Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 489 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 489 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10189/2023 R.G. proposto da:
NOMECOGNOME rappresentato e difeso da ll’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE con procura in calce al ricorso ed elettivamente domiciliato a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende sempre in forza di legge;
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di BARI n. 1596/2022 depositato il 24.2.2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9.7.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con decreto n. 2885/2022 del 9.9.2022 il Consigliere delegato della Corte d’Appello di Bari, accogliendo parzialmente la domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata della procedura fallimentare della RAGIONE_SOCIALE (aperta con sentenza del Tribunale di Bari n.48/2008 del 10.4.2008 e chiusa il 26.10.2021), nella quale -a seguito di accordo transattivo –NOME NOME era stato ammesso al passivo il 17.7.2014 in via privilegiata per un credito di lavoro di € 84.903,86 a fronte di un’iniziale sua richiesta di ammissione per € 169.807,72, riconosceva una durata illegittima della procedura di un anno, dalla data di ammissione al passivo alla data di chiusura del fallimento, e liquidava a favore del COGNOME un indennizzo di € 400,00, oltre interessi legali dalla domanda e spese processuali, liquidate in € 62,66 per spese vive ed € 225,00 per compensi oltre accessori.
Proponeva opposizione ex art. 5 ter L. 89/2001 nei confronti del Ministero della Giustizia il COGNOME che chiedeva di computare la durata irragionevole della procedura dalla data della domanda di ammissione al passivo (8.2.2010) e non dall’ammissione del 17.7.2014, di applicare un moltiplicatore annuo di € 800,00 per i primi tre anni, con aumento del 20% per ciascuno dei tre anni successivi, e non di € 400,00, o di riconoscere gli interessi maturati sul credito ammesso al passivo nel corso della procedura fallimentare, indicati in € 8.795,09, e di liquidare per le spese processuali della fase monitoria, nell’ambito dello scaglione per le
cause di valore fino ad € 5.200,00, l’importo massimo dei compensi di € 810,00, o almeno quello medio di € 450,00.
La Corte d’Appello di Bari in composizione collegiale, col decreto n. 533/2023 del 24.2.2023, nella resistenza del Ministero, accoglieva parzialmente l’opposizione, computando la durata irragionevole dalla data della domanda di ammissione al passivo alla chiusura del fallimento (sei anni), utilizzando il moltiplicatore di € 500,00 annui per i primi tre anni e di € 600,00 per i successivi anni, liquidando al NOME l’indennizzo di € 3.300,00 oltre interessi legali dalla domanda del 13.4.2022, e quanto alle spese processuali, € 546,00 per compensi ed € 62,66 per spese per la fase monitoria, ed € 1.250,60 per compensi ed € 27,00 per spese per la fase di opposizione, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%.
Avverso il decreto collegiale della Corte d’Appello di Bari ha proposto ricorso a questa Corte, notificato al Ministero della Giustizia il 26.4.2023, NOME NOMECOGNOME affidato a tre motivi, ed il Ministero ha notificato controricorso, contenente anche ricorso incidentale il 3/13.6.2023, con un unico motivo.
Il COGNOME ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c. La causa è stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 9.7.2024.
Preliminarmente va esaminato, per ragioni logiche, il ricorso incidentale del Ministero della Giustizia, inerente alla questione del computo della durata irragionevole del giudizio presupposto, incidente anche sull’ammontare dell’indennizzo richiesto dal COGNOME
Si duole il Ministero della Giustizia, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 della L. n. 89/2001 e 75 c.p.c., sostenendo che il periodo di durata del giudizio ai fini del computo dell’indennizzo andava calcolato, non dalla domanda di ammissione al passivo fallimentare del NOME del febbraio 2010, che era stata presentata per
l’esorbitante credito di € 169.807,72, ma dall’effettiva ammissione al passivo del minor credito di € 84.903,86, a seguito di opposizione allo stato passivo, avvenuta nel luglio 2014, per cui scomputando il periodo di durata ragionevole di sei anni, e di tre mesi per il periodo di sospensione per la pandemia Covid, la durata irragionevole andava calcolata in un anno circa, come avvenuto in fase monitoria, e l’indennizzo spettante andava calcolato in € 400,00, e non in € 3.300,00. Ad avviso del Ministero non poteva essere considerato il periodo intercorso tra la domanda di ammissione al passivo fallimentare e la data di effettiva ammissione al passivo, giacché in detta fase il credito doveva essere considerato ancora controverso.
