Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9763 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 9763 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26010/2019 R.G. proposto da:
COGNOME COGNOME elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti- contro
COGNOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato STUDIO PROFESSIONALE COGNOME ( -) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonché
LEGA RAGIONE_SOCIALE COGNOME -intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO FIRENZE n. 1769/2019 depositata il 24/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale che ha concluso riportandosi alle conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Uditi l’avvocato COGNOME per i ricorrenti e l’avv. COGNOME per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME affermandosi la sola erede universale di NOME, cittadina italiana deceduta in Argentina l’8 settembre 2004, ha chiamato in giudizio i beneficiari di disposizioni testamentarie contenute in precedenti testamenti olografi, chiedendo il riconoscimento della propria qualità di erede e, con riferimento ai lasciti immobiliari in favore di NOME COGNOME e della Lega Antivivisezionista Nazionale, la cancellazione delle trascrizioni degli acquisti mortis causa in loro favore. Si costituiva NOME COGNOME, la quale eccepiva la nullità del testamento fatto valere dall’attrice. A tale eccezione aderiva la Lega Antivivisezionista Nazionale, che eccepiva ancora il proprio difetto di legittimazione, avendo nel frattempo alienato il bene ricevuto per testamento a NOME COGNOME e NOME COGNOME Autorizzata ed eseguita la chiamata dei terzi, il Tribunale, istruita la causa mediante la prova testimoniale richiesta dai chiamati, rigettava la domanda dell’attrice, riconoscendo l’invalidità del testamento pubblico a causa della mancata indicazione del luogo nel quale il medesimo fu ricevuto, assorbita qualsiasi altra questione. La Corte d’appello di Firenze, sulla questione della validità del testamento, è andata in contrario avviso, riconoscendone la validità in forza della legge argentina, che riteneva applicabile nel caso in esame sia in forza
della norma di diritto internazionale privato, sia in forza della legge di ratifica di apposita convenzione italo argentina. La Corte d’appello ha aggiunto che il testamento era stato riconosciuto valido in esito a un procedimento giudiziale, svoltosi in Argentina su istanza del pubblico, ministero, assimilabile in qualche modo «al ns. giudizio di volontaria giurisdizione»; ha aggiunto ancora che la decisione del Tribunale conseguiva a una non corretta interpretazione del testamento, il quale indicava il luogo nel quale l’atto fu ricevuto, mancando in effetti solamente l’indicazione del locus loci ; tuttavia, continuava la Corte d’appello, tale ulteriore indicazione è imposta dalla legge notarile, che non rilevava nel caso di specie, non potendo tale legge trovare applicazione in un testamento ricevuto all’estero. Affermata la validità del testamento, la Corte di merito ha precisato che con esso la testatrice aveva revocato i precedenti testamenti, rendendo così sterili le deduzioni dei convenuti intese a sostenere la compatibilità delle diverse volontà espresse nei vari testamenti. La Corte di merito ha perciò definito il giudizio nei seguenti termini: ha dichiarato l’attrice la sola erede della defunta; ha dichiarato revocati i testamenti olografi precedenti e, con riferimento ai lasciti immobiliari, ha dichiarato l’invalidità delle trascrizioni degli acquisti mortis causa . In ordine al rapporto fra l’erede e i terzi acquirenti dell’unità immobiliare in Livorno, ha ritenuto che costoro non potessero aspirare a far salvo l’acquisto, non avendo assolto all’onere, su di essi gravante, di provare la buona fede; pertanto ha dichiarato l’inopponibilità della vendita nei confronti dell’erede e ha ordinato la cancellazione della relativa trascrizione. In conseguenza di ciò, ha condannato i terzi a restituire l’immobile e, in caso di mancata restituzione, a corrispondere all’erede il prezzo pagato per
l’acquisto. Ha accolto ancora la domanda proposta dai terzi acquirenti nei confronti della Lega Antivivisezionista Nazionale, che è stata condannata, per l’ipotesi di avvenuta restituzione dell’immobile, a restituire agli acquirenti il prezzo riscosso.
