Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 34482 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 34482 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/12/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE con sede in Milano, in persona del legale rappresentante dott. NOME COGNOME rappresentata e difesa per procura alle liti in calce al ricorso dagli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
Ricorrente
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa per procura alle liti in calce al controricorso da ll’ Avvocato NOME COGNOME elettivamente domiciliata presso l studio dell’Avvocato NOME COGNOME in Roma, INDIRIZZO
Controricorrente avverso la sentenza n. 5837/2018 della Corte di appello di Milano, depositata il 31. 12. 2018.
Udita la relazione della causa svolta dal consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 27. 11. 2024.
Fatti di causa e ragioni della decisione
1.COGNOME NOME convenne dinanzi al Tribunale di Milano la RAGIONE_SOCIALE chiedendone la condanna al pagamento della somma di euro 12.278,38, a titolo di restituzione di parte dell’acconto versato per l’esecuzione di lavori in appalto. Espose che il rapporto contrattuale intrattenuto con la società convenuta, avente ad oggetto la manutenzione straordinaria di un suo immobile, si era interrotto a causa del recesso dell’impresa, motivato , ai sensi dell’art. 1660 c.c., dalla sopravvenuta ed imprevista necessità di apportare al progetto originario varianti, ai fini del consolidamento della struttura del fabbricato, il cui ammontare superava il sesto del prezzo convenuto, e che, avendo versato alla società, quale acconto iniziale, la somma di euro 29.700,00 ed avendo le opere dalla stessa eseguite fino al momento del recesso un valore, calcolato sulla base del prezzo pattuito, minore, ella aveva chiesto alla controparte, ma senza esito, la restituzione della differenza.
La convenuta si oppose alla domanda, rappresentando di avere concordato, in contraddittorio con i professionisti incaricati dalla committente, il corrispettivo dovut o nell’importo di euro 29.428,00, oltre iva, più una somma aggiuntiva per il coordinamento della sicurezza, superiore, nel complesso, a quello ricevuto; propose quindi in via riconvenzionale domanda di condanna della attrice al pagamento della differenza, pari a euro 2.428,00.
Con sentenza del 2016 il Tribunale respinse entrambe le domande.
Proposta impugnazione da parte della Fusco, con sentenza n. 5837 del 31. 12. 2018 la Corte di appello di Milano riformò la decisione di primo grado, condannando la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di euro 9.138,38. Premesso che non risultava contestata la legittimità del recesso da parte dell’impresa, ma soltanto le sue conseguenze sulle rispettive posizioni delle parti, la Corte distrettuale motivò la decisione affermando che la sentenza di primo grado, laddove aveva riconosciuto all’impresa , in aggiunta al corrispettivo per i lavori eseguiti, una somma a titolo di indennizzo ex art. 1660 c.c., era errata per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non avendo l ‘appaltatrice avanzato una domanda specifica al riguardo; che,
R.G. N. 13680/2019.
diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, spettava all’impresa e non alla committente l’onere di provare i lavori effettivam ente eseguiti, per i quali aveva diritto al compenso; che, nella specie, la prova poteva ritenersi raggiunta soltanto per i lavori indicati nella perizia di parte attrice redatta dall’ing. COGNOME a cui andavano aggiunte, perché non contestate o comunque da ritenersi necessarie, altre lavorazioni, mentre dovevano restarne escluse le voci ulteriori indicate nel computo prodotto dalla appellata, perché non dimostrate; che, in conclusione, il compenso per le opere eseguite dalla ditta appaltatrice fino al momento del recesso andava quantificato nella somma complessiva, al netto, di euro 17.861,62, con conseguente obbligo della stessa di restituire la differenza, rispetto a quanto ricevuto, pari ad euro 9.138,38, al cui pagamento condannò la società appellata.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato a mezzo posta con invio in data 7. 5. 2019, ha proposto ricorso la RAGIONE_SOCIALE affidato a quattro motivi. COGNOME NOME ha notificato controricorso.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e mancata applicazione dell’art. 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere affermato che spettava a ll’impresa appalt at rice l’onere di provare l’entità dei lavori eseguiti ai fini del trattenimento dell’acconto ricevuto, m entre esso era a carico della committente, tenuto conto, da un lato, che il recesso dall’appalto esercitato in corso d’opera , ai sensi dell’art. 1373, comma 2, c.c., non ha effetto per i lavori già eseguiti, per i quali l’appaltatore abbia già maturato il diritto al compenso, e, dall’altro, che la controparte, agendo per la ripetizione di indebito, avrebbe dovuto dimostrare tutti i fatti costitutivi della propria pretesa.
