Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27352 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 27352 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 31178/2021 R.G. proposto da: NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
STAGNO D’ALCONTRES NOME, NOME COGNOME NOME, NOME COGNOME NOME E NOME COGNOME NOME, domiciliati ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME
(CODICE_FISCALE)
-controricorrenti-
nonché contro
NOME COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonché contro
NOME COGNOME,
-intimato- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO MESSINA n. 223/2021 depositata il 13/05/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Nei termini che seguono, l’antefatto processuale. Lesa nella quota di legittima a lei spettante, NOME COGNOME, figlia di NOME COGNOME di COGNOME, deceduto il 24.5.1988, con citazione notificata il 28.6.1994 agiva in riduzione ex art. 553 e ss. c.c. innanzi al Tribunale di Messina. Oggetto, sia le disposizioni testamentarie del padre, che aveva nominato suo unico erede il figlio NOME e disposto legati solo in favore del nipote NOME e
della figlia NOME, sia le donazioni che in vita lo stesso COGNOME aveva effettuato in favore del figlio NOME e del nipote NOME.
In limine , il G.I., ritenendo invalida la notifica dell’atto introduttivo a NOME COGNOME, con ordinanza del 5.2.1996 ne disponeva la rinnovazione. NOME COGNOME dapprima non vi provvedeva, a causa del decesso del proprio difensore; quindi, rimessa in termini dal G.I., effettuava il prescritto adempimento il 4.8.1999. NOME COGNOME inizialmente era dichiarato contumace; di poi, in seguito all’interruzione e alla riassunzione del processo per la morte di un’altra parte, il 7.7.2002 si costituiva in giudizio ed eccepiva l’estinzione del processo stesso per l’omessa notifica della citazione entro l’originario termine concesso con l’ordinanza del 5.2.1996. Con sentenza n. 315 del 23.1.2003 il Tribunale rigettava detta eccezione e, nel merito, accoglieva in parte la domanda.
Impugnata in via principale dai convenuti e in via incidentale dall’attrice, tale pronuncia era annullata con sentenza n. 327 del 29.5.2012 della Corte d’appello di Messina, la quale riteneva, invece, fondata l’eccezione e dichiarava l’estinzione del giudizio.
A seguito di ciò, NOME COGNOME nel 2013 instaurava un nuovo giudizio, avente identico oggetto, nel quale la convenuta NOME COGNOME eccepiva la prescrizione del diritto di lei alla reintegrazione della quota di legittima.
Il Tribunale di Messina rigettava la domanda, ritenendo prescritto il diritto azionato. Analogamente, la Corte d’appello respingeva il gravame proposto da NOME COGNOME, con sentenza n. 223 del 13.5.2021, pronunciata nei confronti delle ridette parti e di NOME, quale erede di NOME COGNOME COGNOME.
La Corte peloritana, in particolare, richiamato il disposto degli artt. 2943, primo comma, e 2945, secondo e terzo comma, c.c.,
osservava che, venuto meno, in esito alla declaratoria di estinzione del processo, l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione, l’atto introduttivo del giudizio conservava solo l’efficacia interruttiva istantanea, sicché dalla relativa data di notifica decorreva un nuovo termine prescrizionale ordinario, ormai spirato alla data in cui era stato notificato l’atto introduttivo del nuovo giudizio.
Rilevava, ancora, che la tesi dell’appellante secondo cui la pronuncia di estinzione del primo giudizio ad opera della Corte d’appello non aveva, per come decisa, privato l’originario atto di citazione dell’effetto sospensivo della prescrizione, vuoi per gli ulteriori atti interruttivi successivamente compiuti, vuoi per l’interposizione della sentenza di merito di primo grado favorevole alla parte attrice -non era condivisibile. Per un verso, tali considerazioni non erano giudicate idonee a superare il chiaro disposto normativo degli articoli innanzi citati; per l’altro verso, quello azionato era un diritto potestativo, la cui prescrizione, a differenza di quanto avviene per i diritti di credito, poteva essere interrotta soltanto mediante la proposizione d’una domanda giudiziale.
Infine, la Corte territoriale riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c., prospettata dall’appellante in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 24 Cost. In ordine a quest’ultimo, il ritardo nello svolgimento delle attività processuali era ascrivibile soltanto alla parte, con riguardo sia ai tempi d’avvio dell’originario giudizio di primo grado, sia a quelli d’instaurazione del nuovo processo, introdotto oltre un anno dopo la pronuncia della sentenza d’appello, dichiarativa dell’estinzione. Quanto, poi, al differente regime giuridico dell’interruzione della prescrizione dei diritti di
credito rispetto a quelli potestativi, la ragione risiedeva nel fatto che mentre per i primi l’obbligazione grava sul debitore già prima dell’avvio dell’azione, non altrettanto può affermarsi per i secondi, in relazione ai quali l’obbligo corrispondente sorge solo per effetto dell’iniziativa giudiziale del titolare del diritto.
Avverso detta sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Vi resistono con rispettivi controricorsi NOME COGNOME COGNOME COGNOME, da un lato, e NOME COGNOME COGNOME e lo stesso NOME, NOME e NOME COGNOME COGNOME COGNOME, dall’altro, quali eredi di NOME COGNOME COGNOME COGNOME.
NOME è rimasto intimato.
Respinta l’istanza del difensore della ricorrente di assegnazione alle Sezioni unite, il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 24.9.2024.
Le parti e il P.G. hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Il primo motivo lamenta la violazione o errata interpretazione dell’art. 2945, secondo e terzo comma, c.c. in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., e prospetta, in subordine, la questione di legittimità costituzionale di tale norma, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost.
Parte ricorrente articola, a sostegno, le seguenti considerazioni:
a ) l’art. 2945 c.c. contrappone il caso in cui il processo si conclude col passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio (secondo comma) a quello in cui il processo si estingue (terzo comma), di regola con un’ordinanza che non dà luogo a giudicato, sicché nel primo, e non anche nel secondo caso, si conserva l’effetto sospensivo della prescrizione; pertanto, allorché il giudice d’appello, andando in contrario avviso rispetto al giudice di
prime cure, dichiara l’estinzione che questi ha negato, emana una sentenza che definisce il giudizio ed annulla la precedente sentenza di merito, la quale, però, corretta o errata che sia, « interpone un diaframma che non consente di far retroagire gli effetti dell’estinzione al momento iniziale del processo in primo grado proprio perché essa non è inesistente o assolutamente nulla: è semplicemente viziata (…). Di conseguenza, la corretta interpretazione dei due commi dell’art. 2945 c.c. comporta che l’estinzione di cui tratta il 3° comma è quella che è dichiarata all’interno del grado di giudizio nel quale si è verificato l’evento estintivo » (così, a pag. 6 del ricorso);
b ) tale lettura dell’art. 2945 c.c. sostiene parte ricorrente -è l’unica possibile in relazione ai principi costituzionali, che vietano che il processo vada incontro a morti ‘misteriose’; si cita, al riguardo, il caso analogo di Corte cost. n. 139 del 1967, la quale stabilì che la mancata riassunzione del processo interrotto non poteva essere imputata alla parte non a conoscenza dell’evento; nel caso di specie, l’odierna ricorrente prosegue il motivo -aveva confidato nel provvedimento di rimessione in termini e nella successiva sentenza di primo grado, che aveva deciso la causa nel merito, per cui la pendenza del processo non era più nella disponibilità della parte, cui -di riflesso -non è ascrivibile una conseguenza che essa non sarebbe stata in grado di evitare;
c ) ancor prima di valutare la corretta portata dei commi secondo e terzo dell’art. 2945 c.c. occorre domandarsi quale sia l’estinzione che determina il venir meno dell’effetto sospensivo (sicché questa Corte suprema dovrebbe rimeditare il proprio orientamento alla luce di un’accresciuta sensibilità di principi e valori costituzionali). Premesso che l’attuale formulazione dell’art. 2945 c.c. ha positivizzato un indirizzo giurisprudenziale mutuato,