Per la cassazione della sentenza, NOME COGNOME e gli eredi di NOME COGNOME (NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso sulla base di tre motivi, illustrati da memoria.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
Lega Antivivisezionista Nazionale e COGNOME NOME restano intimate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. ─ I motivi di ricorso possono così riassumersi:
violazione e falsa applicazione dell’art. 3657 del Codice civile argentino, il quale prescrive che, nel testamento pubblico, deve essere indicato il luogo nel quale l’atto è ricevuto: tale indicazione mancava nel testamento pubblico oggetto di causa, il quale conteneva la seguente attestazione: ‘nella città di La Plata Dipartimento della Provincia di Buenos Aires, addì 8 settembre 2004 davanti a me NOME COGNOME, notaio iscritto si presenta NOME COGNOME;
violazione dell’art. 112 c.p.c.: con riferimento alla compravendita intercorsa fra la Lega antivivisezionista nazionale e i signori COGNOME e COGNOME nonostante l’erede avesse chiesto dichiararsi solamente l’inopponibilità dell’atto, la Corte d’appello ha condannato gli acquirenti alla restituzione del bene, aggiungendo, inoltre, la condanna al pagamento del prezzo pagato;
il terzo motivo denunzia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la decisione nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che i terzi non avessero assolto all’onere di provare la buona fede.
La ricorrente sostiene che la decisione, sul punto, rifletteva la mancata considerazione degli elementi emersi nella causa, incorrendo nel vizio di motivazione apparente.
─ Il primo motivo è infondato. Come ricorda la Corte d’appello nella sentenza impugnata, la forma del testamento è regolata dall’articolo 48 della legge n. 218 del 1995, il quale ha ampliato e modificato la precedente disciplina contenuta nell’articolo 26 disp. prel. Per effetto di questa norma il testamento sarà valido, quanto alla forma, se risponde ad una delle seguenti leggi:
-legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto;
-legge dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della morte, era cittadino;
-legge dello Stato di cui il testatore aveva il domicilio o la residenza. L’articolata previsione permette di applicare una molteplicità di criteri di collegamento, i quali consentono, potenzialmente, il richiamo a più leggi regolatrici del testamento, a conferma della tendenza finalizzata a facilitare il compimento degli atti giuridici all’estero.
Con riguardo al problema dell’operatività dei diversi criteri di collegamento, il richiamo alle diverse leggi regolatrici della forma del testamento deve essere inteso come simultaneo ed alternativo. È quindi necessario considerare tutte le leggi richiamate dai criteri di collegamento, e applicare, nel caso di specie, la legge, fra quelle richiamate, che consente di dichiarare la validità dell’atto. Il testamento, quindi, può essere considerato valido se risponde ai requisiti formali anche di una soltanto delle leggi richiamate dall’art. 48 della legge n. 218 del 1995 cit.
3. ─ Il giudice di primo grado aveva riconosciuto l’invalidità del testamento pubblico, ricevuto in Argentina, a causa della mancata
indicazione del luogo in cui l’atto fu ricevuto. La Corte d’appello è stata di diverso avviso. Essa ha riconosciuto che «da un corretto esame del testo dell’atto, si rileva che prima della dicitura ‘ innanzi a me notaio ‘ è indicato ‘ En la ciudad de la Plata ‘. La Corte di merito ritiene che tale indicazione sia «sufficiente ad indicare il luogo dove l’atto è redatto e non crea alcun tipo di confusione, come erroneamente sostenute del Tribunale». Ha quindi operato un parallelismo con l’art. 603 c.c., osservando che la norma non dice come l’indicazione del luogo debba essere fatta; ha osservato ancora che l’indicazione è stabilita dalla legge notarile, che, nella formazione degli atti pubblici, richiede che sia indicato non solo il Comune, ma anche il locus loci . In forza di tale ricostruzione la Corte di merito ha ritenuto «erronea l’interpretazione restrittiva data dal Tribunale al testamento non potendosi, nella fattispecie, interpretare il luogo, anch’esso richiesto nel testamento, redatto in Argentina, come locus loci , perché tale specifica indicazione del luogo, come indirizzo completo, nel nostro ordinamento discende dall’applicazione di una legge italiana, quella c.d. notarile, che non può trovare applicazione in un atto stipulato oltralpe quale quello oggetto di causa».
