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Donazione indiretta: il versamento su conto cointestato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22613/2025, ha stabilito che il versamento di una somma di denaro su un conto cointestato tra coniugi non costituisce automaticamente una donazione indiretta. Per qualificarla come tale, è necessario dimostrare l’intenzione specifica del disponente di arricchire l’altro (animus donandi). Nel caso esaminato, il versamento è stato considerato un contributo alle spese familiari, respingendo la richiesta di collazione ereditaria avanzata dal figlio della defunta contro il secondo marito.

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Donazione Indiretta e Conto Cointestato: La Cassazione Fa Chiarezza

Il versamento di denaro su un conto corrente cointestato tra coniugi non è sempre una donazione indiretta. Per considerarlo tale, è fondamentale provare l’intenzione specifica di donare, il cosiddetto animus donandi. Questa è la conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione, Sezione Civile, con la recente sentenza n. 22613 del 2025, che ha affrontato un complesso caso di divisione ereditaria.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine dalla disputa ereditaria tra il figlio di primo letto di una donna deceduta e il secondo marito di quest’ultima. Il marito aveva avviato una causa per lo scioglimento della comunione ereditaria. Il figlio, costituitosi in giudizio, aveva chiesto la collazione di una somma di denaro, sostenendo che si trattasse di una donazione indiretta che il marito aveva ricevuto dalla defunta moglie.

Nello specifico, la donna aveva venduto un immobile di sua proprietà personale e aveva versato il ricavato, circa 304 milioni di vecchie lire, su un conto corrente cointestato con il marito. Tali fondi erano stati poi utilizzati per acquistare titoli e fondi di investimento, anch’essi cointestati. Il figlio sosteneva che questa operazione costituisse un atto di liberalità volto ad arricchire il patrigno, e che quindi quella somma dovesse rientrare nell’asse ereditario da dividere.

Il Percorso Giudiziario e la Decisione della Corte

Dopo un iter processuale complesso, che ha visto un primo rigetto in tribunale e un successivo rinvio dalla Cassazione, la Corte d’Appello di Milano ha nuovamente respinto le richieste del figlio. La Corte territoriale ha evidenziato come, nel corso di un matrimonio durato oltre 37 anni, sul conto cointestato fossero confluite somme di denaro di entrambi i coniugi. Il versamento in questione, secondo i giudici di merito, non era sorretto da un intento di donazione, ma rappresentava un semplice contributo della moglie alle spese e al mantenimento della famiglia. Di conseguenza, non poteva essere qualificato come donazione indiretta.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul ricorso del figlio, ha confermato la decisione della Corte d’Appello, rigettando tutti i motivi di gravame. Le motivazioni dei giudici di legittimità sono cruciali per comprendere i confini della donazione indiretta in ambito familiare.

L’Onere della Prova dell’Animus Donandi

Il punto centrale della sentenza è la necessità di dimostrare l’elemento soggettivo della donazione, l’animus donandi. La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il semplice versamento di denaro di provenienza personale di un coniuge su un conto cointestato non è sufficiente a integrare una donazione indiretta della metà della somma all’altro cointestatario.

Chi intende far valere la donazione ha l’onere di provare che il disponente avesse la specifica intenzione di arricchire l’altro per puro spirito di liberalità. Nel caso di specie, questa prova è mancata. Anzi, il contesto di un lungo rapporto matrimoniale e la prassi consolidata di contribuire entrambi alla gestione economica familiare hanno portato i giudici a escludere tale intento, qualificando il versamento come adempimento dell’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia.

La Gestione degli Investimenti e l’Esclusione della ‘Mala Gestio’

Il figlio aveva anche lamentato un danno derivante dalla perdita di valore degli investimenti dopo l’apertura della successione, accusando il patrigno di mala gestio. Anche su questo punto, la Corte ha dato torto al ricorrente. I giudici hanno ritenuto che la svalutazione dei prodotti finanziari non fosse imputabile a una cattiva gestione, ma a eventi di mercato esterni e imprevedibili, come la crisi finanziaria seguita agli attentati del 2001. Pertanto, nessuna responsabilità poteva essere addebitata al marito.

Le Conclusioni

La sentenza in esame offre un importante chiarimento pratico: la cointestazione di un conto corrente è uno strumento flessibile, ma non presume automaticamente la volontà di donare. In un contesto familiare e matrimoniale, i versamenti effettuati da un coniuge con denaro personale possono essere interpretati come un contributo alla vita comune. Per far valere una donazione indiretta in sede di successione, è indispensabile fornire prove concrete dell’intento liberale del defunto, un compito che, come dimostra questo caso, può rivelarsi tutt’altro che semplice.

Un versamento di denaro personale su un conto cointestato tra coniugi è automaticamente una donazione indiretta?
No. Secondo la sentenza, non è un automatismo. Per configurare una donazione indiretta è necessario dimostrare l’esistenza dell'”animus donandi”, ovvero l’intenzione specifica di arricchire l’altro coniuge per spirito di liberalità. In assenza di tale prova, il versamento può essere considerato un contributo alle spese familiari.

Chi ha l’onere di provare che un versamento su conto cointestato era una donazione?
L’onere della prova spetta a chi sostiene l’esistenza della donazione. Nel caso esaminato, spettava al figlio dimostrare che la madre, versando il denaro sul conto cointestato, avesse l’intenzione di donare la metà della somma al marito, e non semplicemente di contribuire alla gestione economica della famiglia.

Se degli investimenti ereditari perdono valore dopo la morte del titolare, l’erede che li gestisce è sempre responsabile?
No, non sempre. La sentenza chiarisce che la responsabilità per la perdita di valore sorge solo in caso di “mala gestio” (cattiva gestione). Se la perdita è dovuta a fattori esterni e all’andamento negativo del mercato, come una crisi finanziaria generale, non può essere addebitata alcuna colpa all’erede che gestiva i beni, escludendo così il diritto a un risarcimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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