Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3362 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3362 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 5601/2024 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME il quale chiede di ricevere le comunicazioni al proprio indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-ricorrente –
contro
Ministero Interno -Prefettura di Frosinone, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avv ocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, siti in Roma alla INDIRIZZO è ope legis domiciliato.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, n. 823/2024, depositata in data 6/2/2024;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7/2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Con atto di citazione in riassunzione la RAGIONE_SOCIALE chiedeva al Ministero dell’Interno-Prefettura di Frosinone il pagamento degli importi previsti dalla Convenzione stipulata con la Prefettura di Frosinone per l’affidamento dei servizi di accoglienza di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale, assegnati al territorio della provincia di Frosinone.
Deduceva che la Convenzione era stata stipulata il 6/12/2016, a seguito di gara pubblica con bando del 3/8/2016, ma che a partire dal mese di maggio 2017 la Prefettura aveva cessato di saldare le fatture emesse dall’associazione.
La RAGIONE_SOCIALE chiariva che la Prefettura aveva bloccato ogni pagamento anche per l’anno 2018, solo in forza di fogli di firma, ossia di raccolte giornaliere delle sottoscrizioni delle persone ospitate nelle strutture convenzionate, relative al periodo maggio-ottobre 2017.
Il credito vantato dalla ricorrente per il periodo maggio 2017novembre 2018 ammontava complessivi euro 1.923.155,30.
Si costituivano in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Frosinone evidenziando che «il comportamento della ‘RAGIONE_SOCIALE‘ era stato gravemente inadempiente, a tutto danno degli immigrati stranieri ospitati in condizioni disumane, condizioni igieniche precarie, mancanza di alimentazione e alloggio adeguato;
a danno altresì delle risorse statali stanziate per tale servizio e pagate dai cittadini».
Proseguivano i convenuti sottolineando anche che «il mancato pagamento delle fatture era stato determinato dalla omessa indicazione, da parte del ‘RAGIONE_SOCIALE‘, delle condizioni normative prescritte per la verifica delle prestazioni, in particolare la sottoscrizione dei soggetti ospitati, con irregolarità tali da rendere necessaria la segnalazione alla procura della Repubblica».
Deducevano che il comportamento della RAGIONE_SOCIALE era stato gravemente inadempiente a danno degli immigrati stranieri «che sarebbero stati ospitati in condizioni disumane, in condizioni igieniche precarie, con la mancanza di alimentazione ed alloggio adeguato, a danno delle risorse statali stanziate per tale servizio».
Inoltre, aggiungevano che in data 25/10/2018 la Prefettura aveva comunicato all’ente gestore di volersi avvalere della clausola risolutiva dell’atto pattizio, ai sensi dell’art. 1456 c.c., per grave inadempimento.
Il tribunale di Roma, con ordinanza del 9/12/2020, accoglieva la domanda, condannando la Prefettura di Frosinone e il Ministero dell’Interno, in solido tra loro, al pagamento, a titolo di corrispettivo dovuto per il periodo maggio 2017/novembre 2018, della somma di euro 1.923.155,30.
In motivazione, il tribunale rilevava che la controversia atteneva esclusivamente alla contestazione da parte dei convenuti in ordine alla regolarità delle sottoscrizioni, tra l’altro esclusivamente per il periodo da maggio ad ottobre del 2017 («la Prefettura di Frosinone, costituendosi in giudizio, ha chiesto il rigetto dell’avversa domanda, contestando la debenza delle somme richieste per una asserita irregolare produzione della documentazione a sostegno, quantomeno nel periodo maggio-ottobre 2017»).
Al contrario – ad avviso del tribunale – «sulano, quindi, dalla presente decisione tutte le questioni relative alle modalità con le quali l’associazione ha provveduto alla prestazione del servizio di assistenza e alle eventuali responsabilità riscontrabili (oggetto di indagine penale, peraltro, allo stato, non conclusa), responsabilità allegate dalla parte resistente e contestate decisamente dalla ricorrente, secondo la quale eventuali carenze sarebbero da addebitare alla mancanza di fondi causata proprio dal mancato pagamento dei corrispettivi dovuti».
In tal modo, sarebbe stato «così precisato e delimitato l’oggetto della lite sulla base delle domande reciprocamente formulate dalle parti».
La Prefettura, con nota del 25/10/2018, dopo aver segnalato al Ministero la presenza di «anomalie nella gestione dei servizi e anche di natura contabile» aveva comunicato alla RAGIONE_SOCIALE «di volersi avvalere della clausola risolutiva dell’atto pattizio (art. 13 Convenzione), ai sensi e per gli effetti dell’art. 1456 c.c. ‘per grave inadempimento, avendo codesta associazione comunicato la sospensione con decorrenza immediata dell’erogazione dei servizi di prima accoglienza nei centri gestiti’».
Dalla documentazione prodotta in giudizio – ad avviso del tribunale -risultava che l’associazione RAGIONE_SOCIALE aveva provveduto a trasmettere, sia pure in ritardo a trasmettere, «la documentazione prevista dalla Convenzione, come specificata anche a seguito dell’emanazione del D.M. 18/10/2017».
Sul contenuto di tale documentazione la Prefettura non aveva formulato alcuna specifica contestazione «eccezion fatta per le fatture relative al periodo maggio-ottobre 2017»,
Per tali fatture, infatti, la contestazione aveva riguardato esclusivamente la accertata anomalia dei fogli di firma (identiche
sottoscrizioni in diversi giorni dello stesso mese e differenze tra tali firme e quelle riportate nel report giornaliero).
Si trattava, peraltro, di una irregolarità solo formale, in ragione delle dichiarazioni rese dagli operatori della struttura.
Aggiungeva il tribunale che «la contestazione sollevata dalla Prefettura non appare suffragata da sufficienti elementi di prova» e che «pur dovendosi ravvisare l’esistenza di indizi a favore della tesi dell’amministrazione, non vi è dubbio che la contraria tesi del carattere meramente formale delle anomalie riscontrate appare confortata non solo dalle dichiarazioni rese dagli operatori sotto pena di una personale responsabilità ma anche dalla mancanza di altri riscontri negativi, facilmente desumibile, ove esistenti, da un complessivo esame della documentazione allegata alle singole fatture».
Non risultava effettuato «un incrocio dei dati indicati nelle fatture e negli elenchi degli ospiti con i dati relativi all’erogazione del Pocket Money».
Concludeva il tribunale nel senso che «le anomalie riscontrate (e ammesse dalla stessa ricorrente) non potevano giustificare una integrale sospensione dei pagamenti né per i mesi in contestazione né, a maggior ragione, per tutti i mesi successivi, fino a novembre 2018, in costanza di rapporto e in presenza di prestazioni effettuate dall’associazione e non specificatamente contestate dall’amministrazione».
Avverso tale ordinanza proponevano appello il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Frosinone.
In particolare, con il primo motivo d’appello la Prefettura e il Ministero deducevano che il tribunale aveva violato i principi generali in materia di inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., in quanto si prevede la responsabilità risarcitoria del debitore «non solo per
inadempimento totale della prestazione, ma anche per non averla eseguita ‘esattamente’ cioè secondo i parametri quantitativi e qualitativi concordati». Le prestazioni eseguite «erano state oggetto di contestazione in relazione alla mancanza dei minimi criteri qualitativi che potessero integrare gli elementi di un ‘prestazione eseguita’.
Con il secondo motivo di appello deducevano la «violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’onere probatorio della parte attrice».
Il tribunale aveva affermato che dalle prove documentali la contestazione sollevata dalla Prefettura non appariva suffragata da sufficienti elementi di prova.
Tale affermazione, però, conteneva un chiaro stravolgimento dell’onere probatorio.
Il tribunale, pur riconoscendo la insufficienza probatoria dell’attrice, aveva fatto carico alla convenuta amministrazione dell’onere probatorio che in realtà spettava all’attore.
Aggiungevano gli appellanti che «uanto alla necessità di incrocio dei dati, il giudice era tenuto, avendone espresso la necessità, ad esperire un’adeguata istruttoria, anche mediante la nomina di un CTU, e non certo soprassedendo circa l’esigenza fondamentale della prova del diritto, in assenza del quale il giudice era tenuto a respingere la domanda e non già ad accoglierla».
Con il terzo motivo di appello si deduceva la «violazione delle norme in materia probatoria e di contabilità pubblica», in quanto il Ministero aveva ritenuto del tutto insufficiente la documentazione prodotta dalla RAGIONE_SOCIALE in ragione delle anomalie riscontrate anche con rilievo penale.
La Corte d’appello di Roma accoglieva il gravame proposto dal Ministero e dalla Prefettura.
In particolare, preliminarmente, rigettava l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità, sottolineando che «il Ministero appellante ha comunque prospettato le questioni ed i punti contestati dalla sentenza impugnata e le relative doglianze».
Inoltre, chiariva che «dall’esame della copiosa documentazione versata in atti da entrambe le parti, contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale, non possa essere condivisa la delimitazione della causa petendi », non potendosi prescindere «dal vaglio delle condotte tenute da entrambe le parti nell’ambito dell’esecuzione della Convenzione del 6/12/2016 oggetto del presente giudizio», trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata.
Per la Corte territoriale la difesa erariale aveva contestato che il servizio di assistenza degli stranieri era stato svolto «in condizioni disumane» ed era stato caratterizzato, nel corso della sua esecuzione, da «carenze ed inadempienze sotto il profilo strutturale e della erogazione dei servizi in favore degli ospiti», con l’elencazione degli specifici interventi effettuati presso le strutture di accoglienza di Monte San Giovanni Campano, di Alatri, Veroli e Sora.
La Corte d’appello proseguiva elencando tutti gli interventi effettuati anche dai NAS presso le singole strutture, muovendo dalle contestazioni relative all’immobile sito in Frosinone, INDIRIZZO (da pag. 20; poi pag. 25; ospite affetto da TBC), in Alatri (da pagina 26), Veroli (da pagina 33) e Sora (da pagina 37).
Quanto alla CTU, la Corte territoriale ha rilevato che le fatture «non erano corredate dalla documentazione da egli stesso evidenziata» e che, in particolare, «non risultavano essere stati prodotti in atti i rendiconti delle spese (ad eccezione del mese di maggio 2017), gli elenchi ed i relativi fogli firma mensili degli operatori impegnati ed il report delle attività eseguite».
L’art. 1 della Convenzione, invece, prevedeva che l’operatore affidatario «è tenuto a trasmettere alla Prefettura l’elenco dei fornitori di cui si avvale per l’espletamento delle prestazioni oggetto della Convenzione».
Quanto all’efficacia probatoria delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio, esse, pur avendo attitudine certificativa probatoria nelle procedure amministrative, risultavano priva di efficacia in sede giurisdizionale, dovendo essere sottoposta valutazione del giudice.
Si richiamavano le conclusioni del CTU, in base alle quali, «per le fatture relative alle mensilità da novembre 2017 a novembre 2018, per complessivi euro 1.145.015,40, non essendo stati prodotti in atti i fogli firma delle presenze ed i prospetti di erogazione dei Pocket Money, non risulta possibile verificare la corrispondenza degli importi fatturati con riferimento sia all’erogazione del servizio di accoglienza che dei Pocket Money che la RAGIONE_SOCIALE era tenuta ad effettuare in base alla Convenzione n. 32237 del 6/12/2016».
Con la precisazione, da parte del CTU, che «per il periodo novembre e dicembre 2017, ad eccezione delle fatture emesse da RAGIONE_SOCIALE, non risultano prodotti né i frontespizi, né la documentazione prescritta dalla Convenzione. Così per il periodo da gennaio a novembre 2018, ad eccezione delle fatture emesse da RAGIONE_SOCIALE, non risulta prodotta in atti la documentazione indicata nei frontespizi (quella prevista dal D.M. delle 18/10/2017); non risulta inoltre prodotto il frontespizio di novembre 2018».
Tra l’altro, le fatture prodotte erano carenti anche sotto il profilo della compiuta identificazione della causale posta a fondamento del credito, «dal momento che la causale indicata nelle fatture riguarda solo la generica indicazione del servizio fatturato ed il periodo temporale cui imputarlo, ma senza fare riferimento alcuno neanche al centro di accoglienza interessato».
Pertanto per il CTU «non essendo state prodotte in atti le fatture passive di RAGIONE_SOCIALE relative alle spese sostenute per l’accoglienza dei cittadini stranieri e per l’erogazione dei servizi connessi presso i centri di accoglienza indicati nella Convenzione o utilizzati in costanza della stessa, non è possibile verificare documentalmente la riferibilità delle spese ai servizi erogati (quali i servizi di gestione amministrativa, i servizi di assistenza generica alla persona, i servizi di pulizia ed igiene ambientale, i servizi di erogazione dei pasti e di tutti i generi di prima necessità) presso le strutture nel periodo in esame».
Mancava, peraltro, la rendicontazione, mentre «l’unico rendiconto presente in atti è quello del mese di maggio 2017».
Per la Corte dunque «le fatture depositate e relative al periodo che va dal novembre 2017 al novembre 2018 non costituiscono documentazione sufficiente per consentire l’erogazione del corrispettivo previsto dalla Convenzione in base ai requisiti dalla stessa richiesti».
Tanto è vero che il CTU ha precisato nelle sue conclusioni l’importo da liquidare ad RAGIONE_SOCIALE «sulla base, e con i limiti, della documentazione prodotta in atti, così come indicato nel quesito, in complessivi euro 1.668.839,90».
Per la Corte territoriale tale indicazione non è «coerente rispetto ai limiti ed alle lacune documentali evidenziate nella parte motiva della CTU e cui si è fatto riferimento in precedenza; deve, quindi, essere ribadito che la somma da riconoscere in favore di RAGIONE_SOCIALE ammonta ad euro 750.694,20».
Dovevano essere respinti motivi di appello incidentale proposti dall’appellata RAGIONE_SOCIALE relativi alla liquidazione delle spese nel giudizio di primo grado ed alla domanda ex art. 96 c.p.c.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE
Resisteva con controricorso il Ministero dell’interno-Prefettura di Frosinone.
Questa Corte con ordinanza n. 25927 del 2024, depositata il 2/10/2024, ha rigettato il ricorso.
L’RAGIONE_SOCIALE ha, quindi, proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 823/2024 della seconda sezione civile della Corte d’appello di Roma, emessa nel giudizio per la revocazione della sentenza n. 1910/2023, ai sensi dell’art. 395, primo comma, n. 4, c.p.c., che ha rigettato l’impugnazione della società.
CONSIDERATO CHE:
Con un unico motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione degli articoli 115 e 116, e 395, n. 4, c.p.c.».
In particolare, la ricorrente la ricorrente afferma che «il presente ricorso si basa sulla completa omissione delle dichiarazioni e conclusioni del CTU, Dott. COGNOME presenti nelle pagine 103,104,139,140 e 143 del suo elaborato peritale e, ovviamente, nell’errata disamina dei motivi della citazione per revocazione della sentenza n. 1910/2023».
La sentenza della Corte d’appello n. 823 del 2024 impugnata in sede di legittimità, si sarebbe limitata «a trascrivere buona parte della motivazione della sentenza n. 1910/2023 censurata da integra RAGIONE_SOCIALE».
Dopo tale trascrizione della motivazione della sentenza n. 1910/2023 la Corte d’appello (sentenza n. 832 del 2024), in sede di giudizio di revocazione, ha affermato che «ne deriva, dalla semplice lettura della motivazione della sentenza, che nessun errore percepito è ravvisabile nello sviluppo motivazionale della Corte d’appello,
giacché risulta da quel collegio chiaramente evidenziato come lo stesso CTU, alle pagine 140,137,116,112 e 113 della perizia (n.d.r. sopra sottolineate) avesse dato atto della documentazione mancante, di talché la conclusione formulata dall’ausiliare a pagina 144 della perizia non fosse coerente con i precedenti rilievi dello stesso CTU», con la precisazione per cui «è evidente, dunque, che qualsivoglia giudizio si voglia formulare sulle conclusioni adottate dalla Corte d’appello, viene in rilievo l’aspetto valutativo delle risultanze peritali e non già quello percettivo».
La sentenza della Corte d’appello sarebbe erronea «sia nella parte in cui ha riportato passi della sentenza n. 1910/2023 (dimenticando per errore percettivo i risultati del CTU nelle pagine menzionate 103,104,139,140 e 143), sia ed a maggior ragione nella parte in cui ritiene che l’impugnata sentenza n. 1910/2023 contenga una motivazione articolata e, quindi, una attenta valutazione del materiale probatorio utilizzato e non, invece, sia il frutto di un evidente errore percettivo dello stesso materiale probatorio».
Sarebbe, allora, evidente «la svista della Corte d’appello di Roma», dimenticata «ora nella sentenza n. 823/2024».
In realtà – ad avviso della ricorrente – il CTU avrebbe più volte rassicurato in ordine alla sussistenza di tutta la documentazione necessaria per la riscossione del credito vantato dalla integra RAGIONE_SOCIALE
Il CTU avrebbe affermato che «dall’esame della documentazione prodotta in atti, si evince che la integra RAGIONE_SOCIALE ha inviato alla prefettura la documentazione elencata nei ‘frontespizi’ (riportanti il timbro della prefettura ‘posta in arrivo’) relativi ai mesi da maggio ad ottobre 2017 che risulta in linea con quella prevista dalla convenzione, prot. n. 32237 del 6/12/2016, e da gennaio a ottobre
2018 che risulta in linea con quella prevista dal D.M. del 18/10/2017 ».
La Corte d’appello, invece, avrebbe dimenticato completamente tale circostanza commettendo, sia pagina 45, che nelle pagine 47 e 48 «questo gravissimo errore».
Trattasi di «errore percettivo e non di errore valutativo», in quanto il CTU, in più parti del suo elaborato peritale, aveva dichiarato che la documentazione prevista dalla convenzione del dicembre 2016 era stata «consegnata da integra RAGIONE_SOCIALE alla prefettura di Frosinone», come del resto aveva già accertato il tribunale di Roma».
La Corte d’appello di Roma non avrebbe «speso una parola sulle diverse pagine della CTU (evidenziate da integra), nelle quali lo stesso consulente spiega e dimostra perché, proprio secondo la convenzione sottoscritta dalle parti e nel rispetto della normativa del c.d. Decreto Minniti, andassero liquidata di integra RAGIONE_SOCIALE anche le fatture del periodo gennaio-ottobre 2018, per complessivi euro 918.145,70.
La Corte d’appello, dunque, si sarebbe limitata statuire che non trattavasi di errore percettivo, senza procedere a «comparare le dichiarazioni del CTU contenute nelle pagine 103,104,139,140 e 143, con le pagine 44-48 della sentenza n. 1910/2023, nelle quali non vi è alcun cenno sull’esame delle precise dichiarazioni conclusioni del CTU, ma dalle quali si evince, invece, la chiara mancata percezione delle stesse dichiarazioni del CTU».
2. Il motivo è inammissibile.
Infatti, per questa Corte, nel ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza emessa nel giudizio di revocazione non sono deducibili censure diverse da quelle previste dall’art. 360 c.p.c. e, in particolare, non sono denunciabili ipotesi di revocazione ex art. 395 c.p.c., non rilevando, in contrario, la circostanza che la sentenza
pronunciata nel giudizio di revocazione non possa essere a sua volta impugnata per revocazione (Cass., sez. 15/12/2020, n. 28452).
2.1. Inoltre, costituisce principio consolidato di legittimità quello per cui L’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, compresa quella della Corte di cassazione, presuppone l’esistenza di un contrasto fra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali; il detto errore deve: a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b) risultare con immediatezza ed obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive; c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata diversa (Cass., sez., 6-2, 10/6/2021, n. 16439).
Ed infatti, l’errore di fatto, che può dar luogo a revocazione della sentenza ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., richiamato dall’art. 391bis cod. proc. civ., presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, una delle quali emergente dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, purché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio (Cass., sez.L, 12/4/2001, n. 5515).
La Corte di appello, con pieno accertamento meritale, ha ritenuto che non vi sia stata alcuna svista da parte del giudice di merito. Ha tra l’altro anche specificato che la censura formulata dalla integra RAGIONE_SOCIALE era relativa ad un’errata valutazione delle risultanze processuali, sicché esulava dei profili della revocazione.
Ed invero, l’errore di fatto previsto dall’art. 395 n. 4, c.p.c., idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste in una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, purché non cada su un punto controverso e non attenga ad un’errata valutazione delle risultanze processuali (Cass., sez. 6-1, 26/1/2022, n. 2236).
La ricorrente, in realtà, chiede una nuova rivalutazione degli elementi di fatto già congruamente effettuata dalla Corte d’appello, in sede di revocazione, nella quale ha escluso, con assoluta precisione, la sussistenza di una «svista» compiuta da altro collegio della Corte d’appello con la precedente sentenza n. 1910 del 2023.
Senza contare che il fatto era anche «controverso», in quanto si discuteva tra le parti proprio in ordine alla valutazione delle risultanze della CTU; mentre la ricorrente, sia dinanzi alla Corte d’appello che in questa sede, continua a rimarcare che il giudice del merito avrebbe esaminato solo alcune pagine della CTU e non altre, segnatamente quella da essa indicate.
Non può peraltro sfuggire che l’oggetto della censura è un errore di fatto che sarebbe stato commesso dalla sentenza sulla revocazione (in pratica, è come se fosse stata proposta un’impugnazione per revocazione della sentenza di revocazione, inammissibile ex art. 403 cpc).
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 9.000,00, oltre spese prenotate a debito, oltre rimborso forfettario nella misura del 15% delle spese generali, Iva e cpa, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 febbraio 2025