Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 541 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 541 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6125/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE per procura in calce al ricorso ed elettivamente domiciliato a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO), che lo rappresenta e difende ex lege,
-controricorrente e ricorrente incidentale-
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di BARI n. 3393/2022 depositato il 29.12.2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9.7.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con decreto n. 694/2022 del 29.6.2022 il Consigliere delegato della Corte d’Appello di Bari, accogliendo parzialmente la domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata della procedura fallimentare della RAGIONE_SOCIALE (aperta con sentenza del Tribunale di Bari n. 48/2008 del 10.4.2008 e chiusa il 26.10.2021), nella quale -a seguito di accordo transattivo –NOME COGNOME era stato ammesso al passivo il 17.7.2014 in via privilegiata per un credito di lavoro di € 89.348,71 a fronte di un’iniziale sua richiesta di ammissione per € 178.697,43, riconosceva una durata illegittima della procedura di un anno, dalla data di ammissione al passivo alla data di chiusura del fallimento, e liquidava a favore del COGNOME un indennizzo di € 400,00, oltre interessi legali dalla domanda e spese processuali, liquidate in € 27,00 per spese vive ed € 225,00 per compensi, oltre accessori.
Proponeva opposizione ex art. 5 ter L. n. 89/2001 il COGNOME, che chiedeva di computare la durata irragionevole della procedura dalla data della domanda di ammissione al passivo (8.2.2010) e non dall’ammissione al 17.7.2014, di applicare un moltiplicatore annuo di € 800,00 per i primi tre anni, con aumento del 20% per ciascuno dei tre anni successivi, e non di € 400,00, per complessivi € 5.280,00, o di riconoscere gli interessi maturati sul credito ammesso al passivo nel corso della procedura fallimentare, indicati in € 9.255,54, e di liquidare per le spese processuali della fase monitoria, nell’ambito dello scaglione per le cause di valore fino ad € 5.200,00, l’importo massimo dei compensi di € 810,00, o almeno quello medio di € 450,00.
La Corte d’Appello di Bari in composizione collegiale, col decreto n. 4272/2022 del 29.12.2022, nella contumacia del Ministero, accoglieva parzialmente l’opposizione, computando la durata irragionevole dalla data della domanda di ammissione al passivo alla chiusura del fallimento (sei anni), utilizzando il moltiplicatore di € 500,00 annui senza ulteriori aumenti, liquidando al De Francesco l’indennizzo di € 3.000,00, oltre interessi legali dalla domanda, e quanto alle spese processuali, € 400,00 per compensi del monitorio ed € 27,00 per spese per la fase monitoria, € 961,50 per compensi (esclusa la fase di trattazione) ed € 27,00 per spese per la fase di opposizione, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%.
Avverso il decreto collegiale della Corte d’Appello di Bari ha proposto ricorso a questa Corte, notificato al Ministero della Giustizia il 27.2.2023, COGNOME NOME COGNOME affidato a tre motivi, ed il Ministero ha notificato controricorso, contenente anche ricorso incidentale, il 29.3.2023, con un unico motivo.
Il COGNOME ha depositato memoria ex art. 380 bis. 1 c.p.c.
La causa è stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 9.7.2024.
Preliminarmente va esaminato, per ragioni logiche, il ricorso incidentale del Ministero della Giustizia, inerente la questione del computo della durata irragionevole del giudizio presupposto, incidente anche sull’ammontare dell’indennizzo richiesto dal De Francesco.
Si duole il Ministero della Giustizia, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 della L. n. 89/2001 e 75 c.p.c., sostenendo che il periodo di durata del giudizio ai fini del computo dell’indennizzo andava calcolato, non dalla domanda di ammissione al passivo fallimentare del De Francesco del febbraio 2010, che era stata presentata per l’esorbitante credito di € 178.697,43, ma dall’effettiva ammissione al passivo del minor credito di € 89.348,71, a seguito di
opposizione allo stato passivo e transazione, avvenuta il 17.7.2014, per cui scomputando il periodo di durata ragionevole di sei anni e di tre mesi per il periodo di sospensione per la pandemia Covid, la durata irragionevole andava calcolata in un anno circa, come riconosciuto in fase monitoria, e l’indennizzo spettante andava calcolato in € 400,00, e non in € 3.000,00, mentre non poteva essere considerato il periodo intercorso tra la domanda di ammissione al passivo fallimentare e la data di effettiva ammissione al passivo, in cui il credito era ancora controverso.
Va anzitutto esclusa l’eccepita inammissibilità del controricorso e ricorso incidentale dell’Avvocatura dello Stato in quanto manoscritto e poi riprodotto in copia telematica prima della notifica e del deposito, e comprendente, nella copia notificata, alcune pagine in bianco. Premesso, infatti, che la conformità della copia del controricorso all’originale non è stata contestata, il testo manoscritto redatto in caratteri stampatello e non col computer, poi fotocopiato insieme ad alcune parti prestampate, pur avendo, per via dell’assemblaggio compiuto, una veste grafica inelegante, è comunque comprensibile e chiaro nel suo contenuto e presenta i requisiti degli artt. 365, 366, 366 bis e 370 c.p.c., per cui non è ravvisabile un vizio formale e non stato leso il diritto di difesa del ricorrente principale, ed i fogli bianchi che separano le parti manoscritte nel controricorso notificato al COGNOME, non sono riempite di contenuti nella copia del controricorso utilizzata per l’iscrizione a ruolo dal Ministero.
