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Equiparazione retributiva: no agli arretrati senza atto

Un ex militare di un corpo ausiliario ha richiesto il pagamento di arretrati per l’equiparazione retributiva al personale delle Forze Armate. La Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, stabilendo che l’interpretazione degli atti amministrativi interni che dispongono l’adeguamento è una questione di fatto, non di diritto. Inoltre, né tali atti né i regolamenti contabili interni costituiscono norme di diritto idonee a fondare la pretesa economica.

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Pubblicato il 23 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Equiparazione retributiva: quando un atto interno non basta per gli arretrati

La questione dell’equiparazione retributiva tra diverse categorie di dipendenti pubblici è spesso fonte di contenzioso. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sui presupposti necessari per ottenere il riconoscimento degli arretrati, distinguendo nettamente tra atti interni di un ente, come ordinanze e regolamenti, e le vere e proprie norme di diritto. La decisione sottolinea che l’interpretazione di un atto amministrativo è una questione di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, e che le semplici annotazioni contabili non possono creare un’obbligazione.

I fatti del caso

La vicenda trae origine dalla richiesta di un ex appartenente al corpo militare di un ente pubblico ausiliario dello Stato. Egli aveva chiesto di essere ammesso al passivo della liquidazione coatta amministrativa dell’ente per ottenere il pagamento di crediti relativi a retribuzioni arretrate. La sua pretesa si fondava sulla presunta equiparazione retributiva del suo trattamento economico a quello dei militari delle Forze Armate di pari grado.

Il Tribunale di primo grado aveva respinto la domanda, sostenendo che mancasse un presupposto fondamentale: un atto formale dell’organo di vertice dell’ente che disponesse l’estensione retroattiva di tale equiparazione. Contro questa decisione, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.

La distinzione tra questione di fatto e violazione di legge

Il ricorrente basava la sua impugnazione sulla violazione di diverse norme, sostenendo che alcune ordinanze emesse dal Commissario straordinario dell’ente tra il 2009 e il 2010 avessero di fatto disposto non solo l’adeguamento futuro degli stipendi, ma anche il pagamento delle differenze maturate in passato. A prova di ciò, indicava l’iniziale iscrizione del debito nei bilanci dell’ente, poi successivamente cancellata.

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, centrando la sua analisi su una distinzione cruciale nel processo civile: quella tra ‘questione di fatto’ e ‘questione di diritto’. L’interpretazione del contenuto e della portata delle ordinanze del Commissario è un’attività di accertamento del fatto, riservata al giudice di merito. La Corte Suprema non può sostituire la propria interpretazione a quella del Tribunale, a meno che non venga contestata una palese violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, cosa che non è avvenuta nel caso di specie.

L’inefficacia del regolamento interno come fonte di diritto

Un altro punto cardine del ricorso riguardava la presunta violazione del regolamento di contabilità dell’ente. Anche su questo fronte, la Cassazione è stata netta. Un regolamento interno, volto a disciplinare il funzionamento dell’ente pubblico, non costituisce una ‘norma di diritto’ ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Le norme di diritto sono caratterizzate da generalità e astrattezza, e sono destinate a regolare i rapporti giuridici tra l’ente e soggetti terzi (inclusi i dipendenti) in modo stabile. I regolamenti interni, invece, hanno natura organizzativa e non possono fondare autonomamente diritti soggettivi.

Le vicende contabili, come l’iscrizione a bilancio del debito e il suo successivo stralcio, sono state considerate irrilevanti come fonte dell’obbligazione. Tali operazioni, secondo la Corte, non possono creare un diritto di credito, ma al massimo possono essere considerate come elementi fattuali nell’ambito dell’interpretazione degli atti amministrativi, tornando così alla questione di fatto non censurabile in Cassazione.

le motivazioni
La ratio decidendi della Corte si fonda su principi consolidati della procedura civile. In primo luogo, l’ambito del giudizio di legittimità è circoscritto alla verifica della corretta applicazione delle norme di diritto e non può estendersi a una nuova valutazione dei fatti di causa. L’interpretazione di un atto amministrativo specifico, come le ordinanze del Commissario, rientra pienamente nell’accertamento di fatto. Il Tribunale aveva concluso che tali atti disponevano l’adeguamento solo per il futuro, riservando a un secondo momento la valutazione sulla concessione degli arretrati, previa verifica della copertura finanziaria. Questa è una ricostruzione fattuale che la Cassazione non può riesaminare.

In secondo luogo, la Corte ribadisce che non tutti gli atti normativi di un ente pubblico sono ‘norme di diritto’ la cui violazione può essere denunciata in Cassazione. Le ordinanze commissariali, prive di generalità e astrattezza, e i regolamenti interni, con finalità puramente organizzative, non rientrano in questa categoria. Di conseguenza, il ricorso è stato giudicato inammissibile perché tentava di trasformare una disputa sull’interpretazione di fatti e atti specifici in una questione di violazione di legge.

le conclusioni
La sentenza stabilisce un importante principio per i dipendenti pubblici che rivendicano diritti economici basati su atti interni dei propri enti. Per ottenere il riconoscimento di arretrati legati a un’equiparazione retributiva, non è sufficiente richiamare ordinanze generiche o regolamenti interni. È necessario un atto dispositivo chiaro, formale e specifico che preveda espressamente l’efficacia retroattiva del beneficio economico. In assenza di tale atto, l’interpretazione del giudice di merito sulla portata limitata al solo futuro di un adeguamento retributivo è difficilmente contestabile in Cassazione. La decisione, inoltre, conferma che le registrazioni contabili, pur avendo una loro rilevanza interna, non hanno la forza di creare, modificare o estinguere un’obbligazione giuridica.

Un regolamento interno di un ente pubblico può essere considerato una norma di diritto per fondare una pretesa economica?
No, la Cassazione ha stabilito che i regolamenti interni che disciplinano il funzionamento dell’ente non sono norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., in quanto non regolano in via generale e astratta i rapporti giuridici con soggetti terzi come i dipendenti.

L’interpretazione di un atto amministrativo, come un’ordinanza interna, può essere contestata in Cassazione come violazione di legge?
No, l’interpretazione di un atto amministrativo specifico è considerata una questione di fatto, la cui valutazione è riservata al giudice di merito. Non può essere censurata in Cassazione come violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), che attiene invece all’errata applicazione di norme generali e astratte.

L’iscrizione di un debito a bilancio crea l’obbligazione di pagamento per l’ente?
No, la Corte ha chiarito che l’appostazione a bilancio di un debito non è la fonte dell’obbligazione stessa. Al massimo, può essere un elemento fattuale utile a interpretare gli atti che hanno generato il presunto debito, ma da sola non è sufficiente a creare il diritto di credito in capo al lavoratore.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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