4. ─ Come si chiarirà, la Corte di merito è certamente nel giusto quando afferma che il testamento pubblico deve contenere, secondo la nostra legge nazionale, non solo l’indicazione del Comune, ma altresì del locus loci . Erra invece quando sembra ritenere che il nostro ordinamento, diversamente da quello argentino, sanzioni con l’invalidità la mancata indicazione del locus loci . L’omissione, infatti, non comporta l’invalidità del testamento neanche secondo la legge italiana, richiamata dal criterio di collegamento costituito dalla cittadinanza italiana del testatore,
cittadinanza pacifica in causa e risultante anche dal medesimo testamento pubblico ricevuto in Argentina.
Il requisito formale di cui si discute è quello relativo al luogo in cui l’atto è ricevuto, secondo quanto prescrive l’art. 603 c.c.
La legge notarile nell’art. 51 n. 1 richiede per tutti gli atti notarili, e quindi anche per il testamento pubblico, l’indicazione del Comune e del luogo in cui l’atto è ricevuto. Si ritiene che il Codice civile, quantunque parli soltanto di luogo, non disponga diversamente dalla legge notarile: per luogo deve intendersi tanto il Comune, quanto l’ufficio o la casa in cui l’atto è ricevuto. Secondo la legge notarile, la mancata indicazione del Comune comporta la nullità dell’atto, mentre la mancata indicazione del locus loci comporterà l’applicazione di sanzioni disciplinari, ma l’atto resta valido.
In materia di testamento, il Codice civile, con riferimento alla mancata indicazione del Comune, sostituisce la sanzione della nullità, comminata dalla legge notarile, con quella dell’annullabilità. È dubbio invece se la medesima sanzione dell’annullabilità sia applicabile anche all’omissione del locus luci , che la legge notarile non sanziona con l’invalidità dell’atto. Nonostante sia stato autorevolmente sostenuto che la mancata indicazione del luogo, al pari della mancata indicazione del Comune, importi l’annullabilità dell’atto, il collegio ritiene preferibile la diversa opinione, secondo la quale il testamento pubblico è annullabile, se manca l’indicazione del Comune, mentre è valido, anche se irregolare, se manca l’indicazione del locus loci . Invero, se è del tutto ragionevole riconoscere che il Codice civile, entrato in vigore dopo la legge notarile, non abbia inteso distinguere il Comune dal luogo, essendoci quindi coincidenza di disciplina, non sembrano esserci ragioni sufficienti per ritenere che il Codice civile abbia inteso
inasprire la legge notarile. Se la logica seguita dal legislatore del Codice civile, in materia di invalidità formali del testamento, è quella di attenuare le sanzioni, non di inasprirle, non si comprende la ragione per la quale la omissione del locus loci dovrebbe avere, nel testamento, una gravità maggiore rispetto agli altri atti notarili in genere.
Come riconosce la Corte d’appello, il testamento pubblico di NOME COGNOME, ricevuto dal notaio argentino, contiene l’indicazione del Comune: ‘Nella città di La Plata, dipartimento della Provincia di Buenos Aires, addì davanti a me notaio in carica del Registro 119 del Distretto notarile di La Plata, si presenta NOME COGNOME, italiana ».
Esso, pertanto, è valido secondo la legge italiana, conseguendone il rigetto del motivo.
5. ─ Il secondo motivo è solo in parte fondato. Risulta dalla non contestata esposizione in fatto operata dalla sentenza impugnata, che in primo grado l’attrice propose, in forza del testamento pubblico, azione di petizione ereditaria. Facendo valere il testamento chiese «la restituzione di quanto ricevuto dai convenuti con disposizioni di ultima volontà contenute in testamento olografi del , precisamente nei confronti della Lega Antivivisezionista Nazionale per la restituzione di un locale ad uso negozio in Livorno». Essendo stato accertato che la beneficiaria della disposizione aveva alienato il bene a terzi, questi furono chiamati nel giudizio. Nel giudizio d’appello furono precisate le seguenti conclusioni: «accertare e dichiarare inopponibile alla parte attrice COGNOME la compravendita RAGIONE_SOCIALECOGNOME NOME e COGNOME NOME, relativa al negozio in Livorno e ordinare la cancellazione della relativa
trascrizione. Ovvero, in subordine, dichiarare la Lega antivivisezionista tenuta a corrispondere a Campero Trigo NOME una somma pari al valore dell’immobile».