3. Il mezzo è infondato.
Le argomentazioni svolte dalla ricorrente, in particolare la dedotta applicazione dell’art. 1373, comma 2, c.c. alla fattispecie disciplinata dall’art. 1660, comma 2, c.c., da cui la parte fa derivare il proprio diritto a trattenere quanto ricevuto a titolo di corrispettivo dei lavori eseguiti, secondo una impostazione che appare seguita anche dalla sentenza impugnata, impongono un chiarimento preliminare sul contenuto e la portata effettiva di quest’ultima disposizione, alla quale questa Corte, per la sua funzione nomofilattica, ritiene di non potersi sottrarre.
R.G. N. 13680/2019.
L ‘art. 1660, comma 2, c.c. prevede che, se per l’esecuzione dell’opera sono necessarie variazioni al progetto che superino il sesto del prezzo complessivo convenuto, ‘ l ‘appaltatore può recedere dal contratto e può ottenere, secondo le circostanze, un’equa indennità ‘. Ora, l a legge parla di ‘ equa indennità ‘ e non di corrispettivo contrattuale e ne condiziona il riconoscimento alla valutazione delle circostanze del caso concreto, che rimette al prudente apprezzamento del giudice. La lettera della norma, in particolare, sembra subordinare alla valutazione delle circostanze del caso concreto non solo il quantum , ma anche l’ an del diritto dell’appaltatore ad ottenere un ‘equa indennit à. La legge, ancorando alla sussistenza di particolare circostanze il diritto dell’appaltatore a ricevere una indennità, non esclude l’eventualità di un suo diniego , in linea e secondo parametri assimilabili in sostanza con quelli indicati dall’art. 16 75 c.c.. Si pensi ad esempio al caso in cui le variazioni necessarie sopravvenute comportino la necessità di demolire le opere eseguite, situazione che potrebbe portare a negare all’appaltatore ogni ristoro o comunque ad un suo sensibile ridimensionamento. Ciò che certamente la legge esclude, laddove parla di ‘ equa indennità ‘, è che l’appaltatore , a seguito del recesso, abbia automaticamente il diritto a ricevere il corrispettivo convenuto per i lavori eseguiti. Questa considerazione porta a ravvisare nella citata disposizione una portata derogatoria al principio generale secondo cui nei contratti ad esecuzione prolungata , nella cui categoria rientra il contratto di appalto, l’intervenuta risoluzione del contratto non ha effetto per le prestazioni già eseguite ( art. 1373, comma 2; art. 1458, comma 2, c.c. ), da cui si fa discendere la conseguenza che per esse rimane fermo, per la parte che le ha eseguite, il diritto al corrispettivo pattuito.
La disciplina posta dall’art. 1660, comma 2, c.c. è diversa e la ragione va individuata sia nella natura della prestazione oggetto del contratto, che nella particolarità della situazione che autorizza l’appaltatore a recedere dal rapporto . Essa, se non trova origine dall’appaltatore , nemmeno può essere addebitata al committente, trovando la sua causa nella sopravvenuta, e quindi in origine non prevista, necessità di apportare variazioni al l’opera come inizialmente progettata, cioè in necessità tecniche sopravvenute. La legge contempera i
R.G. N. 13680/2019.
diversi interessi delle parti: quello del committente, che si trova nella necessità di apportare variazioni al progetto originario, quello dell’appaltatore, che può trovare eccessivo per la sua organizzazione e per le sue capacità un aumento dei lavori, interesse que st’ultimo che intercetta anche quello del committente a lla esecuzione di un’opera secondo le regole dell’arte e rispondente pienamente alle sue aspettative. Il contemperamento è quindi realizzato con la scelta di riconoscere , entro certi limiti, prevalente la posizione dell’appaltatore, attribuendogli la possibilità di ricevere un giusto ristoro per l’opera prestata, nonostante che la causa del suo recesso non sia addebitabile alla controparte. Ora, tra le circostanze da considerare al fine del riconoscimento del credito dell’appaltatore assume valore preminente l’utilità per il committente dei lavori eseguiti dall’impresa fino al momento del recesso. La considerazione è ovvia e trova appoggio positivo non solo nel generale principio che vieta l’arricchimento senza causa, ma altresì nella disposizione di cui all’art. 1675 c.c., che, in caso di scioglimento del rapporto per morte dell’appaltatore, dichiara che il committente è tenuto a pagare le opere eseguite ed a rimborsare le spese solo nei limiti in cui esse gli sono utili. Il medesimo criterio è seguito dall’art. 1 672 c.c., che, in caso di sopravvenuta impossibilità di esecuzione dell’opera per causa non imputabile alle parti, pone a carico del committente l’obbligo di pagare la parte dell’opera eseguita ‘ nei limiti in cui è per lui utile ‘. In questa prospettiva, la legge, parlando di equa indennità e non di compenso o corrispettivo, non impone ma certamente nemmeno esclude che, in caso di accertata ovvero non contestata utilità delle opere, il credito dell’appaltatore sia determinato facendo diretta applicazione dei prezzi contrattuali, riconoscendogli quindi un ammontare pari al corrispettivo convenuto, in linea anche in questo caso con l’art. 1675 c.c., che fa esplicito riferimento al prezzo pattuito. Ciò è quanto avvenuto nella sostanza nel caso di specie, in cui la Corte di appello, non essendo stata l’utilità dei lavori eseguiti contestata dalla committente, che ha posto in discussione solo la loro elencazione fatta dalla controparte, ha riconosciuto il diritto dell’appaltatore a trattenere dall’acconto ricevuto una somma corrispondete al corrispettivo convenuto, vale a dire calcolata sulla base dei prezzi contrattuali.
R.G. N. 13680/2019.
4. Tanto chiarito, passando ad esaminare la questione posta dal motivo, può osservarsi che la situazione che si presenta nel caso in cui l’appaltatore, a seguito del recesso dal contratto ai sensi dell’art. 1660, comma 2, c.c., chieda l’equa indennità, non è dissimile, quanto all’applicazione della regola sulla ripartizione dell’onere della prova, da quella che si configura in tutti i casi in cui una parte avanzi in giudizio una pretesa ad una determinata prestazione. Nello specifico, essendo il riconoscimento del diritto fatto valere condizionato alla esistenza di determinate circostanze, tra le quali rientra, in primo luogo, il fatto che alcuni lavori siano stati effettivamente eseguiti, in assenza del quale non sembra possibile riconoscere alcun indennizzo, non appare dubbio che, in caso di contestazione, in ordine alla loro effettiva esecuzione, spetti all’appaltatore e non al committente provare il loro effettivo compimento, quale fatto costitutivo del suo diritto ad ottenere l’indennità .
La regola non muta, né può cambiare, a seconda che sia l’appaltatore a chiedere l’indennità per i lavori eseguiti ovvero, a parti processuali invertite, sia il committente, come nel caso di specie, a chiedere la restituzione della somma versata, al momento della sottoscrizione del contratto, in conto dei lavori appaltati. Trova al riguardo applicazione il principio che la regola sulla distribuzione dell’onere della prova è neutra rispetto alla natura dell’azione esperita, sia essa di pagamento o di accertamento negativo del credito ovvero di ripetizione (Cass. n. 9706 del 2024; Cass. n. 22862 del 2010). La somma data a titolo di acconto trova la sua causa giustificativa nell’impegno preso dall’appaltatore di eseguire i lavori convenuti e può, in caso di risoluzione anticipata del rapporto, essere dallo stesso trattenuta solo sul presupposto della loro effettiva esecuzione. Trattandosi di fatto costitutivo del suo credito, spetta quindi all’appaltatore dare la prova del suo diritto a trattenere la somma ricevuta a titolo di equa indennità, id est provare le circostanze in forza delle quali essa può essergli attribuita.
Il primo motivo di ricorso va pertanto respinto
5. Il secondo motivo di ricorso denunzia vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di appello deciso la causa dando assoluto credito alla perizia di parte attrice redatta da ll’ing.
R.G. N. 13680/2019.
COGNOME, senza alcuna motivazione circa la sua esattezza e corrispondenza allo stato dei lavori al momento del recesso, che avrebbe invece dovuto essere messa in dubbio, considerato che essa era stata redatta dopo quattro anni dallo scioglimento del contratto e dopo che le opere erano state completate da altra impresa.
6. Il motivo è infondato e per il resto inammissibile.
Dalla lettura della sentenza emerge che la Corte di appello non ha affatto aderito in modo acritico alle risultanze della perizia di parte, avendola anzi corretta in più punti, riconoscendo all’appaltatore poste di credito per lavori che non erano stati accettati dal tecnico. Il richiamo del giudice alla perizia di parte, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, appare piuttosto funzionale all’accertamento dei lavori la cui esecuzione, essendo stata ivi riconosciuta, doveva ritenersi non contestata, salva poi la valutazione, effettivamente compiuta dalla Corte, in ordine alle voci non riconosciute.
A ciò deve aggiungersi che l’accertamento in concreto dei lavori effettivamente eseguiti dall’impresa, al fine della determinazione dell’indennità prevista dall’art. 1660, comma 2, c.c., integra un apprezzamento di fatto, di esclusiva competenza del giudice di merito e non sindacabile, nei suoi risultati, in sede di giudizio di legittimità. La censura appare, sotto tale profilo, inammissibile.
7. Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.c.p., per avere la Corte di appello riformato la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto il diritto della odierna ricorrente, a seguito del recesso dal contratto, alla corresponsione di una equa indennità, ai sensi dell’art. 1660 c.c., sul presupposto errato che essa non fosse mai stata richiesta. Si sostiene che tale capo della sentenza è errato perché non ha considerato che la domanda riconvenzionale proposta era fondata direttamente sul computo finale concordato con i rappresentanti della committente, che quantificava le spettanze dell’appaltatore nell’importo comple ssivo di euro 29.428,88 ed in cui erano esplicitamente indicate poste di natura indennitaria, quali il ‘ mancato profitto ‘ ed il ‘ fermo cantiere ‘.
8. Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1660 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere negato il diritto della
R.G. N. 13680/2019.
appaltat rice all’equa indennità prevista dall a citata disposizione, oltre che per difetto di una specifica domanda, anche sul rilievo che essa non è conseguenza automatica del recesso e non può essere liquidata indipendentemente dalla prova di un pregiudizio. Tale ultima affermazione, sostiene il ricorso, consuma una patente violazione della norma, la quale riconosce il diritto dell’appaltatore ad ottenere un’equa indennità ‘ secondo le circostanze ‘, ma non richiede affatto la sussistenza e la prova che egli abbia subito un pregiudizio.
Il terzo e quarto motivo, che vanno esaminati congiuntamente, non meritano accoglimento.
I due motivi, come già evidenziato, muovono dalla erronea prospettiva che, ai sensi dell’art. 1660, comma 2, c.c. , all’appaltatore spetti sia il corrispe ttivo per i lavori eseguiti sia un’equa indennità, che nel caso concreto viene riferita al mancato guadagno per l’interruzion e anticipata del rapporto. Prospettiva che, per le ragioni sopra dette, non può essere accolta, limitandosi la legge a riconoscere all’impresa solo l’equa indennità e non altro.
Le censure, tuttavia, pongono la questione se nell’equa indennità prevista dalla disposizione di legge richiamata, possa ritenersi compreso, non solo l’equo ristoro per i lavori eseguiti, ma anche la perdita per l’appaltatore derivante da lucro cessante.
La questione merita risposta negativa.
La ragione risiede nella considerazione che tali voci di danno presuppongono che il rapporto contrattuale venga interrotto per causa imputabile al committente e rispondono all’interesse positivo dell’appaltatore alla sua prosecuzione. Nel caso contemplato da ll’art 1660 , comma 2, c.c., invece, il contratto viene sciolto per iniziativa dell’appaltatore, stante la sopravvenienza di variazioni necessarie del progetto non addebitabili alla condotta della appaltante. Quest’ultim a circostanza rappresenta un ulteriore presupposto della applicazione della norma. Se la necessità delle variazioni non è sopravvenuta, ma è addebitabile ad errori o incompletezze del progetto fornito dal committente, non vi sarebbero motivi per limitare il diritto dell’appaltatore , a cui nessuna colpa al riguardo sia addebitabile, ad una ‘ equa indennità ‘ . Le conseguenze del suo recesso dal contratto sarebbero assimilabili a quelle che derivano da una risoluzione per
R.G. N. 13680/2019.
inadempimento, con salvezza pertanto del suo diritto non solo ad ottenere il corrispettivo dei lavori eseguiti secondo i prezzi contrattuali, ma anche al risarcimento del danno.
Da ciò discende che la disposizione di cui all’art. 1660, comma 2, c.c. , correttamente delimitata entro il perimetro della sua applicazione, nel consentire all’appaltatore di recedere dal contratto in presenza di variazioni necessarie che superano il sesto del prezzo complessivo dei lavori, mira a salvaguardare non già l’interesse positivo dell’appaltatore all’esecuzione del contratto, ma il suo interesse negativo, muovendo dal presupposto che, se egli avesse preventivamente conosciuto la reale entità dei lavori da eseguire, non avrebbe concluso l’ appalto.
Essendo diretta a tutelare un interesse contrattuale negativo, è evidente che l’equa indennità menzionata dalla norma a favore dell’appaltatore non può essere composta da voci che invece presuppongono un pregiudizio per la mancata prosecuzione del rapporto.
I motivi devono essere pertanto respinti, nonostante la fondatezza della censura di omessa pronuncia. Va dato conto, al riguardo, che la società convenuta aveva indicato le proprie spettanze nella somma complessiva di euro 29.428,00, richiamando a tal fine il documento riepilogativo concordato con il direttore dei lavori, che, come risulta dalla stessa sentenza impugnata (pag. 13), comprendeva anche le voci ‘ mancato profitto ‘ e ‘ impianto cantiere ‘ , e chiesto in via riconvenzionale il pagamento della differenza rispetto agli importi ricevuti. I motivi vanno comunque disattesi in applicazione del principio secondo cui, in caso di vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di appello, questa Corte, per il principio della ragionevole durata del processo, non deve procedere alla cassazione con rinvio della sentenza impugnata tutte le volte in cui la domanda o eccezione il cui esame sia stato omesso possa essere decisa senza ulteriori accertamenti di fatto ( Cass. n. 17416 del 2023; Cass. n. 21968 del 2015; Cass. n. 21257 del 2014; Cass. n. 2313 del 2010 ). Nel caso di specie la pretesa avanzata da RAGIONE_SOCIALE di ottenere una indennità a titolo di mancata guadagno era, per i motivi sopra esposti, infondata.
R.G. N. 13680/2019.
10. Il ricorso va pertanto respinto, con correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.c.p., nei termini sopra precisati.
Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in euro 2.600,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 novembre 2024.