Autorità ‘.
Non può, quindi, sorgere dubbio alcuno sul fatto che il mancato rispetto delle fermate legittimamente stabilite integri l’illecito sanzionato.
Il comma secondo dell’anzidetto art . 7 espressamente prevede che: ‘ Le infrazioni individuate nel comma 1, dalla lettera a) alla lettera e), sono considerate molto gravi. Le imprese che commettono tali infrazioni sono soggette al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 400,00 a euro 1.600,00 ‘.
Il comma undicesimo sempre dell’art. 7 recita: ‘ L’autorità che procede all’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, previste dal presente decreto legislativo, nonché di quelle previste dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, richiamate nel presente articolo, è tenuta a darne notizia, entro trenta giorni dalla definizione della contestazione effettuata, al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti -Dipartimento per i trasporti terrestri – Centro elaborazione dati per l’adozione degli ulteriori provvedimenti di cui all’articolo 8. La contestazione effettuata si intende definita quando ricorrono le ipotesi di cui all’articolo 126-bis, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni ‘.
Non v’è dubbio alcuno, quindi, che il Ministero in parola, soggetto vigilante risulta dotato dei necessari poteri sanzionatori dal d. lgs. n. 285/2005 (si vedano, fra i tanti richiami quelli di cui agli artt. da 3 a 8). Di talché, anche a volere ammettere che la doglianza, con la quale i ricorrenti paiono contestare il potere sanzionatorio del Ministero, sia stata tempestivamente proposta davanti al Giudice dell’appello, essa sarebbe destituita di giuridico fondamento.
6. Il terzo motivo, con il quale viene denunciata violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per non essere stati ammessi taluni mezzi istruttori (vengono ripostati in seno al ricorso determinati capitoli della chiesta prova orale), non supera lo scrutinio d’ammissibilità.
È bastevole riprendere quanto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 20867 del 30/09/2020.
In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora
consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037 -02).
In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. n. 659037 -01).
Peraltro, la ragione per la quale la prova orale non venne ammessa trova piena spiegazione nel complesso della motivazione della sentenza impugnata. I capitoli di prova proposti (e riprodotti in ricorso) risultano tutti diretti a dimostrare fatti irrilevanti in relazione alla ratio decidendi : che la vecchia fermata era stata a suo tempo regolarmente autorizzata; che la stessa era stata utilizzata di fatto, pur dopo, la sua sostituzione; che la vecchia fermata risultava segnalata da cartello apposito; che in INDIRIZZO non sussisteva alcun cartello che vietasse il transito di autobus; che in INDIRIZZO non esistevano stalli predestinati e <>, né biglietteria e che in loco non era possibile locare immobile, al fine di destinarlo a biglietteria; che la vecchia fermata veniva utilizzata da altri vettori.
Rigettato il ricorso nel suo complesso, il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo, in favore del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore del controricorrente, dei compensi del presente giudizio di legittimità, liquidati in euro 1.100,00, oltre al rimborso delle eventuali spese anticipate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio di giorno 30 gennaio 2025.