È noto che la legittimazione passiva rispetto all’azione di petizione ereditaria compete a chiunque possegga tutto o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcun, nonché, come risulta dall’art. 534, comma 1, ai suoi aventi causa. Se l’erede non riesce a recuperare il bene trasferito a terzi può rivalersi sul possessore alienante secondo le regole poste dall’art. 535, comma 2, c.c.: il possessore che si ritiene di buona fede che ha alienato, pure in buona fede, una cosa dell’eredità è solo obbligato a restituire all’erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Se il prezzo o il corrispettivo è ancora dovuto, l’erede subentra nel diritto di conseguirlo. Se invece il possessore era di mala fede ovvero in mala fede ha alienato il bene dovrà risarcire l’intero danno subito dall’erede vero (Cass. n. 8519/2025).
In termini totalmente coerenti con queste regole, nel caso di specie l’erede, una volta chiamati in giudizio i terzi, ha chiesto di accertarsi l’inopponibilità, nei propri confronti, della vendita compiuta dalla Lega Antivivisezionista; in subordine ha chiesto la condanna del possessore alienante al pagamento di una somma pari al valore dell’immobile, supponendone la mala fede. Il fatto che, in sede di precisazione delle conclusioni, fu chiesto, nei confronti dei terzi, il solo accertamento della non opponibilità dell’atto non autorizzava a ritenere che l’attrice avesse inteso trasformare, nei confronti dei terzi, la domanda di petizione in una domanda di puro accertamento. Vale infatti il principio secondo cui «La mancata riproposizione, nelle conclusioni definitive di cui all’art. 189 c.p.c., di domande o eccezioni o istanze in precedenza
formulate non è, di per sé, sufficiente a farne presumere la rinuncia o l’abbandono, dovendosi ciò escludere non solo quando dette conclusioni ricomprendano una generica richiesta di positiva valutazione di tutte le difese svolte, ma anche quando, pure essendo state precisate conclusioni specifiche e nonostante detta materiale omissione, la complessiva condotta della parte – la cui interpretazione è riservata al giudice del merito – evidenzi l’intento della stessa di mantenere ferme anche le domande, le eccezioni o le istanze a loro volta non specificamente riprodotte, tanto più quando queste, sotto il profilo dell’interesse della parte, risultino strettamente connesse con quelle oggetto delle conclusioni formulate» (Cass. n.12482/2002; 3593/2010; 22626/2013; n. 3157/2019).
6. ─ Il secondo motivo è, invece, fondato nella parte in cui censura la decisione per avere condannato i terzi non solo alla restituzione del bene, ma altresì alla ‘restituzione della somma di € 55.000,00 ricevuta quale corrispettivo della richiamata compravendita’. In verità, la statuizione di condanna contenuta nel dispositivo, certamente diretta nei confronti dei terzi acquirenti, già condannati a restituire la res , sembra frutto di una evidente svista da parte della Corte di merito. Il corrispettivo non è stato ‘ricevuto’, ma è stato pagato dagli acquirenti, mentre è stato ricevuto dal possessore alienante (destinatario della domanda subordinata di restituzione del corrispettivo ricevuto).
In linea di principio, l’erede vero nei confronti dei terzi, qualora l’alienazione non sia efficace, ha diritto alla restituzione del bene. Se l’alienazione è efficace, egli può rivalersi sul possessore alienante secondo le regole sopra indicate. Si nota in dottrina che il problema non si pone soltanto nel caso in cui l’alienazione
compiuta dall’erede apparente sia efficace, ma pure nel caso in cui -essendo l’alienazione inefficace -l’erede conserva contro l’acquirente l’azione per la restituzione del bene. In entrambi i casi, infatti, l’erede ha diritto di conseguire dall’erede apparente la controprestazione dell’alienazione: se gli si negasse tale diritto, quando può pretendere la restituzione del bene dal terzo, l’erede apparente sarebbe ingiustamente avvantaggiato, in quanto farebbe proprio il corrispettivo, tutte le volte che l’erede non possa o non voglia agire contro il terzo. In altre parole, l’erede vero potrebbe benissimo agire contro l’erede apparente per conseguire il corrispettivo dell’alienazione, salvo ad agire successivamente, quando se ne presenti l’opportunità, contro il terzo, naturalmente offrendo a quest’ultimo quanto già ricevuto dall’erede apparente. Senza che sia necessario approfondire tale problema, ai nostri fini, è sufficiente il rilievo che non è consentito al giudice, investito della domanda di petizione, condannare il terzo sia a restituire il bene, sia a restituire il corrispettivo pagato, tanto più in assenza di qualsiasi domanda.