In ogni caso, il ricorso incidentale è inammissibile ex art. 360 bis n. 1) c.p.c.
Il decreto impugnato si è conformato, nel computare la durata del giudizio presupposto costituito da una procedura fallimentare, alla giurisprudenza di questa Corte, che fa decorrere il termine relativo dalla domanda di ammissione al passivo fallimentare, con la quale si instaura il rapporto processuale tra le parti, piuttosto che dalla
successiva data dell’ammissione del credito al passivo, e non sono stati offerti elementi che giustifichino un mutamento di tale consolidato orientamento.
Ai fini del calcolo del termine di cui all’art. 2, comma 2 -bis, della L. n. 89 del 2001 (secondo cui si considera rispettato il termine ragionevole di durata del processo, “se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”), questa Corte si è infatti ormai stabilmente orientata nel senso che, ” ove il processo presupposto sia un procedimento fallimentare, la sua durata, ai fini dell’accertamento in ordine alla violazione del termine ragionevole, deve essere commisurata, per il creditore insinuato, al periodo compreso tra la proposizione della domanda di ammissione al passivo e la distribuzione finale del ricavato “. Invero, la domanda di insinuazione al passivo ” genera la aspettativa di partecipazione al concorso nella prospettiva del migliore soddisfacimento possibile del diritto di credito fatto valere, aprendo quindi una fase processuale che non v’e alcuna ragione di considerare irrilevante, ai fini del calcolo della durata del processo, sino al momento in cui il diritto del creditore sia stato riconosciuto con la ammission e” (vedi tra le molte Cass. ord. 5.7.2024 n. 18232; Cass. ord. 5.1.2024 n.324; Cass. ord. n. 12861/2022 che prende le distanze dal minoritario e diverso orientamento -Cass. n. 21200 del 2018; Cass. n. 964 del 2019 -, recuperando la continuità con le affermazioni degli anni precedenti). È stato di recente sottolineato, dall’ordinanza n. 324 del 5.1.2024 di questa Corte, che la conclusione a cui giunge questo orientamento è ” l’unica coerente con il disposto di cui all’art. 94 L. Fall., secondo cui il ricorso contenente la domanda di ammissione di un credito al passivo produce di ( rectius gli ) effetti della domanda giudiziale per tutto il corso del fallimento ” ed è ” inoltre in linea con le decisioni di questa Corte che, in tema di durata ragionevole delle procedure concorsuali, segnalano la necessità di considerare la procedura
unitariamente, tenendo anche conto della proliferazione di giudizi connessi o della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti (Cass. n. 23982 del 2017; Cass. n. 9254 del 2012; Cass. n. 8668 del 2012)”.
Si osserva, per completezza, che il motivo contiene un riferimento all’art. 75 c.p.c., relativo alla “capacità processuale”, del tutto inconferente, in quanto sul punto non vi è mai stata questione tra le parti.
Col primo motivo di ricorso principale il COGNOME lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., l’errata e/o mancante e/o solo apparente motivazione sull’importo dell’indennizzo riconosciuto dovuto.
Si duole il ricorrente principale che l’impugnato decreto dopo avere richiamato genericamente i criteri stabiliti dall’art. 2 bis, comma 1 e 2 della L. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, per la determinazione dell’equo indennizzo (esito del processo, comportamento del giudice e delle parti nel giudizio presupposto, natura degli interessi coinvolti, valore e rilevanza della causa anche in relazione alla condizione personale delle parti), e l’avvenuto riparto parziale di € 25.246,67, abbia determinato il moltiplicatore annuo di € 500,00, senza esplicitare le effettive ragioni della decisione adottata in rapporto ai criteri indicati dalla legge, non valorizzando adeguatamente, nella scelta del moltiplicatore annuo, il fatto che si trattasse di un credito privilegiato per prestazioni di lavoro subordinato di notevole consistenza.
Col secondo motivo il ricorrente principale lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 5) c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, individuato nella mancata valutazione dei criteri invocati dal ricorrente per la liquidazione dell’indennizzo (natura di credito alimentare di lavoro, durata della procedura fallimentare, notevole importo del credito anche se ridotto su base transattiva, ed
ammontare degli interessi legali su esso maturati in corso di procedura fallimentare).
I primi due motivi del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente, in quanto entrambi relativi alla motivazione addotta, dal decreto impugnato, nella scelta del moltiplicatore annuo applicato (€ 500,00) per la determinazione dell’indennizzo per l’irragionevole durata della procedura fallimentare.
Va premesso che le circostanze richiamate dal ricorrente principale ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5) c.p.c., non sono fatti storici decisivi che siano stati oggetto di discussione tra le parti, ma o criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis, comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, per orientare la scelta del giudice nell’individuazione del moltiplicatore annuo da utilizzare per la determinazione dell’indennizzo tra il minimo di € 400,00 ed il massimo di € 800,00, o un criterio (quello del riferimento agli interessi legali sul credito ammesso al passivo che sarebbero maturati in corso di procedura fallimentare) che è del tutto estraneo ai criteri elencati dalla norma sopra citata, afferendo ad una quantificazione risarcitoria e non ad una determinazione indennitaria.
Va poi evidenziato che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie Cass. sez. un. n. 2767/2023; Cass. sez. un. n. 8053/2014). Nel caso della motivazione apparente, la motivazione pur graficamente presente, è totalmente inidonea ad illustrare le ragioni della decisione adottata (vedi Cass. n. 30759/2023).
Orbene, nel caso di specie, il decreto impugnato ha giustificato la scelta del moltiplicatore annuo di € 500,00, superiore al minimo previsto dalla L. n. 89/2001 di € 400,00 annui, oltre che col richiamo ai criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis, comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, ed all’avvenuto riparto parziale risultato pari ad € 25.246,67, anche implicitamente col riferimento specifico all’entità del credito ed alla sua natura privilegiata (credito di lavoro e TFR) ed alla durata del procedimento presupposto, che hanno indotto ad attribuire un moltiplicatore annuo superiore al minimo per tutta la durata irragionevole della procedura fallimentare, sicché una motivazione, sia pure succinta, come richiesto dalla materia trattata, è stata fornita, e l’eventuale sua insufficienza non è più sindacabile.
Ad ogni modo, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, la determinazione discrezionale del moltiplicatore annuo in materia di equa riparazione è frutto di un giudizio di fatto equitativo, insindacabile in sede di legittimità se compreso tra il minimo (€400,00) ed il massimo (€ 800,00) previsto dalla L. n. 89/2001 (vedi in tal senso Cass. n. 33470/2023; Cass. 14.10.2019 n.25837; Cass. n. 14521/2019), e nel nostro caso il moltiplicatore annuo è stato fissato in € 500,00, in applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001.
Col terzo motivo il ricorrente principale lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli artt. 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ. per la mancata liquidazione dei compensi per la fase di trattazione del giudizio conseguente all’opposizione, del tutto ingiustificata, in quanto a seguito dell’autorizzata trattazione scritta, l’opponente aveva depositato le note scritte di trattazione per l’udienza dell’8.11.2022 (doc. 15), e secondo la tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 147/2022, per tale fase, applicando lo scaglione delle cause civili contenziose tra € 1.100,01 ed € 5.200,00, spettava al De Francesco l’ulteriore importo minimo di € 496,00, fermo restando quanto già liquidatogli per le altre tre fasi del giudizio di opposizione e per la fase monitoria.
Il terzo motivo è fondato e merita accoglimento, in quanto la liquidazione del compenso per la fase istruttoria, o di trattazione, nei giudizi di opposizione in tema di equa riparazione, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, è ineludibile (Cass. ord. 26.6.2024 n. 17602; Cass. ord. n. 26608/2023; Cass. ord. n. 164/2022; Cass. ord. n. 35373/2022), tanto più che dal documento richiamato dal ricorrente emerge che un’effettiva trattazione, anche se scritta, della causa, vi è stata nel giudizio conseguente all’opposizione, di talché ai compensi già liquidati dal decreto impugnato va aggiunto, per tale voce, l’ulteriore importo di € 496,00 (oltre accessori), pari al minimo previsto dalla tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022, per le cause civili contenziose, alle quali è assimilabile il giudizio in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo conseguente ad opposizione, per lo scaglione compreso tra €1.101,00 ed € 5.200,00, individuato in base all’indennizzo riconosciuto dovuto di € 3.000,00.
In conclusione, accolto il terzo motivo del ricorso principale, rigettate le prime due censure ed il ricorso incidentale, il decreto impugnato va cassato in relazione al motivo accolto e, non essendo
necessari ulteriori accertamenti, la causa può essere decisa nel merito, con condanna del Ministero al pagamento in favore di COGNOME della ulteriore somma a titolo di compenso per trattazione pari ad € 496,00, oltre accessori.
L’esito del giudizio giustifica per la fase di legittimità la compensazione delle spese per 2/3, con condanna del Ministero della Giustizia al pagamento del terzo residuo, determinato in € 150,00 per compensi ed € 100,00 per spese, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, da distrarre in favore del legale antistatario del ricorrente, avv. NOME COGNOME
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie il terzo motivo del ricorso principale, rigettati i primi due e il ricorso incidentale, cassa l’impugnato decreto in relazione al motivo accolto, e decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di NOME COGNOME dell’ulteriore compenso di € 496,00 oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15% per il giudizio di opposizione;
dichiara compensate per 2/3 le spese del giudizio di legittimità e condanna il Ministero della Giustizia al pagamento del terzo residuo, liquidato in € 150,00 per compensi ed € 100,00 per spese, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, da distrarre in favore del legale antistatario del ricorrente, avv. NOME COGNOME
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 9.7.2024.
Il Presidente NOME COGNOME