Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 24215 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 24215 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/09/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 12095/23 proposto da:
-) NOME COGNOME , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-) COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME , domiciliati ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difesi dall’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO;
– ricorrente –
contro
– controricorrenti – per la revocazione della ordinanza della Corte di cassazione 23 novembre 2022 n. 34516;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 giugno 2024 dal AVV_NOTAIO;
FATTI DI CAUSA
Il 15.10.2002 NOME COGNOME vendette a NOME COGNOME un fondo agricolo con sovrastanti fabbricati rurali, esteso per circa 26 ettari. L’anno dopo NOME COGNOME e NOME COGNOME, proprietari e coltivatori diretti d’un fondo confinante con quello venduto a NOME COGNOME, convennero quest’ultimo dinanzi al Tribunale di Udine, lamentando la violazione del loro diritto di prelazione e dichiarando di voler esercitare il diritto di riscatto.
Oggetto:
revocazione
NOME COGNOME si costituì ed eccepì di essere affittuario e coltivatore diretto del fondo venduto, circostanza che ai sensi dell’art. 7 l. 817/71 sottraeva ai proprietari confinanti il diritto di prelazione.
1.1. La lite ebbe sorti alterne:
-) il Tribunale di Udine con sentenza 15.2.2009 n. 300 accolse la domanda di riscatto solo in parte; ritenne che NOME COGNOME non avesse la qualità di ‘coltivatore diretto’, ma negò il riscatto dei terreni non confinanti fisicamente con quello dei retraenti;
-) la Corte d’appello di Trieste con sentenza 7.1.2014 n. 36 rigettò la domanda di riscatto;
-) la Corte di cassazione con sentenza 5.4.2016 n. 6539 cassò con rinvio la sentenza d’appello per mancanza di motivazione;
-) in sede di rinvio la Corte d’appello di Trieste con sentenza 7.12.2017 n. 901 negò a NOME COGNOME la qualità di coltivatore diretto ed accolse la domanda di riscatto integralmente (e dunque anche per i fondi non fisicamente confinanti con quello dei retraenti);
-) la Corte di cassazione, nuovamente adita da NOME COGNOME, con ordinanza 23.11.2022 n. 34516 confermò la sentenza d’appello nella parte in cui escluse che NOME COGNOME avesse la qualità soggettiva di ‘coltivatore diretto’, ma la cassò nella parte in cui aveva accolto la domanda di riscatto anche con riferimento ai fondi non fisicamente confinanti con quello dei retraenti.
L’ordinanza 34516/22 di questa Corte è stata impugnata per revocazione, ex art. 391 bis c.p.c., da NOME COGNOME.
NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (eredi degli originari attori) hanno resistito con controricorso.
Ambo le parti hanno depositato memoria.
Con atto del 30.12.2023 il AVV_NOTAIO delegato ha proposto, ai sensi dell’art. 380 -bis c.p.c., che il ricorso fosse dichiarato inammissibile.
La proposta ha avuto il seguente tenore:
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Il ricorrente ha chiesto che il ricorso fosse deciso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il Collegio preliminarmente osserva che le ampie ragioni esposte nella proposta di definizione sono pienamente condivisibili.
Il ricorrente sostiene che l’ordinanza revocanda sarebbe incorsa in tre errori di fatto.
Deduce che i l primo errore è consistito nell’avere ritenuto ‘ inesistente un fatto certo ‘: e cioè che il fondo di proprietà dei retraenti non fosse coltivato da una società di persone, ma dai retraenti stessi. Sostiene il ricorrente che tale circostanza (i retraenti non erano personalmente coltivatori diretti del fondo) fu ammessa dagli stessi attori in primo grado.
1.1. Il motivo è manifestamente inammissibile. Sia perché l’errore denunci ato sarebbe – a tutto concedere – un errore di diritto consistito nella violazione dell’art. 2735 c.c.; sia perché è estraneo alla ratio decidendi : l’ordinanza revocanda infatti ha deciso la causa senza incorrere in alcun ‘travisamento’, ma semplicemente ritenendo che la questione consistente nello stabilire chi mai coltivasse il fondo dei retraenti fosse preclusa perché non tempestivamente introdotta nel thema decidendum .
Col secondo motivo il ricorrente denuncia che la ordinanza revocanda avrebbe travisato la sentenza impugnata. Formula al riguardo una tesi così riassumibile:
-) la Corte d’appello, in sede di rinvio, doveva stabilire se l’ acquirente NOME COGNOME avesse i requisiti di ‘coltivatore diretto’ (il che avrebbe inibito l’azione di riscatto dei confinanti) , e dunque se il suo nucleo familiare disponesse d’una forza lavorativa non inferiore al 33% di quella occorrente per la normale coltivazione del fondo;
-) a tal fine, la Corte d’appello aveva ritenuto che dovesse rientrare nella nozione di ‘normale coltivazione del fondo’ sia la coltivazione in senso stretto, sia l’attività di trasformazione del prodotto (uva da vinificazione);
-) sicché, accertato che rispetto a queste due attività la forza lavorativa del nucleo familiare di NOME era insufficiente, la Corte d’appello accolse la domanda di riscatto;
-) questa statuizione fu impugnata per cassazione da NOME COGNOME, il quale sostenne che ‘ l’attività di trasformazione dovesse essere esclusa e non compresa nel concetto di ‘coltivazione del fondo’ ‘;
-) la ordinanza revocanda, travisando il contenuto della sentenza pronunciata in sede di rinvio, affermò tuttavia che la sentenza della Corte d’appello aveva escluso, invece che ricompreso, l’attività di ‘trasformazione’ del prodotto dal concetto di ‘coltivazione del fondo’ ;
-) questo errore ha reso l’ordinanza revocanda incoerente: infatti, una volta affermato che l’attività di vinificazione non rientra nell’attività di coltivazione del fondo, la forza lavorativa di NOME COGNOME si sarebbe dovuta ritenere sufficiente alla coltivazione, e la domanda di riscatto si sarebbe dovuta rigettare.
2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile.
A parte il fatto che l’interpretazione della sentenza impugnata è un’attività di giudizio, rispetto alla quale è inconcepibile l’errore percettivo, quel che rileva è che la lettura che l’ordinanza revocanda ha dato della sentenza impugnata non sarebbe potuta essere più corretta.
‘ La Corte d’appello di Trieste -si legge nell’ordinanza 34516/22, pp. 10 -11) ha ritenuto che, proprio alla luce dell’estensione complessiva dei fondi cui il ricorrente dedicava la propria attività, allo stesso non potesse essere attribuita la veste di coltivatore diretto, risultando in tal modo inoperante la fattispecie ostativa di cui al citato art. 7, secondo comma, n. 2), L. 817/1971 ‘, e che ‘ nell’affermare che la capacità lavorativa del ricorrente (e della famiglia) doveva essere valutato lo svolgimen to, da parte del medesimo, dell’attività di trasformazione e vendita del prodotto, la Corte d’appello null’altro ha fatto se non dare applicazione ai principi poc’anzi enunciati (…), procedendo a
verificare se l’insieme delle attività svolte dal ricorrente – nella specie, appunto, trasformazione e vendita del prodotto – non comportassero un assorbimento della capacità lavorativa residua (del ricorrente medesimo e della famiglia) tale da risultare incompatibile con il requisito fondamentale dell’abituale coltivazione del fondo’ .
Il concetto è limpido: se il ricorrente aveva da coltivare un fondo e da produrre vino, la sua forza lavoro era insufficiente per fronteggiare queste due attività insieme, e correttamente la Corte d’appello escluse il possesso dei requisiti di legge per inibire al confinante l’esercizio del riscatto.
3. Col terzo motivo è formulata una censura così riassumibile:
-) il giudice di rinvio aveva motivato la propria decisione attraverso un rinvio generico alla c.t.u.;
-) col ricorso per cassazione NOME COGNOME aveva censurato questo punto della sentenza d’appello ‘ bis ‘, prospettando il vizio di motivazione;
-) l’ordinanza revocanda rigettò questo motivo, ritenendo che il giudice non ha l’obbligo di specifica motivazione, quando aderisca alla c.t.u.;
-) tale valutazione di frutto di errore percettivo, perché nel caso di specie la Corte d’appello aveva disatteso , e non già condiviso , le valutazioni del c.t.u..
3.1. Il motivo è manifestamente inammissibile.
Il ricorrente nel pregresso giudizio di legittimità col quarto motivo di ricorso si dolse della mancanza d’adeguata motivazione nella sentenza impugnata, e l’ordinanza 34516/22 ha ritenuto che la motivazione vi fosse , affermando che ‘ la motivazione della decisione (…) svolge una serie di ulteriori considerazioni che permettono pienamente di ricostruire l’iter decisionale, senza che in alcun modo possa ritenersi che l’iter motivazionale risulti perplesso o meramente apparente ‘.
La ordinanza revocanda, pertanto, mostra di avere complessivamente valutato il contenuto della sentenza impugnata e l’adeguatezza della sua motivazione: e lo stabilire se una sentenza di merito sia o non sia motivata in modo adeguato è una valutazione in iure , rispetto alla quale non è concepibile un errore di fatto.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
Deve trovare applicazione, altresì, in ragione della condivisibilità della proposta di definizione, il terzo comma dell’art. 380 -bis c.p.c. e, dunque, deve farsi luogo a condanna ai sensi dell’art. 96, terzo e quarto comma, c.p.c. nei termini di cui in dispositivo.
P.q.m.
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) condanna NOME COGNOME alla rifusione in favore di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, in solido, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 8.000, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) condanna NOME COGNOME al pagamento ex art. 96, comma terzo, c.p.c., in favore di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, in solido, della somma di euro 4.000;
(-) condanna NOME COGNOME al pagamento ex art. 96, comma quarto, c.p.c., in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della