Nei confronti del terzo, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 535, comma 2, c.c. è richiedibile la condanna a pagare il corrispettivo ancora dovuto: ma anche in questo caso, la richiesta è logicamente incompatibile con la richiesta di condanna alla restituzione e a maggior ragione con il suo accoglimento. Si osserva che una tale richiesta, intesa a far valere il subentro nel diritto dell’alienante al pagamento del corrispettivo ancora dovuto, avrebbe inevitabilmente valore di una tacita ratifica dell’alienazione.
7. ─ È fondato anche il terzo motivo. La motivazione della Corte d’appello si esaurisce nella perentoria affermazione che gli
acquirenti non avevano provato la buona fede, senza il minimo confronto con le deduzioni di parte e gli esiti dell’istruzione, nel corso della quale fu ammessa e assunta la prova orale richiesta dai terzi acquirenti. Si deve aggiungere che la Corte di merito ha applicato la norma di cui all’art. 534, comma 2, c.c., che fa salvi i diritti acquistati, per effetto di convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi, i quali provino di avere contratto in buona fede. Se, come nel caso in esame, oggetto del diritto trasferito dall’erede apparente è un bene immobile, l’acquirente fa salvo il proprio acquisto qualora (oltre a dimostrare di essere stato in buona fede al momento della contrattazione e di avere pagato un prezzo) sia stato osservato l’onere della doppia trascrizione (art. 534, comma 3, c.c.; Cass. n. 11305/2012, dove si precisa che è necessario che sia stato preventivamente trascritto sia l’acquisto mortis causa sia l’acquisto inter vivos ). Dunque, si fa eccezione alla regola generale secondo cui la buona fede si presume. La Corte d’appello ha riconosciuto che gli acquirenti non avessero assolto a tale onere, il che ha reso superfluo ogni ulteriore indagine.
Si deve però osservare che la giurisprudenza, in sintonia con la dottrina, ritiene che l’art. 534 c.c. non sia applicabile agli acquisti dal legatario (Cass. n. 2114/1966), i quali, se riguardano acquisti dei diritti menzionati dall’art. 2643 c.c., sono compresi nell’art. 2652, n. 7, c.c., nel cui ambito la buona fede si presume (Cass. n. 1402/1989). Ci sono, in verità, precedenti di segno contrario, secondo cui «l’acquirente a qualunque titolo di beni dall’erede o legatario apparente per non essere pregiudicato nel suo acquisto, non solamente deve avere trascritto il suo acquisto almeno cinque anni prima della trascrizione della avversa domanda giudiziale, ma deve altresì provare la sua buona fede» (Cass. n. 1741/1980). Ma
è convincente l’obiezione che il mezzo tecnico di tutela del terzo, di cui all’art. 2652 n. 7, c.c., non è quello dell’apparenza del diritto bensì il principio, nettamente distinto, del formalismo giuridico, in funzione del quale, alla pubblicità dell’acquisto dall’erede apparente, qualificata dalla mancata contestazione per un quinquennio, è attribuito, nei soli rapporti con l’erede vero, l’effetto della pubblica fede. In altre parole, il terzo avente causa fonda il proprio acquisto sulla titolarità formale del suo dante causa, l’efficacia della quale è esclusa solo dalla prova della mala fede. Vale la pena ricordare che la presunzione di buona fede viene costantemente applicata anche fuori dal campo del possesso, tranne nei casi, ritenuti eccezionali, nei quali l’onere della prova è dalla legge espressamente imposto al soggetto che invoca la buona fede (Cass. n. 5091/2010).
La sentenza impugnata va cassata, dunque, in accoglimento del secondo motivo e del terzo motivo, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, la quale esaminerà le domande sulla base dei ricordati principi; ad essa si demanda, altresì, la liquidazione delle spese di lite.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo e, nei termini di cui in motivazione, anche il secondo; rigetta il primo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia la causa alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda