Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2846 Anno 2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 719/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME ed elettivamente domiciliata presso il domicilio digitale del medesimo,
pec:
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME e domiciliati presso il domicilio digitale del medesimo
pec:
-controricorrenti-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 2058/2022 depositata il 21/10/2022.
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2846 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 05/02/2025
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/10/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Rilevato che:
Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. la società RAGIONE_SOCIALE (di seguito NBM) conduttrice di un immobile sito in Bologna, convenne in giudizio, davanti al Tribunale della stessa città, i germani NOME e NOME COGNOME, locatori, chiedendo di accertare e dichiarare che, avendo la locazione dell’immobile ad oggetto l’attività di ristorazione ovvero di trattoria, la clausola contrattuale che prevedeva una durata della locazione (sessennio) inferiore a quella novennale stabilita dalla legge ex art. 27, L. 392/78 in combinato disposto con l’art. 1786 c.c., era nulla con la conseguente necessità di rideterminare/statuire la durata novennale del contratto (9+9); chiese, per l’effetto, di accertare e dichiarare la nullità della disdetta, esercitata dalla locatrice con raccomandata, perché in violazione dell’art. 29 L. 392/78 per omissione dei motivi specifici e per il mancato rispetto del termine di diciotto mesi precedenti la prima scadenza novennale.
Il Tribunale rigettò le domande, dichiarando la cessazione del contratto di locazione inter partes alla data del 30/11/19 e, per l’effetto, fissò la data per l’esecuzione.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 2058 del 21/10/2022, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE, confermando l’impugnata sentenza e condannando la ricorrente alle spese.
La NBM propone ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, cui resistono i germani NOME e NOME COGNOME con controricorso.
Vi è memoria della ricorrente.
Considerato che:
I motivi sono tutti sostanzialmente sintetizzabili nella omessa applicazione, al caso di specie, dell’art. 27, co. 3, l. 392/78 e, quindi, della durata novennale delle locazioni di immobili ad uso diverso (trattoria).
Tali motivi sono così strutturati:
Art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. (27, co. 3, l. 392/78): l’interpretazione che avrebbe dato la Corte d’Appello di Bologna partirebbe dall’erroneo presupposto che ‘E’ assorbente e risolutiva l’eccezione di irretroattività della norma di cui all’art. 27 L. 392/78, nella versione modificata dal D.Lgs. 79/11 art 52, la cui applicabilità è l’oggetto del rapporto controverso’;
Art. 360, co. 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. (27, co. 3, l. 392/78 e 1786 c.c.): sulla scorta di tale eccezione, i Giudici dell’appello avrebbero ritenuto ‘di superare l’esigenza di riaffrontare la tematica dell’ermeneutica dell’art. 27 in relazione alla dibattuta interpretazione da dare al concetto di ‘imprese assimilate ai sensi dell’art. 1786 CC (…)’, rimanendo secondario scrutinare se le trattorie, come quella oggetto del presente contratto, rientrino o meno nella predicata ‘assimilazione’ e se la caratteristica della fornitura di alloggio sia un discrimine di fatto rilevante o meno;
Art. 360, co. 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. (1597 c.c.) da ciò la Corte bolognese, a cascata, ne avrebbe fatto conseguire: ‘Nondimeno, la cessazione legale della locazione alla scadenza dei dodici anni non è superata neanche dalla tesi della rinnovazione tacita per fatti concludenti, già asserita dalla ricorrente ed insistita in questa sede, senza apportare alcun elemento di critica ulteriore a quanto anche sul punto ampiamente ricostruito dal primo decidente’ . Ne seguiva, ancora:
Art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. (5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010): la mancata applicazione della norma che impone la mediazione obbligatoria sul punto decisivo, pena la improcedibilità della domanda (e del giudizio tutto), nonché
Art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. (29 co. 2 L. 392/1978) sul punto del mancato riconoscimento della illiceità della disdetta la Corte avrebbe omesso qualsiasi decisione.
Il ricorso – come eccepito dalla parte resistente – presenta un profilo di inammissibilità, cioè quello relativo all’inosservanza dell’art. 366 n. 3 c.p.c.,
atteso che l’esposizione del fatto sostanziale e processuale risulta del tutto insufficiente. Infatti, ci si limita a riportare le conclusioni prese in primo grado, omettendo di riferire sebbene sommariamente i fatti costitutivi della domanda. Si omette di riferire, sempre sommariamente, sia le difese della parte convenuta, sia i contenuti del dibattito inerente allo svolgimento del processo di primo grado, sia il tenore della motivazione della sentenza di primo grado, sia infine il tenore dell’appello e delle difese avversarie. E’ palese il contrasto con il seguente consolidato principio di diritto seguito da questa Corte: ‘Il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. – secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa – non risponde ad un’esigenza di mero formalismo, bensì a consentire alla S.C. di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti; per soddisfare tale requisito occorre che il ricorso per cassazione contenga, in modo chiaro e sintetico, l’indicazione delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello e, infine, del tenore della sentenza impugnata’ ( ex multis, Cass., S.U. n. 2602 del 20/2/2003 e tra le più recenti Cass., 3, n. 1352 del 12/1/2024).
In ogni caso, se fosse possibile passare all’esame dei motivi, varrebbe quanto segue.
Con il primo motivo -con cui si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 27, co. 3 l. 392/78 nella versione modificata dall’art. 52 D.lgs. 79/11 in relazione all’ art. 360 n. 4 c.p.c.- la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma l’irretroattività dell’indicata norma e dunque l’inapplicabilità della stessa al caso di specie, pena la violazione dell’art. 11 disp. prel. c.c. La statuizione sarebbe erronea perché dovrebbero
dirsi esclusi dalla retroattività soltanto i rapporti chiusi e non anche quelli, come il presente, già in essere al momento dell’entrata in vigore della norma; peraltro, il principio di irretroattività della legge, in quanto privo di rango costituzionale, sarebbe derogabile. E in ogni caso il principio da applicare sarebbe già implicitamente ricavabile dall’art. 1786 c.c.
Il motivo è inammissibile, in primo luogo, perché assume come oggetto di critica le sole tre righe della parte finale di p. 4 ed altrettante della pagina successiva senza considerare quanto la corte diffusamente argomenta in tutto il resto della sentenza. L’impugnazione riguarda infatti ed esclusivamente il seguente passaggio argomentativo: ‘Ora, a prescindere dall’osservare che la società RAGIONE_SOCIALE si sia limitata, in sostanza, ai limiti della inammissibilità ex art 342 cpc, a riproporre pedissequamente quanto dedotto in primo grado, senza proporre specifiche critiche reali in relazione a quanto accertato dal tribunale, la locuzione normativa aggiunta nell’art. 27, comma 3) è stata introdotta dall’art. 52, comma 1, allegato 1, al d.lgs. n. 79 del 23 maggio 2011, entrato in vigore nel giugno successivo. Il contratto in questione era stato stipulato nel 2007, quattro anni prima, quando indubbiamente la durata legale era di sei anni, anche secondo la medesima appellante. Ciò in forza del principio fondamentale di cui all’art. 11 delle preleggi per il quale la legge non dispone che per l’avvenire, e non ha effetto retroattivo’ . Nulla osserva il ricorrente in relazione al resto della assai diffusa e puntuale motivazione dell’impugnata sentenza, così incorrendo in inammissibilità alla stregua del principio di diritto di cui a Cass., 3, n. 359 del 2005 (sempre confermato da questa Corte con numerose pronunce fino alla recente Cass., 3, n. 1341 del 12/1/2024) secondo cui ‘Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i
motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ.’
In secondo luogo, vi è inammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c., giacché la retroattività della norma del comma 3 dell’art. 27 è stata già esclusa da Cass., 3, n. 8558 del 29/5/2012, ribadita da Cass., 3, n. 13933 del 7/7/2016 e da Cass., 3 n. 2706 del 2017, tutte convergenti nell’affermare che le locazioni di immobili stipulate prima dell’entrata in vigore dell’art. 52 del d.lgs. n. 79 del 2011 (Codice del Turismo), non sono soggette alla durata minima novennale prevista dall’art. 27 della l. n. 392 del 1978 per le locazioni di immobili destinati ad uso alberghiero, trattandosi di attività non assimilabili e la cui equiparazione, introdotta dal citato art. 52 del codice del turismo, non ha effetto retroattivo. La norma di cui all’art. 52 del Codice del Turismo non può essere affatto qualificata quale norma meramente interpretativa, trattandosi di norma innovativa, posta in un “Codice”, di stretta interpretazione e certamente irretroattiva.
Il motivo omette del tutto di confrontarsi con detta giurisprudenza, facendo invece riferimento ad un precedente di merito del Tribunale di Siena, privo di alcuna attinenza al caso in esame (atteso che richiama l’art. 1786 c.c. per sostenere la tesi dell’assimilazione delle trattorie agli alberghi, che non poteva che valere ai soli fini dell’applicazione della disciplina del contratto di deposito).
Quanto osservato rende manifestamente privo di fondamento, se non assorbito, l’argomentare del secondo motivo con il quale il ricorrente assume che la sentenza sia da cassare per aver violato l’art. 27 L. n. 392/78 al lume dell’art. 1786 c.c. La sentenza, dopo aver diffusamente motivato
sull’irretroattività dell’art. 52 Codice Turismo, afferma a p. 5: ‘Il punto è tranchant e, per la ragione più liquida, consente di superare l’esigenza di riaffrontare la tematica dell’ermeneutica dell’art. 27 in relazione alla dibattuta interpretazione da dare al concetto di ‘ imprese assimilate ai sensi dell’art. 1786 CC (…) ‘, rimanendo secondario scrutinare se le trattorie, come quella oggetto del presente contratto, rientrino o meno nella predicata ‘assimilazione’ e se la caratteristica della fornitura di alloggio sia un discrimine di fatto rilevante o meno.
Con il terzo motivo, che prospetta la violazione con riguardo all’art. 360, co. 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. dell’art. 1597 c.c, impugna il capo di sentenza secondo cui: ‘Nondimeno, la cessazione legale della locazione alla scadenza dei dodici anni non è superata neanche dalla tesi della rinnovazione tacita per fatti concludenti, già asserita dalla ricorrente ed insistita in questa sede, senza apportare alcun elemento di critica ulteriore a quanto anche sul punto ampiamente ricostruito dal primo decidente’.
Il motivo, che si dilunga da p. 8 a p. 11 del ricorso ad illustrare le ragioni della rinnovazione tacita del contratto, è nuovamente inammissibile perché non si confronta ma ignora la motivazione resa dalla sentenza impugnata, nel senso che non la considera e dunque non la critica. Inoltre, sollecita una rivalutazione della vicenda in fatto, così esorbitando sia dal dedotto vizio in iure , sia dal paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Con il quarto motivo si prospetta, ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c. la mancata applicazione dell’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010, norma che impone la mediazione obbligatoria sul punto decisivo, pena la improcedibilità della domanda (e del giudizio tutto). Con esso si censura il capo della sentenza impugnata (p. 7) secondo cui ‘A ben vedere, non ricorrevano ragioni per le quali il giudice avrebbe dovuto mandare nuovamente le parti dinnanzi ad un organismo all’uopo individuato, quando le stesse avevano già, senza alcun esito, partecipato ad altra obbligatoria mediazione avente ad oggetto le medesime questioni della durata del contratto, attualmente riproposte all’odierno gravame.’
Ebbene, il ricorrente, nel censurare tale statuizione, viola l’art. 366 n. 6 c.p.c., atteso che, nel sostenere che ‘le questioni non sono le medesime’, ragiona di ‘punti …distinti’ in modo del tutto generico e senza fornire l’indicazione specifica degli atti dai quali tali non meglio identificati punti dovrebbero risultare.
Con il quinto motivo si deduce che, in violazione dell’art. 29 co. 2 L. 392/1978 con riguardo all’art. 360, co. 1, nn. 3 e 4 c.p.c., la Corte avrebbe omesso qualsiasi decisione sulla questione della disdetta.
Il motivo, supponendo la durata novennale secondo l’innovazione del comma 3 dell’art. 27, una volta che, all’esito della inammissibilità dei primi due motivi, è esclusa l’applicabilità di detta norma, rimane assorbito.
Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, e la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di una somma a titolo di contributo unificato, pari a quella versata per il ricorso, se dovuta.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 7.000 (oltre € 200 per esborsi), più accessori e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile del 10 ottobre 2024
Il Presidente NOME COGNOME