vigente il c.c. del 1865, da un’autorevole dottrina, parte ricorrente sostiene che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso si è affermata l’interpretazione che collega il venir meno dell’effetto sospensivo della prescrizione al comportamento dell’attore, il quale non coltivi il processo. In tale nuova prospettiva sono possibili solo due letture dell’art. 2945, terzo comma, c.c., nel senso, cioè, che la perdita dell’effetto sospensivo può essere conseguenza ( i ) d’una volontà di abbandono del processo espressa (art. 306 c.p.c.) o presunta (art. 307 c.p.c.); o ( ii ) d’una sanzione inflitta in base al principio di autoresponsabilità della parte, la quale non curi che il processo si chiuda con una pronuncia merito. Ipotesi, quest’ultima, ammissibile solo a patto di ricollegare tale sanzione al grado di giudizio nel cui ambito si è verificato l’effetto interruttivo, poiché diversamente e come nel caso in esame -si applicherebbe una sanzione alla parte che abbia prestato affidamento sull’ordinanza del giudice che l’abbia rimessa in termini. Ciò in disparte, prosegue il motivo, è dubbia l’esistenza di un automatismo in materia, tale da produrre il venir meno dell’effetto permanente dell’interruzione allorché il processo si estingua per l’una o per l’altra ragione. E, a conforto, richiama la sentenza n. 4630/97 di questa Corte, lì dove si afferma che il secondo ed il terzo comma dell’art. 2945 c.c. presumono l’abbandono del diritto, che a sua volta non può presumersi per tutto il tempo necessario per concludere il processo con sentenza passata in giudicato. Da tanto si ricaverebbe la necessità di differenziare l’ipotesi in cui la volontà di abbandono è espressa da quella in cui questa è soltanto presunta. Da tanto si ricaverebbe la necessità di differenziare l’ipotesi in cui la volontà di abbandono è espressa da quella in cui essa è soltanto presunta. In particolare, attraverso l’art. 184 -bis c.p.c., vigente all’epoca del giudizio presupposto in punto di rimessione in termini della parte incorsa in
decadenza per causa ad essa non imputabile, «( l ) a legge del tempo (…) prevedeva che la pronuncia di estinzione non fosse automatica, ma subordinata, qualora ne fosse stata fatta richiesta, ad una valutazione del giudice, per la quale l’inattività avrebbe comportato l’estinzione salvo che non ci fosse stato un provvedimento di rimessione in termini (che la parte aveva il diritto o la possibilità di richiedere). Nel momento stesso in cui il giudice ha ritenuto possibile la rimessione, ha per ciò stesso escluso la volontà di abbandono o di dismissione del diritto e ha creato i presupposti perché il processo proseguisse per la trattazione e per la decisione del merito con atti processuali validi ed efficaci » (così, a pagg. 9-10 del ricorso). Esclusa, pertanto, la volontà di abbandono, la perdita del beneficio della sospensione si può assumere solo quale sanzione processuale, la quale, tuttavia, deve essere imputabile alla parte; ma tale non è stata nel concreto ritenuta dal giudice di primo grado, cosicché il processo è proseguito complessivamente per altri quindici anni;
d ) in subordine, per l’eventualità che la propugnata interpretazione dell’art. 2945 c.p.c. non sia condivisa dalla Corte, parte ricorrente reitera la questione di illegittimità costituzionale del secondo e del terzo comma di tale norma, in una con l’art. 307 c.p.c., in relazione agli artt. 24 (sul diritto di agire a tutela dei diritti e degli interessi) e 111 (sull’obbligo dei giudici di realizzare il ‘giusto’ processo) Cost., già proposta in appello. A sostegno deduce che dopo il provvedimento di rimessione in termini la situazione processuale venutasi a creare sarebbe stata senza uscita: non sarebbe stata possibile né una rinuncia agli atti, cui anche una sola delle parti avrebbe potuto opporsi, né una riproposizione della medesima domanda, il che l’avrebbe esposta all’eccezione di litispendenza.
1.1. – Il motivo non può essere accolto, per le considerazioni che seguono e che non riguardano il rapporto sostanziale tra la ricorrente e il controricorrente NOME COGNOME di COGNOME. Nei confronti di quest’ultimo va rilevato il giudicato favorevole sulla prescrizione, essendo incontroverso che la successione ereditaria di cui si discute si è aperta il 24.5.1988 e che la citazione introduttiva del giudizio presupposto è stata notificata alla predetta parte solo il 4.8.1999.
1.2. Dispone l’art. 2945, c.c., per la parte che qui interessa: ‘ Per effetto dell’interruzione s’inizia un nuovo periodo di prescrizione ‘ (primo comma). ‘ Se l’interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’art. 2943 c.c., la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio ‘ (secondo comma). ‘ Se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto interruttivo ‘ (terzo comma).
È vero che il secondo e il terzo comma di detto articolo si giustappongono tra loro in un rapporto di regola ad eccezione (su cui v. meglio infra , par. 1.4.3.).
Ed è vero, altresì, che l’espressione ‘sentenza che definisce il giudizio’, contenuta nel secondo comma dell’art. 2945 c.c., deve essere interpretata nel senso che tale effetto si ricollega a qualunque sentenza, che sia di rito o di merito (ma su questione diversa dall’esistenza del diritto in ordine al quale sia stata eccepita la prescrizione: il giudicato di rigetto, infatti, attribuisce all’altra parte l’ exceptio rei iudicatae ; quello di accoglimento, invece, determina il sorgere dell’ actio iudicati , ai sensi dell’art. 2953 c.c.).
Si tratta di una conclusione del tutto pacifica, ormai, sia in dottrina che nella giurisprudenza di questa Corte, la quale afferma
che il principio fissato dall’art. 2945 c.c. secondo il quale l’interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio -trova deroga solo nel caso di estinzione del processo, e pertanto resta applicabile anche nell’ipotesi in cui detta sentenza non decida nel merito, ma definisca eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale; ne consegue che deve riconoscersi alla domanda giudiziale l’effetto interruttivo protratto di cui all’art. 2945, secondo comma, c.c. anche nell’ipotesi in cui il giudizio si concluda con una sentenza che dichiari l’improponibilità della domanda (v. nn. 24808/05, 1608/00, 4630/97 e 1329/91; in senso conforme e di recente, cfr. anche la pronuncia n. 6322/22).
1.3. -Meno condivisibile -come sostiene, invece, parte ricorrente -che l’applicabilità del secondo, piuttosto che del terzo comma dell’art. 2945 c.c., dipenda da una variabile, quale la forma del provvedimento -ordinanza o sentenza -che dichiara l’estinzione del processo, nel senso che la sentenza di estinzione rientrerebbe de plano nel secondo comma dell’articolo citato, mentre solo l’ordinanza di estinzione renderebbe applicabile il terzo comma.
Una siffatta conclusione è esclusa tanto dalla dottrina unanime, quanto dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui per il combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c. l’estinzione del processo (sia dichiarata con ordinanza, sia pronunciata con sentenza) elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione provocato dall’atto introduttivo del giudizio fermo restando l’effetto interruttivo istantaneo della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale come atto di costituzione in mora, con la conseguenza che il rinnovato periodo prescrizionale comincia a decorrere dalla data della notificazione del detto atto introduttivo
(così, la sentenza n. 5707/87; conformi, nn. 21201/17, 8720/10, 10700/98, 11318/96 e 1146/65).
Può chiosarsi che la novella (operata dalla legge n. 581/50) dell’art. 308, cpv. c.p.c. in virtù del quale contro l’ordinanza di estinzione pronunciata dal giudice istruttore è ammesso reclamo al collegio, che decide con sentenza -scaturì dalla necessità di sottoporre ad un più intenso controllo (di tipo, appunto, collegiale) un provvedimento monocratico, denso di effetti potenzialmente pregiudizievoli per la parte attrice, che il testo originario del codice di rito consentiva sì di reclamare, ma allo stesso giudice che l’aveva emesso. Del resto, che tale modifica non abbia minimamente inciso sul terzo comma dell’art. 2945 c.c., la cui portata applicativa permane invariata quale che sia la forma del provvedimento di estinzione, risulta evidente sol che si consideri che, diversamente opinando, la permanenza dell’effetto interruttivo sarebbe rimessa alla mera volontà della parte interessata a conseguirla, la quale, nelle cause soggette a decisione collegiale, null’altro avrebbe da fare se non provocare mediante il reclamo la sentenza del collegio. Non senza dire che, sussunta per coerenza sotto il paradigma del secondo comma dell’art. 2945 c.c. anche l’ordinanza di estinzione emessa dal giudice monocratico, per il suo carattere sostanziale di sentenza (tanto da essere impugnabile con gli ordinari mezzi previsti per quest’ultima: cfr. nn. 18499/21, 23997/19 e 7614/117), la tesi qui non condivisa produrrebbe per singolare eterogenesi dei fini un’ interpretatio abrogans del terzo comma dell’art. 2945 c.c., che non avrebbe più alcuno spazio applicativo.
1.4. La circostanza che, come nella specie, l’estinzione sia stata pronunciata in appello, con annullamento della decisione di merito di primo grado, non muta le conclusioni raggiunte. E ciò per due ragioni.
1.4.1. La prima è che la sentenza d’appello, salvo dichiari inammissibile o improcedibile il gravame, sostituisce o annulla, secondo i casi, quella definitiva di primo grado, facendone venir meno, al netto dell’eventuale giudicato interno, ogni stabilità di effetti. Questa Corte ha già chiarito, invero, che in base all’art. 310, secondo comma, c.p.c. è solo la sentenza non definitiva di primo grado a resistere all’estinzione del giudizio verificatasi successivamente ad essa, di talché il termine di prescrizione rimane interrotto e l’interruzione conserva il proprio effetto permanente dalla proposizione della domanda fino al passaggio in giudicato della sentenza non definitiva (cfr. n. 20308/18; in senso analogo, v. n. 10760/99, secondo cui le sentenze che, ai sensi dell’art. 310 c.p.c., non vengono travolte dalla pronuncia di estinzione del giudizio sono soltanto le sentenze non definitive, oltre che quelle sulla competenza, pronunziate prima che si perfezionasse la fattispecie estintiva; cfr. anche la sentenza n. 2712/98, in base alla quale la disposizione dettata dal secondo comma dell’art. 2945 c.c., inteso a non far correre la prescrizione nel tempo richiesto per la realizzazione del diritto in via giurisdizionale, non può trovare applicazione quando lo stesso creditore, dopo avere proposto in giudizio una determinata domanda, la abbandoni, così impedendo che intervenga, sulla domanda stessa, la sentenza definitiva da cui possa iniziare il nuovo periodo di prescrizione previsto dalla legge, senza che possa rilevare che il giudizio prosegua e giunga a definizione relativamente ad altre e diverse pretese avanzate contestualmente a quella abbandonata; idem , n. 1377/82).
Nella specie, la narrativa del ricorso non riferisce di sentenze non definitive emesse nel primo giudizio.
1.4.2. – La seconda ragione è che, vigente il c.c. del 1865 (il quale stabiliva all’art. 2128 che « Si ha per non interrotta la prescrizione: Se la citazione o intimazione è nulla per incompetenza dell’uffiziale giudiziario che l’ha eseguita, o per difetto di forma; Se l’attore recede dalla domanda; Se la domanda è perenta; Se la domanda è rigettata »), si era posto il problema se l’effetto interruttivo si protraesse fino alla formazione della cosa giudicata o valesse per ogni singolo grado del processo.
Sotto l’influsso di un’autorevole opinione di dottrina, la giurisprudenza di legittimità risolse tale questione, in prevalenza e non senza incertezze, nel senso che durante lo svolgimento del giudizio chiuso poi con sentenza di rigetto ancora impugnabile, il corso della prescrizione rimaneva sospeso, per cui dalla sentenza di rigetto della domanda si iniziava un nuovo periodo non integrale ma complementare, da aggiungersi a quello che ancora mancava al momento della citazione per il compimento della prescrizione incominciata (v. Cass. 6 aprile 1929, n. 1072 e Cass. 19 dicembre 1930, n. 3636). Con l’ulteriore precisazione che il decorso ex novo della prescrizione si doveva ammettere solo in relazione a sentenze che definivano il giudizio col riconoscimento del diritto dedotto, il quale pertanto, essendo mantenuto fermo fino alla pubblicazione della sentenza per l’effetto interruttivo della domanda, continuava ad essere regolato dalla prescrizione inerente al diritto riconosciuto, fino a che, decorso il termine d’impugnativa della sentenza, alla prescrizione del rapporto sostanziale originario si sostituiva quella inerente al giudicato (cfr. Cass. 27 luglio 1937, n. 2805; conforme, Cass. 3 gennaio 1941, s.n.). Si affermò, infine, che « quando intervenga sentenza di assoluzione, di rigetto, rinuncia all’azione e perenzione la legge nega alla citazione originaria l’efficacia di aver interrotto la prescrizione: il tempo prescrizionale già trascorso
riacquista il suo vigore e rimane soltanto l’effetto sospensivo della domanda giudiziale durante il tempo occorso per lo svolgimento della lite » (così, Cass. 29 luglio 1940, n. 2647; nello stesso senso, Cass. 18 agosto 1949, n. 2356 e Cass. 28 febbraio 1951, n. 594, che applicarono le norme del c.c. previgente). Dunque, interrotta la prescrizione dell’azione, l’effetto interruttivo permaneva, finché durava l’attività, ex officio, del giudice, cessava con la pubblicazione della sentenza definitiva di accoglimento di primo grado e si riproduceva allo stesso modo con la proposizione dell’appello e del ricorso per cassazione (v. Cass. 10 febbraio 1942, n. 395).
1.4.3. – Il Codice civile del 1942 da un lato ha fatto tesoro di quest’ultimo indirizzo quanto alla sterilizzazione della prescrizione pendente il processo, e la giurisprudenza di questa Corte ha progressivamente esteso tale effetto neutralizzante a tutti i processi definiti con sentenze assolutorie dalla domanda, anche per sole ragioni di rito; dall’altro, però, il Codice vigente ha deliberatamente innovato rispetto al precedente, come si ricava dal par. 1204 della Relazione del AVV_NOTAIO. Vi si legge che, preso atto dei problemi interpretativi cui aveva dato origine l’art. 2128 del c.c. del 1865, «(i) l terzo comma dell’art. 2945 prevede il caso che il processo si estingua, e anche in questo caso -con notevole divario dal codice del 1865 che negava efficacia interruttiva alla domanda se il processo si fosse estinto per perenzione (…) -conserva efficacia interruttiva all’atto con cui il giudizio è stato iniziato e alla domanda che nel corso del giudizio è stata proposta, arrestando però l’effetto interruttivo alla data dell’atto o della domanda. Non sarebbe stato coerente privare d’efficacia interruttiva la domanda giudiziale per essersi il processo estinto e,
in pari tempo, attribuire efficacia interruttiva ad ogni atto di costituzione in mora non seguito da alcun processo ».
Sin da Cass. 23 luglio 1942, s.n., si è affermato, infatti, che l’art. 2945, 2° comma, del vigente codice civile, per il quale la prescrizione rimane sospesa dalla domanda giudiziale fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, innova al principio sancito dagli art. 2125 e 2128 c.c. del 1865, per il quale il tempo decorso prima della domanda giudiziale si cumula, ai fini della prescrizione, con quello successivo alla pubblicazione della sentenza ancora impugnabile che rigetta la domanda.
Pertanto, risulta implicitamente, ma non per questo meno chiaramente, confermato e valorizzato il nesso che intercede tra interruzione della prescrizione e litispendenza e, di riflesso, confermato che l’effetto interruttivo si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, senza distinguere tra pronuncia in rito e decisione nel merito, con l’unica eccezione, appunto, che il processo si estingua.
Ne è buon testimone il dibattito seguìto, in dottrina, all’entrata in vigore dell’art. 2945 c.c., che si incentrò non già sul tema della possibilità di sussumere anche la pronuncia di estinzione all’interno del secondo comma di detta norma, equiparandola, cioè, alle sentenze che definiscono il giudizio (e ciò non foss’altro che per la circostanza, sopra richiamata, che il Codice di procedura civile nella sua formulazione primigenia non prevedeva un’estinzione dichiarata con sentenza), ma sulla tesi opposta, volta semmai ad attrarre all’interno del terzo comma dell’art. 2945 c.c. le definizioni del processo in rito.