Va anzitutto esclusa, secondo la Corte, l’eccepita inammissibilità -da parte del ricorrente principale -del controricorso e ricorso incidentale dell’Avvocatura dello Stato in quanto manoscritto e poi riprodotto in copia telematica prima della notifica e del deposito, e comprendente, nella copia notificata, alcune pagine in bianco.
Premesso, infatti, che la conformità della copia del controricorso all’originale non è stata contestata, il testo manoscritto redatto in caratteri stampatello e non col computer, poi fotocopiato insieme ad alcune parti prestampate, pur avendo, per via dell’assemblaggio compiuto, una veste grafica inelegante, è comunque comprensibile e chiaro nel suo contenuto e presenta i requisiti degli articoli 365, 366, 366 bis e 370 c.p.c., per cui non è ravvisabile un vizio formale e non stato leso il diritto di difesa del ricorrente principale, ed i fogli bianchi che separano le parti manoscritte nel controricorso notificato al NOMECOGNOME non sono riempite di contenuti nella copia del controricorso utilizzata per l’iscrizione a ruolo dal Ministero.
Il ricorso incidentale è comunque da ritenere inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis n. 1) c.p.c., in quanto il decreto impugnato si è conformato, nel computare la durata del giudizio presupposto
costituito da una procedura fallimentare alla giurisprudenza di questa Corte, che fa decorrere il termine relativo dalla domanda di ammissione al passivo fallimentare, con la quale si instaura il rapporto processuale tra le parti, piuttosto che dalla successiva data dell’ammissione del credito al passivo; inoltre, non sono stati offerti elementi che giustifichino un mutamento di tale consolidato orientamento.
Ai fini del calcolo del termine di cui all’art. 2, comma 2 -bis, della L.n. 89 del 2001 (secondo cui si considera rispettato il termine ragionevole di durata del processo, “se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”), questa Corte si è infatti ormai stabilmente orientata nel senso che, ” ove il processo presupposto sia un procedimento fallimentare, la sua durata, ai fini dell’accertamento in ordine alla violazione del termine ragionevole, deve essere commisurata, per il creditore insinuato, al periodo compreso tra la proposizione della domanda di ammissione al passivo e la distribuzione finale del ricavato “. Invero, la domanda di insinuazione al passivo ” genera la aspettativa di partecipazione al concorso nella prospettiva del migliore soddisfacimento possibile del diritto di credito fatto valere, aprendo quindi una fase processuale che non vi è alcuna ragione di considerare irrilevante, ai fini del calcolo della durata del processo, sino al momento in cui il diritto del creditore sia stato riconosciuto con la ammission e” (vedi tra le molte Cass. ord. 5.7.2024 n. 18232; Cass. ord. 5.1.2024 n. 324; Cass. ord. n. 12861/2022 che prende le distanze dal minoritario orientamento diverso -Cass. n. 21200 del 2018; Cass. n. 964 del 2019 -, recuperando la continuità con le affermazioni degli anni precedenti). È stato di recente sottolineato, dall’ordinanza n. 324 del 5.1.2024 di questa Corte, che la conclusione a cui giunge questo orientamento è ” l’unica coerente con il disposto di cui all’art. 94 L. Fall., secondo cui il ricorso contenente la domanda di ammissione di un credito al passivo
produce di ( rectius gli) effetti della domanda giudiziale per tutto il corso del fallimento ” ed è ” inoltre in linea con le decisioni di questa Corte che, in tema di durata ragionevole delle procedure concorsuali, segnalano la necessità di considerare la procedura unitariamente, tenendo anche conto della proliferazione di giudizi connessi o della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti (Cass. n.23982 del 2017; Cass. n. 9254 del 2012; Cass. n. 8668 del 2012)”.
Si osserva, per completezza, che il motivo contiene un riferimento all’art. 75 c.p.c., relativo alla “capacità processuale”, del tutto inconferente, in quanto sul punto non vi è mai stata questione tra le parti.
2) Col primo motivo di ricorso principale il NOME lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n.5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132 comma secondo n. 2) c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per errata e/o mancante motivazione in fatto ed in diritto e/o per avere reso una mera motivazione apparente.
Si duole il ricorrente principale che l’impugnato decreto, dopo avere richiamato genericamente ‘gli interessi in gioco ‘, non abbia motivato in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 2 bis comma 1 e 2 della L. 89/2001, come modificato dalla L.28.12.2015 n. 208, per la determinazione dell’equo indennizzo (esito del processo, comportamento del giudice e delle parti nel giudizio presupposto, natura degli interessi coinvolti, valore e rilevanza della causa anche in relazione alla condizione personale delle parti), né in relazione al criterio, da lui indicato, del riferimento agli interessi legali maturati sul credito ammesso nel corso della procedura fallimentare, ammontanti ad € 8.795,09, adottando un moltiplicatore di €500,00 annui per i primi tre anni, aumentato ad € 600,00 annui a partire dal quarto anno, e non valorizzando adeguatamente, nella scelta del moltiplicatore annuo, il fatto che si trattasse di un credito
privilegiato per prestazioni di lavoro subordinato di notevole consistenza.
3) Col secondo motivo il ricorrente principale lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 132 comma secondo n. 2) c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, individuato nella mancata valutazione dei criteri invocati dal ricorrente per la liquidazione dell’indennizzo (natura di credito alimentare di lavoro, durata della procedura fallimentare, notevole importo del credito anche se ridotto su base transattiva, ed ammontare degli interessi legali su esso maturati in corso di procedura fallimentare).
I primi due motivi del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente, in quanto entrambi relativi alla motivazione addotta dal decreto impugnato nella scelta del moltiplicatore annuo applicato (€ 500,00 per i primi tre anni ed € 600,00 per i tre anni successivi) per la determinazione dell’indennizzo per l’irragionevole durata della procedura fallimentare.
Va premesso che, quelli richiamati dal ricorrente principale ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., non sono fatti storici decisivi che siano stati oggetto di discussione tra le parti, ma o criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis comma 1 e 2 della L.n.89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, per orientare la scelta del giudice nell’individuazione del moltiplicatore annuo da utilizzare per la determinazione dell’indennizzo tra il minimo di € 400,00 ed il massimo di € 800,00, o un criterio (quello del riferimento agli interessi legali sul credito ammesso al passivo che sarebbero maturati in corso di procedura fallimentare) che é del tutto estraneo ai criteri elencati dalla norma sopra citata, afferendo ad una quantificazione risarcitoria e non ad una determinazione indennitaria.
Va poi evidenziato che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie Cass. sez. un. n. 2767/2023; Cass. sez. un. n. 8053/2014). Nel caso della motivazione apparente, la motivazione pur graficamente presente, è totalmente inidonea ad illustrare le ragioni della decisione adottata (vedi Cass. n. 30759/2023).
Orbene, nel caso di specie, il decreto impugnato ha giustificato la scelta del moltiplicatore annuo di € 500,00 per i primi tre anni, e di € 600,00 per i tre anni successivi, che sono entrambi superiori al minimo previsto dalla L. n. 89/2001 di € 400,00 annui, oltre che col richiamo agli interessi in gioco ed ai criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, anche implicitamente col riferimento specifico all’entità del credito ed alla sua natura privilegiata (credito di lavoro e TFR) ed alla durata del procedimento presupposto, circostanze che hanno indotto ad attribuire un moltiplicatore annuo superiore al minimo e ad aumentarlo a partire dal quarto anno, sicché una motivazione, sia pure succinta, come richiesto dalla
materia trattata, è stata fornita, e l’eventuale sua insufficienza non è più sindacabile.
Ad ogni modo, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, la determinazione discrezionale del moltiplicatore annuo in materia di equa riparazione è frutto di un giudizio di fatto equitativo, insindacabile in sede di legittimità se compreso tra il minimo (€400,00) ed il massimo (€ 800,00) previsto dalla L. n. 89/2001 (vedi in tal senso Cass. n. 33470/2023; Cass. 14.10.2019 n.25837; Cass. n. 14521/2019), e nel nostro caso il moltiplicatore annuo è stato fissato in € 500,00 per i primi tre anni ed in € 600,00 a partire dal quarto anno, in applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001.
Col terzo motivo il ricorrente principale lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli artt. 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ. per la liquidazione di compensi in misura inferiore ai minimi di legge e senza la maggiorazione prevista dall’art. 4 comma 1 bis del D.M. n. 55/2014.
Il ricorrente principale, nel lamentare la violazione dei minimi tariffari (indicati in € 1.995,40 comprendendovi anche € 437,40 di maggiorazione ex art. 4 comma 1 bis del D.M. n. 55/2014), con lesione del decoro professionale, richiede per la fase di opposizione, la liquidazione dei compensi secondo i parametri medi tariffari della tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022 (€ 536,00 per fase di studio, € 536,00 per fase introduttiva, € 992,00 per fase di trattazione, € 851,00 per fase decisionale, ed € 874,50 per la maggiorazione ex art. 4 comma 1 bis del D.M. n. 55/2014, per complessivi € 3.789,50), richiamando l’orientamento espresso dall’ordinanza della Corte di Cassazione del 21.1.2019 n. 1522, a favore dell’applicazione dei parametri medi in caso di mancata motivazione dello scostamento al ribasso da tali parametri.
Il NOME richiede poi, come anticipato, anche la maggiorazione del 30% dei compensi della fase di opposizione, ex art. 4, comma 1 bis del D.M. n.55/2018, per avere fatto uso nella redazione del ricorso in opposizione, di tecniche informatiche destinate ad agevolare il Giudice nella consultazione o nella fruizione di atti ed allegati nell’ambito del processo civile telematico con la predisposizione di links in diverso colore, che consentivano l’automatica apertura e disponibilità per la lettura dei vari documenti richiamati.
Ritiene la Corte, quanto alla lamentata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli artt. 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ., per avere la Corte d’Appello liquidato in aggiunta alla liquidazione della fase monitoria (€ 62,66 per spese ed € 546,00 per compensi oltre accessori), per la fase di opposizione, oltre alle spese vive di € 27,00, compensi per €1.250,60, asseritamente inferiori ai minimi previsti dalla tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 147/2022, per le cause di valore compreso tra € 1.101,00 ed €5.200,00, applicabile in ragione dell’indennizzo riconosciuto dovuto di € 3.300,00, che la doglianza sia infondata.
Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, l’opposizione di cui all’art. 5 -ter della L. n. 89 del 2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo, per cui ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, in caso di suo accoglimento, senza la necessaria separazione della liquidazione dei compensi per la fase monitoria e per l’opposizione, e senza vincoli della
liquidazione compiuta in fase monitoria (vedi Cass. ord. 26.4.2024 n. 11246; Cass. ord. n.26398/2023; Cass. ord n.26517/2023; Cass. ord. n. 23826/2023; Cass. ord. n. 16803/2023; Cass. ord. n. 9728/2020; Cass. ord. 26.5.2020 n. 9728).
Nella specie, i compensi liquidati dal decreto impugnato per la fase di opposizione, di € 1.250,60, sono stati aumentati per la fase monitoria di € 546,00, e sono stati quindi liquidati, per l’intera controversia unitaria derivata dall’opposizione, nel complessivo importo di € 1.796,60, laddove il compenso minimo, secondo la tabella 12 sulle cause civili contenziose, nella specie applicabile, allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022, in relazione allo scaglione delle cause tra € 1.101,00 ed € 5.200,00 individuato in base all’indennizzo riconosciuto dovuto di € 3.300,00, ammontava ad € 1.458,00 (€ 268,00 per fase di studio, € 268,00 per fase introduttiva, €496,00 per fase di trattazione ed € 426,00 per fase decisoria), non potendosi poi tener conto, nell’individuazione del minimo tariffario, di una maggiorazione per il collegamento ipertestuale ex art. 4 comma 1 bis del D.M. n.55/2018, che non è stata concessa e che non è automatica, per cui non vi è stata alcuna violazione dei minimi tariffari lesiva del decoro della professione di avvocato.
Dovendosi poi applicare per la liquidazione, ratione temporis, la tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022, una motivazione specifica era richiesta solo per discostarsi dai minimi e dai massimi tabellari della forcella, e non per gli scostamenti dai valori medi, come era invece stabilito dalla precedente tariffa forense (vedi in tal senso Cass. ord. 7.1.2021 n. 89; Cass. ord. 10.5.2019 n. 12537; Cass. 11.12.2017 n. 29606; Cass. ord. 9.11.2017 n. 26608; Cass. 31.1.2017 n. 2386; in senso contrario l’isolata e minoritaria Cass. ord. 21.1.2019 n. 1522 richiamata nel ricorso), per cui neppure sotto questo profilo è
ravvisabile un vizio motivazionale poiché l’importo dei compensi liquidati è superiore al minimo ed inferiore al massimo tariffario.
Quanto alla richiesta di aumento del compenso per il giudizio conseguente all’opposizione per il collegamento ipertestuale ai sensi dell’art. 4, comma 1 bis del D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 37/2018, il COGNOME che non ha neppure indicato in quale atto abbia avanzato la richiesta di aumento del compenso, con difetto di autosufficienza, ha dato per scontato che l’aumento debba essere concesso dal giudice in via automatica, e nulla di specifico ha dedotto circa le modalità di attuazione del collegamento ipertestuale concretamente seguite.
Secondo il nuovo testo dell’art. 4, comma 1 bis del D.M. n. 55/2014 introdotto dal D.M. n. 37/2018, qui applicabile, trattandosi di liquidazione di compensi successiva al 27.4.2018 ‘ Il compenso determinato tenuto conto dei parametri generali di cui al comma 1 è ulteriormente aumentato fino al 30 per cento quando gli atti depositati con modalità telematiche sono redatti con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto’.
Da tale disposizione si ricava che il ricorrente, oltre a precisare la sede della formulazione della richiesta di aumento, avrebbe dovuto allegare nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, e già prima nella richiesta di aumento, che gli atti erano stati da lui depositati telematicamente con tecniche informatiche idonee ad agevolarne la consultazione o la fruizione e, in particolare, in modo da consentire la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto, ma il ricorrente si è limitato ad allegare di avere redatto il ricorso in opposizione coi link che consentivano di cliccarci sopra e di accedere ai vari documenti richiamati nel ricorso, non consentendo quindi a questa Corte di
verificare se le modalità ipertestuali di redazione degli atti in concreto seguite fossero tali da agevolare concretamente l’esame separato degli atti processuali dallo stesso formati e degli allegati richiamati nei suoi atti processuali.
Quanto alle spese del giudizio di legittimità, la reiezione sia del ricorso principale, che di quello incidentale, giustifica la compensazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso principale ed il ricorso incidentale, dichiarando compensate le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda