Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32661 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32661 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 28377-2020 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
-controricorrente –
nonché contro
COGNOME
avverso la sentenza n. 929/2020 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/03/2020;
lette le memorie del controricorrente;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. COGNOME NOME conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Vicenza COGNOME NOME e la di lui madre COGNOME NOME NOME al fine di far dichiarare la nullità, o in subordine l’inefficacia ex art. 2901 c.c., dell’atto di cessione del 3 aprile 2012, con il quale il COGNOME aveva alienato alla madre, dissimulando una donazione o un atto a titolo gratuito, le proprie quote di partecipazione nella società RAGIONE_SOCIALE, specificando che era creditore del COGNOME e che aveva invano tentato di sottoporre a pignoramento le dette quote.
Si costituivano i convenuti che insistevano per il rigetto della domanda, specificando che in realtà l’atto impugnato costituiva la formalizzazione di una precedente cessione risalente al 2004, allorché risultava essere anche stato corrisposto il prezzo.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda e, previo accertamento della simulazione relativa della cessione, in quanto dissimulante una donazione, ne dichiarava la nullità per difetto della forma prescritta per legge.
Avverso tale sentenza proponeva appello la COGNOME cui resisteva l’attore.
La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 929 del 16 marzo 2020 ha rigettato l’appello.
Rilevava che l’atto notarile impugnato era stato rogato il 3 aprile 2012, appena il giorno dopo la notifica dell’atto di pignoramento al cedente da parte dello COGNOME (creditore per effetto di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo). E’ pur vero che nell’atto era indicato l’assegno circolare con il quale già nel 2004 sarebbe stato pagato il prezzo, ma tuttavia non era precisato quale fosse la provvista, né la parte appellante si era premurata di dimostrare che la stessa provenisse dal suo patrimonio.
Inoltre, nell’atto il cedente aveva falsamente dichiarato di avere la libera disponibilità delle quote, nonostante l’azione esecutiva intrapresa dall’attore, come del pari era stato falsamente dichiarato che non vi era alcun contenzioso in atti.
La tesi secondo cui la cessione era la formalizzazione di una precedente cessione già concordata in forma orale nel 2004 non aveva poi trovato conferma nelle risultanze istruttorie, essendo del tutto inattendibili e generiche le deposizioni dei testi, che non avevano assistito direttamente all’accordo fra madre e figlio, né alla consegna dell’assegno, essendosi limitati a riferire circostanze apprese de relato dai genitori. Inoltre, la detta ricostruzione collideva con il fatto che il COGNOME, nonostante la cessione, avesse continuato a ricoprire la carica di vicepresidente del CDA della società sino all’aprile del 2012.
Infine, non poteva reputarsi che vi fosse stata un’indebita inversione dell’onere della prova, atteso che, una volta offerta da parte del terzo la prova in via presuntiva della simulazione, è onere dell’acquirente dimostrare che invece l’atto era oneroso e che vi era stato l’effettivo pagamento del prezzo.
L’assenza di tale prova induceva quindi a reputare che l’atto fosse stato concluso a titolo gratuito e che fosse sussumibile in una
donazione, affetta da nullità, in assenza della redazione con le forme prescritte per la donazione.
Quanto al motivo di appello che investiva la corretta determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione delle spese di lite, la sentenza rilevava che in caso di azione revocatoria il valore della lite si determina sulla base del credito per il quale si agisce, il che induceva a reputare corretto l’operato del Tribunale.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso, affidato a sei motivi, COGNOME NOMECOGNOME
COGNOME NOME resiste con controricorso, illustrato da memorie.
COGNOME NOME non ha svolto difese in questa fase.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 132 co. 2, n. 4, c.p.c. per assoluta mancanza di motivazione.
Si deduce che la Corte d’Appello ha rigettato il gravame con una serie di affermazioni generiche, venendo meno in tal modo al dovere di offrire una motivazione adeguata.
Il motivo è evidentemente privo di fondamento, dovendo di converso reputarsi che la sentenza impugnata abbia ampiamente assolto al dovere del cd. minimo costituzionale della motivazione, come chiaramente delineato nella giurisprudenza di questa Corte a far data da Cass. S.U. n. 8053/2014.
La sentenza gravata, con motivazione sintetica, ma connotata da intrinseca coerenza e logicità, ha disatteso la censura formulata in appello circa la impossibilità di ravvisare un’ipotesi di simulazione relativa oggettiva, consistita nell’avere apparentemente concluso una cessione di quote societarie, ponendo in essere in realtà una donazione, ed al fine di sottrarre le quote cedute all’aggressione
del creditore, rilevando come la prova della simulazione (che da parte del terzo creditore può essere liberamente fornita, anche a mezzo testimoni ovvero elementi presuntivi, come appunto ribadito dall’art. 1417 c.c.) emergeva da plurimi elementi di carattere indiziario.
Ha sottolineato come, oltre al rapporto di filiazione esistente tra le parti (che obiettivamente costituisce un primo indizio nel senso della natura liberale dell’atto), si evidenziava l’immediato compimento dell’atto subito dopo il tentativo di pignoramento delle quote da parte dell’attore, la non veridicità delle dichiarazioni rese dalle parti circa la libertà delle quote e l’assenza di un contenzioso in atto, pur essendo stata già intrapresa l’azione esecutiva del terzo, l’assenza di prova circa la riferibilità dell’assegno, emesso nel lontano 2004 (ben otto anni prima della cessione), ed indicato nell’atto come strumento di pagamento del prezzo, a disponibilità della cessionaria, reputando che perciò appariva fondata la deduzione del creditore secondo cui la cessione a titolo oneroso era solo apparente, e che pertanto costituiva un tentativo di sottrarre le quote all’azione esecutiva.
Non ha poi mancato di esaminare la tesi difensiva dei convenuti, fondata sull’affermazione secondo cui la cessione era in realtà già intervenuta in forma orale nel 2004, evidenziando come la prova di tale precedente intesa non fosse stata offerta, stante la non univocità delle deposizioni dei testi escussi, che non avevano avuto conoscenza diretta della cessione, se non de relato e da soggetti al loro volta interessati, e mancando, come detto, la possibilità di riferire per l’assegno circolare del 2004, ind ividuato come mezzo di pagamento, la provenienza della provvista dal patrimonio della cessionaria, completando il proprio ragionamento
con l’ulteriore argomento indiziario, idoneo a contrastare la tesi difensiva dei convenuti, secondo cui non trovava adeguata giustificazione il fatto che il cedente, anche dopo il 2004, avesse continuato a ricoprire la carica di vicepresidente del CDA della società.
La sentenza ha, quindi, provveduto ad una analitica valutazione degli elementi indiziari e probatori messi in campo dalle parti, optando per la tesi secondo cui quelli addotti da parte attrice erano idonei ad offrire la prova presuntiva, connotata dai carattere di cui all’art. 2729 c.c., della natura relativamente simulata dell’atto di cessione di quote, per il carattere liberale dell’atto, in assenza della prova del pagamento del prezzo, e rispondendo l’alienazione, senza un pagamento del corrispettivo, alla finalità, dedotta in citazione dall’attore, di sottrarre il bene alla possibilità di aggressione da parte dei creditori.
Il secondo motivo di ricorso denuncia parimenti la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. per motivazione contraddittoria.
Il terzo motivo, che la stessa ricorrente propone debba essere congiuntamente trattato con il secondo, lamenta la violazione e falsa applicazione della legge n. 89 del 1913, artt. 47, 48 e 50, nonché degli artt. 782, 1414 e 2699 c.c., sul presupposto che la sentenza sarebbe del tutto carente di motivazione nell’avere sostenuto che si sia al cospetto di un atto a titolo gratuito, e nel ritenere che lo stesso sia affetto da nullità, in quanto l’atto notarile non sarebbe stato redatto nel rispetto dei requisiti di forma previsti in tema di donazione.
Anche tali motivi vanno disattesi.
Nel rinviare a quanto esposto in occasione del primo motivo circa l’insussistenza dell’anomalia motivazionale del provvedimento gravato, la sentenza stessa, alla luce dei plurimi elementi indiziari che deponevano per l’impossibilità di poter ravvisare la natura onerosa dell’atto di cessione, tenuto conto del vincolo di parentela che unisce le parti, della finalità di depauperamento del patrimonio del cedente, ha optato per la natura dissimulata di una donazione, e quindi per la necessità, affinché il negozio potesse essere reputato munito dei requisiti di forma e di sostanza, come prescritto dall’art. 1414 co. 2 c.c., che anche l’atto notarile di cessione fosse stato redatto nel rispetto delle prescrizioni di forma di cui all’art. 782 c.c.
E’ in tale carenza formale che appunto risiede la conclusione dei giudici di merito circa la nullità dell’atto dissimulato di donazione.
Non è pertanto sindacabile, in quanto frutto di un apprezzamento di merito, operato con motivazione logica e coerente, la conclusione secondo cui il negozio dissimulato fosse a titolo gratuito, e specificamente una donazione, il che imponeva, come detto, la redazione con la forma dell’atto pubblico e con la presenza dei testimoni ai fini della sua validità formale.
Né appare pertinente il richiamo compiuto in ricorso ad un precedente di questa Corte, e precisamente a Cass. n. 20888/2019.
Infatti, ancorché la massima ufficiale possa apparentemente far propendere per la tesi sostenuta dalla ricorrente, secondo cui nel caso di specie non sarebbe necessario il rispetto della forma di cui all’art. 782 c.c. (‘Non ricorre il vizio del negozio di donazione per difetto della forma pubblica quando intervenga la cessione di una quota societaria mediante un’apparente vendita, ma in realtà a
titolo gratuito, potendo piuttosto ricorrere un’ipotesi di donazione indiretta, che però non esige requisiti formali; nella donazione indiretta, infatti, la liberalità si opera, anziché attraverso il negozio tipico di donazione, mediante il compimento di un atto che, pur conservando la forma e la causa ad esso propria, realizza in via mediata l’effetto dell’arricchimento del destinatario, sicché l’intenzione di donare non emerge in via diretta dall’atto utilizzato bensì, in via indiretta, dall’esame delle circostanze del caso concreto’), la stessa, avuto riguardo invece all’effettivo contenuto della decisione, appare in larga parte mentitoria.
Infatti, come è dato leggere nella sentenza citata (cfr. pagg. da 9 a 11), la Corte ha ritenuto che il carattere dissimulato della donazione, a fronte di un’apparente cessione di quote, e la qualificazione dell’atto di alienazione in termini di donazione, imponesse anche in questo caso il rispetto dei requisiti formali imposti per l’atto di donazione, essendo stati pertanto rigettati i motivi di ricorso che intendevano sottrarre l’atto al detto rigore formale.
Diversa soluzione è stata invece assunta, con il richiamo alla diversa figura della donazione indiretta, nel caso di intestazione di quote in occasione della costituzione di una nuova società (cfr. pagg. 11 e ss. della sentenza de qua), in cui l’attribuzione delle quote aveva un antecedente nella messa a disposizione dell’intestatario del denaro necessario, ricorrendo in tal caso il fenomeno dell’intestazione di beni a nome altrui, tramite denaro fornito dal donante al precipuo scopo di favorire l’acquisto.
La massima ufficiale, come detto, non risulta idonea a rappresentare tale distinzione tra le due fattispecie devolute all’esame della Corte, ed ha accomunato in una medesima
conclusione le due diverse ipotesi giudicate, dovendo invece reputarsi che anche in tale precedente resti fermo il principio per cui, ove le parti pongano in essere una donazione dissimulata, ai fini della sua validità è necessario che la forma dell’atto simulato soddisfi i requisiti di forma prescritti dalla legge per le donazioni formali.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., circa l’errata valutazione delle risultanze probatorie.
Si deduce che l’attore non ha fornito alcuna prova del carattere simulato della cessione e che l’assunto dei convenuti era ampiamente supportato dalle deposizioni dei testi escussi, i quali avevano anche confermato la dazione del corrispettivo.
Il giudice di merito ha immotivatamente disatteso le emergenze probatorie incorrendo quindi nella violazione delle norme indicate in rubrica.
Il motivo è inammissibile, in quanto lamenta soltanto l’erronea valutazione di risultanze probatorie.
In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n.
20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).
L’articolazione del motivo, che esordisce proprio con l’affermazione circa l’errata valutazione delle risultanze probatorie, si risolve in una non consentita critica all’esercizio da parte del giudice di merito (ed in maniera conforme nei due gradi) di valutazione delle risultanze probatorie, ed in particolare all’apprezzamento degli elementi indiziari offerti da parte attrice, ed alla sostanziale valutazione di inattendibilità delle deposizioni testimoniali.
Esula pertanto dal limitato spazio nel quale è dato denunciare la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e si risolve in un’inammissibile sollecitazione al giudice di legittimità ad operare un diverso apprezzamento delle risultanze di prova, in quanto quello del giudice di merito viene reputato non appagante.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 1367 c.c., nella parte in cui la Corte d’Appello ha sostenuto che era onere della ricorrente dimostrare il pagamento del prezzo. In tal modo è stato invertito l’onere della prova, che invece imponeva a colui che agisce per la simulazione di doverla provare. Inoltre, in tal modo è stato violato anche l’art. 1367 c.c., che impone un’interpretazione conservativa della volontà delle parti.
Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.
Quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., la sentenza ha fatto corretta applicazione del principio reiteratamente affermato da questa Corte secondo cui qualora l’azione di simulazione proposta dal creditore di una delle parti di un contratto di compravendita immobiliare si fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell’alienazione, l’acquirente ha l’onere di provare l’effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto; tale onere probatorio non può, tuttavia, ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore che agisce per far valere la simulazione è terzo rispetto ai soggetti contraenti (Cass. n. 5326/2017, richiamato in sentenza, nonché in termini, Cass. n. 15510/2018; Cass. n. 18347/2024).
La valutazione circa il carattere di gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari deponenti per la simulazione relativa della cessione onerosa, senza quindi alcuna violazione dell’art. 2697 c.c., avendo già il creditore assolto all’onere che gli incombeva, giustificava la successiva conclusione secondo cui era
il preteso acquirente a dover offrire la prova dell’effettivo versamento del prezzo, prova che nella specie è stata reputata carente.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 1367 c.c., va ricordato che la norma de qua può trovare applicazione solo quando il senso del contratto o di una sua clausola sia rimasto oscuro o ambiguo nonostante l’utilizzo dei principali criteri ermeneutici (letterale, logico e sistematico); ove però, come nella fattispecie, l’indagine sia stata ritenuta satisfattiva sulla base dei suddetti criteri, e si sia ravvisata la prova del carattere liberale dell’atto di alienazione, opera il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto non può mai comportare un’interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto o della clausola (cfr. ex multis Cass. n. 19493 del 23/07/2018).
Il sesto motivo lamenta la violazione dell’art. 12 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’Appello, ai fini della liquidazione delle spese di lite, ha affermato che occorreva avere riguardo ai criteri dettati in materia di azione revocatoria, così che era corretta la parametrazione dei compensi al valore del credito a tutela del quale aveva agito il creditore.
Si deduce che l’affermazione è erronea e che invece, essendo stata accolta una domanda di simulazione, bisognava far riferimento al valore delle quote come dichiarato nell’atto di cessione (pari ad € 63.000,00).
Il motivo è fondato.
E’ pur vero che l’attore aveva in via principale agito per la declaratoria di simulazione dell’atto di cessione, ed in subordine
per la declaratoria di inefficacia ex art. 2901 c.c., ma è solo la prima domanda che è stata accolta e quindi, in ragione del principio per cui a danno del soccombente la liquidazione delle spese di lite deve aver riguardo ai fini del valore al decisum , occorre fare applicazione dei criteri di determinazione del valore come stabiliti dal codice di procedura civile (cfr. art. 5 del DM n. 55/2014).
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che il valore di una causa avente ad oggetto l’accertamento di simulazione relativa di una compravendita immobiliare, in quanto dissimulante una donazione, va determinato, anche ai fini della liquidazione del compenso al difensore della parte vittoriosa, con riferimento al valore dei beni che sono stati trasferiti e non con riferimento al corrispettivo indicato nel contratto simulato (Cass. n. 12011/1992; Cass. n. 4100/1980), essendosi altresì specificato che in tal caso non è possibile rifarsi al valore dei crediti per i quali gli attori che hanno agito in simulazione sulla falsariga di quanto previsto in caso di dell’azione revocatoria (Cass. n. 415/1970).
Ne deriva, che, dovendosi dare continuità a tali principi, si palesa erroneo il richiamo operato dalla Corte d’Appello, ai fini dell’individuazione del valore della controversia, all’ammontare del credito vantato dallo COGNOME, ma nemmeno è possibile, come invece sostiene parte ricorrente, che debba farsi riferimento al prezzo (in realtà mai corrisposto), dichiarato nella vendita simulata, dovendosi invece far richiamo al valore delle quote oggetto della donazione dissimulata.
La sentenza impugnata deve perciò essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in
diversa composizione, affinché provveda alla liquidazione delle spese di lite, sulla base del valore delle quote cedute.
Il giudice di rinvio, come sopra designato, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo, nei limiti di cui in motivazione, e rigettati gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso nella camera di consiglio del 26 novembre 2024