Il superamento di quest’ultima ipotesi è un dato acquisito nella dottrina più recente e nella giurisprudenza costante di questa
Corte, che nelle sue proposizioni fondamentali in materia si può così ricapitolare: ( i ) in base all’art. 2945, terzo comma, c.c., in caso di estinzione del processo, il nuovo periodo di prescrizione relativo al diritto dedotto in causa inizia a decorrere dall’atto introduttivo del giudizio, cioè dalla domanda giudiziale (nn. 21201/17, 8720/10, 11318/96, 5707/87 e 1146/65) e non dagli atti processuali successivi (v. nn. 2417/99, 10480/92, 3035/79, 1323/76, 1736/75, 1051/75), essendo, altresì, irrilevante che la domanda sia stata diligentemente coltivata fino all’estinzione (n. 10700/98); ( ii ) il principio fissato dall’art. 2945 c.c. secondo il quale l’interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio -è applicabile anche nell’ipotesi in cui detta sentenza non decida nel merito ma definisca eventuali questioni processuali di carattere pregiudiziale, ma trova però deroga nel caso di estinzione del processo. Pertanto, in caso mancata tempestiva riassunzione della causa a seguito di declinatoria di competenza territoriale e conseguente estinzione del processo si applica il disposto dell’art. 2945 c.c., terzo comma, in forza del quale rimane fermo l’effetto interruttivo della notificazione dell’atto di citazione, ma il nuovo periodo di prescrizione decorre dalla data dell’atto interruttivo (così, la n. 9337/04; sull’irrilevanza, ai fini della permanenza dell’effetto interruttivo della prescrizione, ex art. 2943, secondo comma, c.c., del tipo di pronuncia definitiva del giudizio, poiché non solo le decisioni nel merito, ma anche quelle su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito sono suscettibili di passare in giudicato in senso formale, cfr. anche le nn. 24808/05, 15075/01, 1608/00, 14243/99, 4630/97, 3666/96 e 1329/91); pertanto, ( iii ) tutte le sentenze definitive, siano esse di merito, di rito o su questioni (pregiudiziali o preliminari) di merito,
una volta passate in giudicato conservano l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione effettuata mediante la domanda giudiziale, salvo le sentenze che dichiarano l’estinzione del giudizio (come invariabilmente ripetono tutte le pronunce da ultimo richiamate: v. anche nn. 22238/07, 8367/96, 7664/95, 5085/87, 7023/83 e 4120/82); e, infine, ( iv ) i singoli atti processuali compiuti nel corso del processo non esplicano alcuna efficacia al fine di interrompere la prescrizione, a meno che essi non presentino i requisiti propri della costituzione in mora (v. nn. 12983/18, 7076/16, 14517/07, 825/06, 11016/03 e 13669/99, tutte germinate da S.U. n. 4108/81; v. anche, in precedenza, la n. 3035/79).
L’inefficienza degli altri atti processuali, che pur dimostrino l’interesse alla decisione, ad interrompere nuovamente ed autonomamente la prescrizione già interrotta dalla domanda giudiziale, trova conferma anche in una recente pronuncia delle S.U. di questa Corte (n. 17619/22), con la quale si è affermato che la pendenza di un giudizio incidentale di costituzionalità non produce alcun effetto interruttivo della prescrizione del diritto dedotto nel giudizio a quo ; pertanto, ove quest’ultimo sia dichiarato estinto o perento, il termine di prescrizione decorre dall’atto introduttivo di tale giudizio, non avendo efficacia interruttiva né la proposizione o la definizione del giudizio incidentale di costituzionalità, attesa la sua autonomia strutturale e funzionale, né l’istanza di fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo, trattandosi di atto endoprocessuale non avente le caratteristiche di messa in mora.
In conclusione, sul punto, l’idea che l’arresto del termine prescrizionale vada apprezzato grado per grado e secondo il contenuto della sentenza, e che, in definitiva, l’estinzione cui ha
riguardo l’art. 2945, terzo comma, c.c. sia solo quella che è dichiarata all’interno della fase di giudizio nel quale si è verificato l’evento estintivo, non è né nuova né compatibile con l’evoluzione consapevole che la disciplina positiva e la giurisprudenza hanno avuto al riguardo.
1.5. – Quanto fin qui considerato sullo stato della dottrina e del diritto vivente in tema di prescrizione estintiva resiste alla possibilità, prospettata da parte ricorrente, che se ne possa operare una rivisitazione critica. Basata, nel caso di specie, sull’affidamento incolpevole della parte odierna ricorrente, generato dapprima dalla rimessione in termini, ex art. 184bis c.p.c. in allora vigente, per rinnovare la notifica della citazione, e poi dal rigetto, in primo grado, dell’eccezione di estinzione del processo.
1.5.1. In senso contrario, infatti, va osservato che l’art. 2945, terzo comma, c.c. non pone una presunzione né assoluta né relativa di abbandono della lite o del diritto fattovi valere. La circostanza che vi si accenni nella motivazione della sentenza n. 4630/97, citata nel motivo, non autorizza a trarre conclusioni impegnative sotto nessun segno, ove si consideri che una cosa è il fondamento ultimo dell’istituto della prescrizione (o meglio, una delle sue consuete ma non esaustive letture), altra è l’esegesi della disposizione in esame, che non ne risulta in alcun modo ipotecata. Ed infatti, se fosse plausibile individuare in tale norma una presunzione assoluta o relativa di abbandono del diritto, la riproposizione della domanda sarebbe preclusa, nel primo caso, ovvero subordinata alla prova contraria, nel secondo; il che ovviamente non è.
1.5.2. Del pari destituita di fondamento è l’ipotesi che il terzo comma dell’art. 2945 c.c. abbia un substrato sanzionatorio, per cui
il giudice dovrebbe escluderne l’applicabilità nel caso di estinzione incolpevole del giudizio.
Una cosa, infatti, è la sanctio legis posta a presidio di un onere, altra è la sanzione per una condotta vietata e, dunque, illecita, che non ha nulla a che vedere con le vicende interruttivo-estintive. Pertanto, è sufficiente osservare che il titolare, come è libero di esercitare o meno il suo diritto, così può anche legittimamente scegliere di far estinguere il processo incoato per accertarlo. Allo stesso modo, l’incolpevole decadenza da un potere processuale è motivo di rimessione in termini, non di elisione della disciplina altrimenti applicabile. Poiché tutto ciò non pare revocabile in dubbio, ed atteso che le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa (art. 177, primo comma, c.p.c.), né a maggior ragione produrre ex se affidamento (su cui v. meglio infra , i par. da 1.6. a 1.6.2.), la rimessione in termini esaurisce i suoi effetti all’interno del corretto esercizio dei poteri ordinatori del giudice, senza proiettarsi oltre.
Ne resta immune l’interpretazione delle norme che regolano l’interruzione permanente della prescrizione, la quale, come s’è detto innanzi (v. par. 1.4.3.), dipende dalla litispendenza, per cui ove questa venga meno ne cade la giustificazione logico-giuridica.
1.6. L’affidamento sull’esattezza dei provvedimenti del giudice di primo grado introduce una questione ulteriore che, in realtà, costituisce il nucleo del motivo.
Benché non evocato in maniera espressa, è il principio di apparenza e la sua possibile estensione ciò su cui mostra di convergere il senso ultimo delle argomentazioni di parte ricorrente.
Elaborato nella materia delle impugnazioni, detto principio assolve la funzione di evitare che il rischio dell’errore compiuto dal
giudice a quo nel qualificare la domanda ricada sulla parte impugnante, su cui grava l’onere di esperire il mezzo corretto.
Cambiando ciò che v’è da cambiare, nella fattispecie l’interrogativo è se la pronuncia di primo grado possa generare nella parte interessata analogo affidamento e riparo dagli effetti di cui al terzo comma dell’art. 2945 c.c., ove all’esito delle fasi ulteriori passi in giudicato quell’estinzione del processo che il primo giudice aveva, invece, escluso. Impossibili -si sostiene -i rimedi preventivi della rinuncia agli atti o della riproposizione della medesima domanda, la parte si vedrebbe costretta a percorrere l’intero iter processuale, assumendo l’alea che la declaratoria di estinzione del giudizio intervenga a prescrizione ormai maturata.
1.6.1. – La risposta a tale quesito non può che essere negativa.
In un caso speculare a quello in oggetto questa Corte ha affermato che le sentenze le quali, ai sensi dell’art. 310 c.p.c., non vengono travolte dalla pronuncia di estinzione del giudizio sono soltanto le sentenze non definitive (oltre che quelle sulla competenza) pronunziate prima che si perfezionasse la fattispecie estintiva. Tra queste non rientra pertanto la sentenza di appello, successivamente cassata, con la quale sia stata riformata la sentenza di estinzione pronunciata in primo grado. Ne consegue che qualora l’estinzione del processo sia affermata in primo grado, negata in grado di appello, e confermata nel giudizio di cassazione, la sentenza di appello non ha alcuna efficacia interruttiva della prescrizione, la quale ricomincia a decorrere dalla data della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 2945, comma terzo, c.c. (n. 10760/99; in senso conforme, v. n. 7040/86).
Detto precedente, sebbene incentrato su altro (l’inidoneità della sentenza definitiva d’appello a resistere all’estinzione), mostra di
non supporre neppure la possibilità che, in punto di prescrizione del diritto, il provvedimento cassato possa conservare effetti residui.
Ciò a parte, sono proprio le argomentazioni di sostegno dedotte nel motivo a disvelarne l’infondatezza.
Contrariamente a quanto vi si assume, il rischio che, protraendosi il processo nel tempo e nei vari gradi, l’eccezione di estinzione per un evento precedentemente verificatosi sia accolta e l’estinzione del processo passi in giudicato quando il termine di prescrizione del diritto è ormai scaduto (così da vanificare il pur prodottosi effetto interruttivo istantaneo derivante dalla notifica della domanda giudiziale), è agevolmente prevenibile mediante la rinuncia agli atti del giudizio, ai sensi dell’art. 306 c.p.c.
Ad essa non è d’ostacolo l’atteggiamento difensivo dell’altra parte. Infatti, la giurisprudenza costante di questa Corte afferma che l’accettazione della parte costituita è richiesta solo se questa abbia un interesse alla prosecuzione del processo, che a sua volta consiste nella possibilità di conseguire un’utilità maggiore di quella che le deriverebbe dall’estinzione (v. nn. 23620/17, 9066/02, 8387/99, 1168/95 e 4917/79). In difetto d’un tale interesse, il giudice dichiara l’estinzione anche se la parte convenuta vi si opponga.
Detto altrimenti, l’accettazione è richiesta dall’art. 306, primo comma, c.p.c. in quanto il convenuto ha il potere, derivante dal principio di bilateralità dell’azione, di provocare l’accertamento negativo del diritto fatto valere dall’attore (similmente a quanto avviene nelle ipotesi omologhe, previste dagli artt. 181, secondo e terzo comma, e 290 c.p.c.), ovvero di ottenere una pronuncia sull’eventuale domanda riconvenzionale che abbia proposto. È necessario, pertanto, che egli si sia difeso e intenda continuare a
difendersi nel merito, e non su questioni di rito (salvo esse stesse siano suscettive d’un giudicato spendibile in altro giudizio).
Ne deriva che ove la rinuncia agli atti segua all’insorgere della questione di estinzione del processo, il convenuto non ha un interesse tutelabile a che un tale esito sia dichiarato ai sensi dell’art. 307 piuttosto che in virtù dell’art. 306 c.p.c. Nell’un caso come nell’altro, infatti, l’estinzione conduce alla medesima e invariabile conseguenza di eliminare l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione previsto dall’art. 2945, secondo comma, c.c., senza incidere sull’effetto interruttivo istantaneo, che rimane fermo alla data della domanda, come previsto dal terzo comma del medesimo articolo.
Spetta alla parte attrice, dunque, sciogliere l’alternativa valutandone costi e benefici: coltivare fino alla decisione di merito il giudizio di cui la parte avversa o il giudice abbiano, rispettivamente, eccepito o rilevato d’ufficio (ex art. 307, ultimo comma, c.p.c. nuovo testo) l’estinzione, rischiando che l’eventuale declaratoria passi in giudicato a prescrizione ormai maturata; ovvero rinunciare agli atti e riproporre la domanda entro la scadenza del termine di prescrizione, iniziato nuovamente a decorrere dall’atto introduttivo del primo giudizio.
Tale alternativa deriva dal sistema processuale e, di riflesso, opera indipendentemente dalla consapevolezza che la parte ne abbia. Resta escluso in radice, pertanto, che si possa lamentare come inattesa tanto l’estinzione del giudizio quanto l’eventuale prescrizione del diritto in esso fatto valere. Né il rischio connesso a tale scelta della parte converte, per l’incidenza che assume a livello di diritto sostanziale, quello che è un onere processuale in una sorta di obbligo per evitare di beneficiare la controparte (come argomenta la ricorrente nella propria memoria). Finché è possibile
ponderare i pro e i contro di un’opzione puramente strategica, non v’è a livello logico -giuridico alcun agere necesse , una cosa essendo l’agire necessitato, altra l’agire necessario.
Nella specie, la parte odierna ricorrente mostra di aver optato in allora per la prima delle suddette possibilità, per cui non le è consentito dolersene ora.
1.6.2. Anche l’affermazione di parte ricorrente secondo cui non sarebbe stato possibile evitare la prescrizione mediante la tempestiva riproposizione della medesima domanda, perché ciò avrebbe esposto la parte attrice all’eccezione di litispendenza, non appare condivisibile.
Infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte gli istituti della litispendenza e della continenza, operando soltanto tra cause pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, non sono applicabili se le cause identiche o connesse pendano dinanzi al medesimo ufficio giudiziario, anche se in gradi diversi, di talché, non essendo l’omessa riunione motivo di invalidità, sarà opponibile il giudicato prima intervenuto, ovvero, qualora non dedotto o rilevato, opererà la regola della prevalenza del successivo, salvo l’utilizzo dell’art. 337, comma 2, c.p.c. (così e per tutte, la recente ordinanza n. 10183/23). Non solo, ma sempre secondo i precedenti di questa Corte, deve escludersi che, in applicazione di un parallelismo con l’istituto della litispendenza, la regola disciplinatrice del quale è nel senso che il processo iniziato per secondo deve essere definito in rito e non deve essere trattato, nell’ipotesi in cui abbiano luogo avanti allo stesso giudice due procedimenti identici, il giudice debba trattare il processo considerando soltanto il primo giudizio, di modo che se esso presenta un problema in rito che impedisce la trattazione del merito, quest’ultima resti preclusa anche sul secondo. Infatti, ciò,
oltre ad essere in contrasto con la stessa previsione della riunione obbligatoria dei procedimenti identici pendenti avanti al medesimo giudice, sarebbe anche in manifesto contrasto con quanto accade allorquando un giudizio venga definito con pronuncia di rito e venga successivamente proposto un nuovo identico giudizio, la cui proposizione non è impedita dalla pronuncia in rito sul primo giudizio. Il parallelismo con l’istituto della litispendenza può soltanto suggerire che, in relazione a riti processuali imperniati sulle preclusioni, la verificazione di una preclusione (di rito o di merito) nel primo processo determini l’effetto di impedire che nel secondo processo la preclusione possa essere superata (così, n. 5894/06; conformi, le successive nn. 567/15, 24529/18 e 20248/23).
Nel caso di specie, non si erano verificate nel giudizio presupposto preclusioni di rito o di merito aventi carattere impediente, tali cioè da qualificare come elusiva la riproposizione della domanda, ma solo una causa estintiva del processo.
– Col secondo mezzo è denunciata la violazione degli artt. 2934 e 2943 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., e sempre in subordine è reiterata la questione d’illegittimità costituzionale di dette norme, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., ove interpretate come applicabili anche ai diritti potestativi.
Sostiene detta parte che la necessità di proporre la domanda giudiziale per interrompere la prescrizione dei diritti potestativi, assimilati ai (pur imprescrittibili, ma usucapibili) diritti reali, debba essere (ri)considerata da questa Corte. In difetto di disposizioni espresse, sarebbe maggiormente plausibile la loro assimilazione ai diritti di credito (la cui prescrizione è interrotta dalla costituzione in mora: art. 1219 c.c.) piuttosto che ai diritti reali, atteso che, a differenza di questi ultimi, i diritti di credito e quelli potestativi sono
inseriti in un rapporto preesistente, che la sentenza del giudice non costituisce ma accerta. Non vi sarebbe ragione, pertanto, per non ammettere che la costituzione in mora possa valere ad interrompere la prescrizione anche dei diritti potestativi, che al pari di quelli di credito sono soggetti a prescrizione. Nella specie, atteso che l’esito estintivo del processo non può per ciò solo travolgere tutti gli atti compiuti dalle parti, sarebbero comunque isolabili nel giudizio presupposto almeno tre atti che, esprimendo l’inequivoca volontà di far valere il diritto azionato, varrebbero ad interrompere la prescrizione e si estenderebbero, arg. ex art. 1308 c.c., a tutti i litisconsorti necessari (l’atto originario di citazione del 27.7.1994, quello di integrazione del contraddittorio notificato il 4.8.1999 a NOME COGNOME di COGNOME e la comparsa di costituzione in appello nel 2004, con la quale l’odierna ricorrente chiese il rigetto dell’impugnazione).
2.1. – Il motivo è infondato.
Gli argomenti ivi svolti non paiono sufficienti a giustificare una revisione dell’indirizzo di questa Corte, la quale ha già avuto modo di affermare che l’azione di riduzione del legittimario è di natura personale (in quanto diretta a rivendicare non lo specifico bene posseduto dal beneficiario dell’atto di liberalità, bensì a far valere sul valore di detto bene le proprie ragioni successorie dopo l’accertamento della sua qualità), ma non obbligatoria (in quanto non diretta ad ottenere l’adempimento di un’obbligazione a cui sia connaturale l’istituto della messa in mora). Ne consegue che alla prescrizione dell’azione che tutela il diritto del legittimario non è applicabile l’art. 2943, ultimo comma, c.c., che è idoneo ad interrompere la prescrizione solo di diritti obbligatori (n. 7259/96, confermata poi dalla n. 11809/97).
Tale orientamento s’inserisce nel più ampio contesto teorico secondo cui gli atti interruttivi della prescrizione riconducibili alla previsione dell’art. 2943, comma 4, c.c., consistono in atti recettizi, con i quali il titolare del diritto manifesta al soggetto passivo la sua volontà non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto stesso. Essi, pertanto, possono produrre tale effetto limitatamente ai diritti ai quali corrisponde nel soggetto passivo un obbligo di prestazione e non anche per i diritti potestativi, ai quali fa riscontro una situazione di mera soggezione, e la cui vitalità non può essere attestata mediante una dichiarazione stragiudiziale, di per sé improduttiva di effetti (cfr. nn. 1159/18, 25861/10 e 25468/10; analogamente, n. 6974/17 in materia di rescissione; n. 26543/22 in tema d’azione revocatoria ordinaria; n. 8417/16 sulla prescrizione dell’azione volta alla risoluzione di un contratto preliminare avente ad oggetto la promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo; nn. 121/16, 11020/00 e n. 1965/92, applicative del medesimo principio all’azione di annullamento per incapacità naturale, ai sensi dell’art. 428 c.c.; n. 6099/93 in ordine al diritto di accettare l’eredità; n. 575/85, in tema di diritto alla retrocessione di bene espropriato; n. 402/84, sempre con riguardo all’azione revocatoria ordinaria).
E anche quando, in ambito contrattuale e nella specie della vendita, si è posta una problematica consimile e si è registrato un contrasto di giurisprudenza in ordine alla prescrizione delle azioni edilizie (art. 1495, ultimo comma, c.c.), la relativa composizione, avvenuta a favore della possibilità d’interromperne il termine mediante un atto stragiudiziale, ha percorso tutt’altra strada. Ed invero, è stato affermato che « in effetti, non si verte propriamente nell’ipotesi di esercitare un singolo specifico potere ma di far valere il ‘diritto alla garanzia’ derivante dal contratto, rispetto al quale,
perciò, non si frappongono ostacoli decisivi che impediscono l’applicabilità della disciplina generale della prescrizione (e che, invece, in un’ottica sistematica, appare con esso compatibile), ivi compresa quella in materia di interruzione e sospensione » (così, in motivazione, S.U. n. 18672/19).
Così come, in altro e ancor più diverso contesto, il Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria (sentenza n. 24/20), nell’affermare che il termine decennale previsto dall’art. 114, primo comma, del c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato, non ha motivato sulla natura potestativa o meno del diritto derivante dall’ actio iudicati , ma ha argomentato la soluzione con riguardo al principio di buon andamento dell’azione amministrativa e ai contatti, di per sé consentiti dal sistema e, in particolare, dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990, tra l’Amministrazione e il privato a favore del quale si è formato il giudicato. Il massimo consesso della giurisdizione amministrativa ha ritenuto, così, « del tutto fisiologico che nel corso del tempo il vincitore del giudizio di cognizione solleciti l’Amministrazione ad eseguire il giudicato, prospettando se del caso soluzioni che possano essere concordate, prima di proporre il giudizio d’ottemperanza (anche in un’ottica deflattiva del contenzioso) ».
Detti precedenti non appaiono, pertanto, idonei a incrinare l’orientamento innanzi richiamato di questa Corte. A differenza della fattispecie (e in disparte, in ordine al citato precedente del C.d.S., la ricaduta sul tema della prescrizione di cui all’art. 2953 c.c.), nell’un caso come nell’altro assume rilievo immediato un rapporto obbligatorio, che o preesiste alla lite ( id est la vendita e le connesse azioni di garanzia) o deriva dal giudicato (come
nell’ipotesi dell’obbligo d’ottemperanza previsto dall’art. 112 c.p.a.).
2.2. – Ciò premesso, e passando alle argomentazioni svolte nel motivo, è dubbio, in primo luogo, che i diritti di credito e i diritti potestativi abbiano base comune in un rapporto giuridico ‘preesistente’. O meglio, è dubbio, per l’intrinseca equivocità dell’affermazione, che basti registrare la generica preesistenza, in entrambi i casi, di situazioni giuridiche esprimibili attraverso coppie relazionali (credito/debito, potestà/soggezione), per equiparare l’una situazione all’altra ed innestarvi la catena sillogistica che parte ricorrente propone.
In disparte che non manca in dottrina chi ravvisa il rapporto giuridico anche nella relazione che intercede tra il diritto assoluto (imprescrittibile, ma usucapibile) e il generale dovere di astensione dei consociati -il che stempera ulteriormente la valenza del richiamo, fino a deprivarlo d’ogni significanza , il punto è un altro.
Nell’ambito dei diritti di credito, il rapporto (obbligatorio) preesiste di necessità agli atti che ne costituiscono l’esercizio. Un credito si può esercitare o meno, ma è certo che il rapporto obbligatorio sorge con esso e diviene immediatamente vitale. Infatti, il debitore può: adempiere anche se non richiestone; costituire in mora il creditore (artt. 1206 e ss. c.c.); ottenere la propria liberazione contro la volontà del creditore (art. 1210 c.c.); e, infine, agire per l’accertamento negativo dell’esistenza stessa del credito. Speculare e di maggior contenuto la posizione del creditore, che del pari può agire per il mero accertamento positivo del suo diritto, purché la lesione insita nello stato d’incertezza non abbia natura puramente eventuale e si ricolleghi ad una posizione giuridica già sorta in capo all’interessato (giurisprudenza pacifica di questa Corte: cfr. ex multis nn. 10441/04, 8210/99 e 2622/95; ciò
in quanto anche la tutela meramente dichiarativa deve esitare nell’affermazione o nella negazione di un diritto, non di un fatto, ancorché questo, in una con altri fatti storici o normativi, possa dar luogo ad effetti favorevoli all’attore: v. nn. 10039/02, 3905/03 e 17788/03).
Non altrettanto può predicarsi per i diritti potestativi, rispetto al cui esercizio è preesistente solo il potere e la relativa soggezione. Che la correlazione tra l’uno e l’altra dia luogo anch’essa ad un rapporto giuridico è, dunque, affermazione che può concedersi più o meno esatta a misura dell’accezione lata o ristretta che di tale concetto si intenda accogliere. Ma questa pur generica correlazione non vale ad accorciare la distanza tra il diritto di credito e il diritto potestativo, poiché una cosa è un rapporto giuridico in senso lato, altra è il rapporto giuridico obbligatorio, che ha un creditore e un debitore e risponde alla logica dell’ agere necesse . Per contro, come del resto ammette la stessa parte ricorrente (v. pagg. 11-12 memoria ex art. 378 c.p.c.), di fronte a un diritto potestativo la parte assoggettatavi può non contestarlo solo ponendo in essere un’attività prettamente negoziale e in accordo con il titolare del potere.
Pertanto, attribuita natura potestativa (in un’accezione ovviamente ampia del termine) al diritto del legittimario alla reintegrazione della sua quota di legittima mediante un’apposita azione costitutiva (su tale natura cfr. l’ordinanza n. 4709/20), va osservato che il solo potere d’agire in giudizio non determina, finché non è esercitato, alcuna modifica dell’assetto di interessi tra il titolare e chi ne subisce l’attività. Ove esercitato, esso non fa sorgere in via immediata alcuna obbligazione e, di riflesso, è incompatibile con la nozione di mora debendi o credendi e con la relativa costituzione.
In secondo luogo, e anche senza procedere per qualificazioni, va osservato che la tecnica di produzione degli effetti giuridici è appannaggio esclusivo del legislatore, il quale la maneggia attraverso varie opzioni possibili, collegando l’effetto ora ad un fatto, ora ad un atto volontario, ora alla domanda giudiziale seguita da una pronuncia costitutiva del giudice. A tale discrezionalità, che solo la lettera del dato normativo è idonea a palesare, l’interprete non può sostituirsi né sovrapporsi. E poiché, nello specifico, la riduzione è ‘domandata’ (dai legittimari, loro eredi o aventi causa: art. 557, primo comma, c.c.) e non già realizzata con dichiarazione unilaterale di volontà, la soluzione è a rima obbligata ed esclude la possibilità di equiparare il diritto alla riduzione ad un diritto di credito.
In terzo luogo, infine, costituzione in mora e domanda giudiziale non possono porsi sullo stesso piano, poiché l’effetto interruttivo nel primo caso è istantaneo mentre nel secondo è permanente. Quest’ultima ipotesi non è per nulla assimilabile alle fattispecie di sospensione previste dagli artt. 2941-2942 c.c., ma forma un tutt’uno inscindibile con la proposizione della domanda. La prescrizione non corre finché pende il processo, ma riprende soltanto dopo la sentenza che lo definisce (art. 2945, secondo comma, c.c., conclusione, questa, che pure era apparsa chiara allorché, in passato, si trattava di interpretare il corrispondente e non altrettanto perspicuo art. 2128 c.c. del 1865). Se ne ricava che non è la domanda in sé, ma è la litispendenza ad arrestare la prescrizione, in base al principio che la durata del processo non può mai risolversi a danno della parte che ha ragione.
Dunque, e concludendo al riguardo, deve affermarsi che l’impossibilità d’interrompere mediante un atto stragiudiziale la prescrizione del diritto disciplinato dagli artt. 553 e ss. c.c. deriva
tanto dall’inesistenza d’un rapporto obbligatorio sottostante, quanto dalla scelta legislativa di far dipendere tale diritto dall’esercizio di un’apposita azione costitutiva, quanto, ancora, dalla non assimilabilità strutturale e funzionale tra la costituzione in mora e la proposizione della domanda giudiziale.
2.3. -Nella propria memoria parte ricorrente sviluppa, all’interno della medesima censura, un’ulteriore considerazione, in base alla quale la ‘domanda’ d’appello (nella specie, incidentale nell’ambito del giudizio presupposto) rientrerebbe nella previsione del secondo comma dell’art. 2943 c.c., che assegna pari idoneità interruttiva della prescrizione alla domanda proposta nel corso di un giudizio.
2.3.1. – Anche tale assunto non può essere condiviso.
Ne esclude la fondatezza una pronuncia di questa Corte resa a S.U. (n. 4108/81, ripresa poi, limitatamente all’ipotesi di notificazione della sentenza di primo grado, dalla n. 12983/18).
Nella parte motiva vi si afferma (in maniera del tutto convincente) che « una corretta interpretazione dell’art. 2943, comma 2, vuole che per tale (cioè, domanda proposta nel corso di un giudizio: n.d.r.) si intenda pur sempre un atto contenente una domanda giudiziale, cioè l’intento di far valere un diritto in giudizio anche se non si tratti di atto introduttivo del giudizio, in quanto trova questo, già instaurato, quali le domande riconvenzionali, gli atti di intervento o di chiamata in causa o in garanzia, la domanda di ammissione al passivo fallimentare, la costituzione di parte civile. Deve, insomma, trattasi di domanda che, innestandosi in un processo già pendente, sia grado di produrre la pendenza di una nuova e ulteriore lite in ordine al diritto con essa fatto valere; e ciò in quanto il richiamo dell’art. 2945, comma 2, comporta che (la: n.d.r.) non decorrenza della prescrizione, da quest’ultima norma
prevista, dipenda da una situazione di litispendenza (…). Tale collegamento, chiaramente postulato dal vigente codice, della interruzione e sospensione della prescrizione con la litispendenza come situazione che perdura fino al passaggio in giudicato della sentenza, elimina una serie di problemi verificatesi sotto il vigore del vecchio codice, a seguito dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’interruzione durava per il singolo grado di giudizio, cosicché, se era il convenuto soccombente a proporre appello, riusciva ben difficile spiegare come la prescrizione rimanesse nuovamente interrotta da un atto non proveniente dal titolare del diritto. Viceversa, quello di gravame è un atto di mero impulso processuale, che vale soltanto a far progredire in una ulteriore fase un processo già pendente, e d’altra parte il riferire ad esso l’effetto interruttivo della prescrizione ricollegato alla ‘domanda proposta nel corso del giudizio’ in presenza della già avvenuta interruzione operata dall’atto introduttivo, significherebbe attribuire ad esso un nuovo effetto già ricollegantesi al primo. Trattasi, in altre parole, della stessa, iniziale, domanda, nella quale si insiste, non di ‘altra’ domanda, come invece vuole l’art. 2943, comma 2, cosicché non si può attribuire un nuovo e autonomo effetto ad un atto di per sé meramente reiterativo del primo, che non fa valere alcuna pretesa, e non può perciò inquadrarsi nella categoria degli atti indicati dai commi 1 e 2, caratterizzati, sia gli uni che gli altri dal fatto di essere introduttivi di una domanda giudiziale ».
(Detta sentenza prosegue, subito dopo, col precisare che, non di meno, l’appello può costituire atto interruttivo della prescrizione a norma non del secondo, bensì dell’ultimo comma dell’art. 2943 c.c., ove abbia i requisiti di un atto di costituzione in mora, cioè di un’intimazione rivolta per iscritto al debitore. Ma ciò non rileva, nel caso in esame -a differenza della fattispecie oggetto della appena
citata pronuncia delle S.U., riguardante un credito da lavoro -, poiché s’è già escluso, per le ragioni innanzi svolte, che l’interruzione della prescrizione di un diritto potestativo possa avvenire mediante un atto di costituzione in mora. Con il che resta esclusa, altresì, la rilevanza del richiamo, operato nella memoria di parte ricorrente, alle sentenze nn. 14148/20 e 696/02, entrambe aventi ad oggetto un diritto di credito).
La diversità di disciplina tra l’una e l’altra categoria di diritti non comporta -e si passa, così, ad esaminare la questione di legittimità costituzionale, trasversale ad entrambi i motivi di ricorso -un’irragionevole disparità di trattamento o un vulnus al principio della difesa e del giusto processo, in violazione, rispettivamente, degli artt. 3, 24 e 111 Cost.
In primo luogo, la questione appare di dubbia rilevanza nella fattispecie, ove si consideri che, come premesso in parte narrativa (e come si ricava da pag. 4 del ricorso), l’estinzione del processo presupposto fu eccepita il 7.7.2002, allorché NOME COGNOME si costituì in giudizio. Se ne deduce che in allora era ancora ben possibile rinunciare agli atti del giudizio e/o instaurare una nuova causa avente identico contenuto, così da interrompere nuovamente la prescrizione che, prendendo data dal 28.6.1994, giorno della notifica della citazione introduttiva di quel primo giudizio, non si era ancora verificata.
3.1. – Ma la prospettata questione di legittimità costituzionale è anche manifestamente infondata.
La giurisprudenza costituzionale ha chiarito che « la garanzia costituzionale della difesa opera attribuendo la piena tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini e nelle configurazioni che a queste derivano dalle norme del diritto sostanziale; quella garanzia trova quindi confini nel contenuto del
diritto al quale è strumentale e si modella sui concreti lineamenti che questo riceve dall’ordinamento (…) Se è vero infatti che alla estinzione del diritto consegue normalmente l’impossibilita di farlo valere, tanto in via di azione che in via di eccezione, ciò si verifica perché la prescrizione opera sul terreno sostanziale del diritto, non su quello della sua protezione processuale (…). In ogni caso (…) allorquando sia fissato un termine per il compimento di un atto, la cui omissione importi un pregiudizio per una situazione soggettiva giuridicamente tutelata, nella garanzia di cui all’art. 24 della Costituzione è ricompresa la conoscibilità del momento iniziale di decorrenza del termine stesso (cfr. sentt. n. 159 del 1971; n. 255 del 1974; n. 14 del 1977) » (così, in motivazione, Corte cost. n. 732/88, ripresa, poi, dalla sentenza n. 5694/99).
3.2. – Anche questa Corte ha già avuto modo di affermare che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2945 c.c. sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., con riguardo alla distinta disciplina prevista rispettivamente nei commi secondo e terzo sul presupposto che il legislatore, nel confezionare il terzo comma (secondo cui ‘se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia a decorrere dalla data dell’atto interruttivo’), si sarebbe espresso in termini retroattivi, allorché ha ritenuto, dichiarando inefficace l’attività giurisdizionale svolta nel processo, di considerare solamente il periodo interruttivo dalla data della notifica dell’atto introduttivo del giudizio, ponendo, così, immotivatamente, nel nulla assoluto l’attività giudiziale compiuta, spesso assai lunga, e conferendo quindi effetto interruttivo unicamente al citato atto introduttivo. Infatti, non sussiste alcuna violazione del precetto dell’art. 3 Cost. atteso che la situazione è totalmente diversa a seconda che il giudizio si sia concluso con una
pronunzia passata in giudicato e, quindi, con un accertamento rilevante ex art. 2909 c.c., o, piuttosto, con una declaratoria di estinzione; invero, nel primo caso, ciò che rileva non è l’attività giudiziale e istruttoria svoltasi nel corso del giudizio (che, in ipotesi, potrebbe anche mancare), ma la presenza di una pronunzia passata in giudicato che fa certamente difetto nella seconda ipotesi e tale circostanza è certamente sufficiente ex se a giustificare un diverso trattamento, dal punto di vista giuridico, delle ipotesi rispettivamente disciplinate al comma secondo (in cui l’interruzione della prescrizione ha effetti permanenti) e al comma terzo del citato art. 2945 c.c. (nel cui caso la prescrizione opera con effetti istantanei). Va esclusa, inoltre, l’assunta violazione del diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost., rilevandosi, al riguardo, che il codice di rito, proprio con riguardo all’estinzione del processo per mancata prosecuzione o riassunzione, prevede una serie di cautele che escludono che il giudizio possa ‘estinguersi’ senza la consapevolezza delle parti in causa (o, almeno, dei loro procuratori), dovendosi, d’altro canto, escludere che, alla stregua delle ragioni precedentemente evidenziate, emerga una contraddizione fra le disposizioni previste dall’art. 310, primo comma, c.p.c. e dallo stesso art. 2945, comma terzo, c.c. (così, la sentenza n. 825/06; in senso conforme si era in precedenza pronunciata anche la n. 3035/79).
Va aggiunto che il credito, a differenza del diritto potestativo, necessita di cooperazione, e ove questa non si realizzi soccorrono gli strumenti normativi per estinguere l’obbligazione, così da impedire che il rapporto si protragga nel tempo in maniera indefinita per effetto di ciclici atti interruttivi.
Per contro, lo stato di soggezione cui corrisponde il diritto potestativo sarebbe procrastinabile tendenzialmente sine die , ove
l’interruzione della prescrizione potesse operare (anche) secondo la tecnica della costituzione in mora, richiamata dall’ultimo comma dell’art. 2943 c.c. Di fronte a periodiche interruzioni stragiudiziali effettuate con semplice diffida, la persona assoggettatavi non avrebbe strumenti di tutela per far cessare la situazione d’incertezza sulla stabilità del suo acquisto.
Non casualmente, proprio l’esercizio dei diritti potestativi è spesso sottoposto a termini di decadenza oltre che di prescrizione (si pensi, ad esempio, all’art. 2113 c.c., all’art. 8, legge n. 590/65 sul riscatto agrario, agli artt. 38 e 39 legge n. 392/78 in tema di locazione non abitativa, ecc.), o a strumenti processuali sollecitatori (v. l’ actio interrogatoria , ex artt. 481 c.c. e 749 c.p.c., e gli altri casi cui provvede, sempre in materia ereditaria, quest’ultima norma, l’art. 1331, cpv. c.c. sul diritto di opzione, gli artt. 285 e 326 c.p.c. sulla notifica della sentenza per decorrenza del termine breve d’impugnazione, ecc.).
Dunque, sarebbe irragionevole, semmai, equiparare la disciplina della prescrizione del diritto potestativo a quella del diritto di credito, ben diversi essendone i presupposti e le ricadute applicative.
Né può ritenersi compatibile col diritto d’azione e con i principi del giusto processo una lettura degli artt. 2943, 2945, terzo comma, c.c., 307 e 310 c.p.c. che in caso di estinzione del giudizio ne azzeri la durata ai fini della prescrizione solo quando l’inattività sia sintomo inequivocabile di disinteresse della parte a far valere il proprio diritto, con possibilità di fornire la relativa prova (come parte ricorrente argomenta a pag. 6 della propria memoria). La prescrizione non può tollerare, per sua stessa natura e per sua stessa funzione, gli incerti connaturati ad un’indagine giudiziale sull’ intentio partis . Una prescrizione assoggetta alla possibilità
d’una prova sull’interesse o il disinteresse della parte negherebbe sé stessa, poiché rimuoverebbe proprio quegli aspetti di certezza cui specificamente mira l’istituto. Il contrario non può postularsi, senza un’intima contraddizione, come valido nel caso dell’art. 2945, terzo comma, c.c. e non anche in altre situazioni consimili (ad esempio nel caso di trattative o di generiche richieste di adempimento), sicché l’effetto sarebbe quello di sostituire alla isonomia del termine il giudizio volatile sulle cause del suo infruttuoso decorso.
3.3. Resta, ben vero, l’ipotesi che l’evento estintivo del processo si verifichi non in limine litis , e in generale quando è ancora possibile riproporre la domanda, ma allorché è decorso un tempo superiore al decennio dall’interruzione (come potrebbe avvenire, ad es., in sede di giudizio di rinvio: cfr. nn. 5570/10, 5104/06 e 986/93, le quali ribadiscono l’applicabilità del terzo comma dell’art. 2945 c.c. anche all’estinzione del processo, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., per mancata riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio).
Si tratta, però, ( i ) d’un rischio congenito al processo, ( ii ) largamente prevedibile e prevenibile, ( iii ) frutto d’una scelta di politica legislativa dotata di razionalità intrinseca e, come tale, non sindacabile, in base agli innanzi richiamati orientamenti della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia, e che -soprattutto -( iv ) non mette conto indagare ulteriormente sotto il profilo della legittimità costituzionale per la sua manifesta irrilevanza, essendo il caso di specie, per quanto osservato supra al par. 3., ben diverso.
– Il ricorso è, dunque, respinto.
Ai sensi dell’art. 92, secondo comma, c.p.c. quale risultante dalla sentenza additiva n. 77/18 della Corte cost. -le
spese del presente giudizio di cassazione sono integralmente compensate, attesa la buona fede della parte ricorrente.
Sussistono i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese.
Sussistono i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda