Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32725 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 32725 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 30008/2019 R.G. proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti-
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME, elettivamente domiciliati in DOLO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
-controricorrenti- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 2771/2019 depositata il 29/10/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Udite le osservazioni del P.M., la Sostituta P.G. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo, il rigetto dei primi due motivi e l’assorbimento dei restanti motivi. Uditi gli avvocati NOME COGNOMEsu delega scritta) per la parte ricorrente ed NOME COGNOME per la parte controricorrente.
FATTI DI CAUSA
La controversia concerne un contratto preliminare di compravendita di un immobile, stipulato il 18/12/2004, tra i promittenti venditori NOME COGNOME e NOME COGNOME e i promissari acquirenti NOME COGNOME e NOME COGNOME Questi ultimi si sono rifiutati di perfezionare l’acquisto, adducendo che i venditori avevano omesso di informarli dell’esistenza di un progetto per la realizzazione nell’area prospiciente l’immobile di una cava di bentonite (un tipo di minerale argilloso, che si forma dalla degradazione delle ceneri vulcaniche). Nel 2005 i promittenti venditori convenivano dinanzi al Tribunale di Vicenza i promissari acquirenti per la risoluzione del contratto preliminare di compravendita, con conseguente condanna al risarcimento danni, mentre i promissari acquirenti domandavano l’annullamento del contratto per dolo omissivo, sostenendo di essere stati ingannati e di non aver ricevuto informazioni rilevanti al momento della stipula. Il Tribunale dichiarava la risoluzione del contratto per inadempimento e rigettava la domanda di annullamento, ritenendo che i venditori non avessero occultato ai compratori informazioni rilevanti. Quantificava il risarcimento dei danni in una somma pari alla caparra confirmatoria già versata dai compratori (€ 50.000). Su appello principale di questi ultimi e incidentale dei venditori (che hanno domandato un maggiore risarcimento dei danni), la Corte di appello ha riformato la pronuncia di primo grado, annullando ex art. 1439 c.c. il contratto preliminare, sul presupposto che è configurabile un dolo omissivo. La Corte di appello ha argomentato che il consenso prestato dai compratori è stato viziato dalla omessa comunicazione di informazioni essenziali per la conclusione del contratto, quali
appunto quelle relative al progetto di cava. La Corte ha quindi condannato i venditori alla restituzione della caparra di € 50.000 (con compensazione parziale delle spese di lite tra le parti).
Ricorrono in cassazione i promittenti venditori con sette motivi, illustrati da memoria. Resistono i promissari acquirenti con controricorso e memoria. Il P.M. ha depositato osservazioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Il primo motivo (p. 8) denuncia che la Corte di appello ha disconosciuto che sulla risoluzione del contratto preliminare si è formato il giudicato, per non avere i promissari acquirenti impugnato il capo della sentenza che dichiarava risolto il contratto per inadempimento e accertava un risarcimento dei danni pari a € 50.000. La Corte di appello non avrebbe potuto riesaminare le domande riconvenzionali di annullamento del contratto e di restituzione della caparra. Si deduce in altri termini l’ erroneo rigetto dell’eccezione di giudicato in merito alla sentenza di primo grado sulla risoluzione del contratto preliminare.
Il primo motivo è rigettato.
L ‘impugnazione della sentenza sul profilo pregiudiziale relativo all’annullabilità del contratto per dolo esclude che si formi il giudicato interno sul capo dipendente relativo alla risoluzione del contratto. Infatti , l’acquiescenza tacita qualificata di cui all’art. 329 co. 2 c.p.c. non opera sulle parti della sentenza dipendenti da quella impugnata. In caso di riforma, opera l’effetto espansivo interno (art. 336 co. 1 c.p.c.).
– Il secondo motivo (p. 10) denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c., rilevando che l’atto di appello non ha individuato in modo chiaro e specifico i capi della sentenza di primo grado oggetto di impugnazione e le relative doglianze. Si critica la motivazione della Corte di appello per avere ritenuto sufficientemente specifica l’argomentazione degli appellanti, nonostante le richieste di riforma
fossero generiche e prive di una confutazione puntuale delle ragioni addotte dal Tribunale.
Il secondo motivo è rigettato.
La Corte di appello ha accertato che « la citazione in appello argomenta diffusamente la chiara domanda di riforma della sentenza impugnata, con il rigetto delle domande attoree e l’accoglimento della domanda riconvenzionale » . La risolutezza di quest’affermazione -che ha trovato conferma da un riscontro diretto (consentito dal fatto che è stato denunciato un error in procedendo) dell’atto di appello principale – non è scalfita dalle argomentazioni essenzialmente apodittiche dei ricorrenti che tra l’altro (come osservato anche dalla P.M.) difetterebbero anche del requisito della specificità/autosufficienza con riferimento alla sintesi dei motivi di appello, riportata a p. 11 del ricorso.
3. – Il terzo motivo (p. 12) denuncia violazione dell’art. 1439 c.c. Si argomenta che la sentenza impugnata ritiene configurato il dolo omissivo per la mancata indicazione del progetto per l’apertura di una cava di bentonite prospiciente l’immobile oggetto del contratto, senza verificare se i venditori fossero effettivamente a conoscenza del progetto e se tale conoscenza fosse stata scientemente taciuta per ingannare gli acquirenti. Si censura inoltre la decisione per aver invertito l’onere della prova, gravando i venditori dell’onere di provare di non essere a conoscenza del progetto, nonostante fosse onere degli acquirenti in riconvenzionale provare il dolo. Si sottolinea che tale onere (di provare uno stato soggettivo negativo) può essere ben difficilmente soddisfatto e che il progetto della cava, depositato presso il Comune, non era necessariamente accessibile ai venditori al momento della negoziazione. Si ritiene inoltre che il giudizio di inverosimiglianza espresso dalla Corte distrettuale, fondato sull’interesse economico dei venditori a conoscere il progetto, rappresenti una forzatura logica priva di prova concreta. Viene altresì evidenziato che i venditori, nella memoria ex art. 180 c.p.c., avevano
esplicitamente dichiarato di non essere a conoscenza del progetto, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata.
Il terzo motivo è infondato.
Esso censura essenzialmente l’inversione dell’onere della prova compiuta dalla Corte di appello. Conviene riportare la parte di sentenza rilevante: « Il silenzio mantenuto dai promittenti alienanti nella brevissima fase precontrattuale conclusasi in soli tre giorni, a ridosso dell’ultimo fine settimana prenatalizio, e così accelerata dalla loro prospettazione dell’esistenza di una serie di altri aspiranti all’acquisto collima – per confermare la valenza significativa della condotta dai coniugi COGNOME e Tirape lle, ai fini applicativi dell’art. 1439 c.c. – col fatto che i promissari acquirenti erano assistiti da un tecnico che, ove avesse avuto tempo e modo di informarsi presso l’amministrazione comunale delle previsioni di attivazione della cava nella zona, avr ebbe certamente distolto i propri clienti dall’impegnarsi nell’acquisto e con la circostanza, non irrilevante, che degli interessi dei venditori si prendeva cura anche un agente immobiliare (che infatti, sentito quale teste, ha dichiarato che solo da loro aveva preteso e percepito il compenso) che può aver confermato anche negli aspiranti acquirenti l’opinione di serena praticabilità dell’acquisto, in ragione della sua affidabilità professionale e del suo ruolo apparente di intermediario obiettivo, che non risulta sia stato smentito dai proprietari mandanti Cielo e COGNOME, nel corso delle trattative. Né può essere ascritta agli odierni appellanti inerzia o scarsa diligenza nell’informarsi sulle eventualità di immutazione delle condizioni del bene che erano interessati ad acquistare, perché i due giorni intercorrenti tra il primo sopralluogo e la data del secondo incontro delle parti – fissato per il sabato 18 dicembre 2004 – non erano di per sé sufficienti neanche a prefigurare l’eventualità che fosse nece ssario procedervi, posto che neanche il tecnico e l’agente immobiliare avevano lasciato intendere alcunché sull’esistenza del progetto della cava. Incombeva peraltro ai coniugi COGNOME e COGNOME l’onere di
dimostrare che del progetto della cava essi stessi non erano a conoscenza – ma la circostanza non è neanche allegata, oltre a non essere di per sé verosimile, atteso l’interesse evidente che i proprietari avevano in merito alla sorte della propria villa e che la controparte fosse invece consapevole dell’esistenza del progetto ovvero che avrebbero potuto conoscerlo, usando della normale diligenza » (pagg. 6-7).
Nel passo rilevante, la Corte di appello di Venezia ha dunque argomentato che i promittenti venditori hanno preteso che il preliminare fosse sottoscritto nel giro di tre giorni, facendo presente che c’erano altre proposte di acquisto, senza riferire dell’esistenza di un progetto per la realizzazione nell’area prospiciente l’immobile della cava. La Corte sostiene poi che non vi è stata scarsa diligenza nei promissari acquirenti, perché i due giorni intercorrenti tra il primo sopralluogo e la data del secondo incontro tra le parti, fissato per il sabato 18/12/2004, non erano di per sé sufficienti.
Sulla base di questi elementi, la Corte distrettuale ha accertato la sussistenza di un dolo omissivo. In questo contesto la considerazione (in sé erronea e da correggere) che « Incombeva peraltro ai coniugi COGNOME e COGNOME l’onere di dimostrare che del progetto della cava essi stessi non erano a conoscenza» , ecc. assume il ruolo di un’argomentazione aggiuntiva (l’avverbio ‘peraltro’ è chiaramente impiegato con questo valore), che avrebbe ben potuto essere omessa, senza che ne fosse infirmata l’argomentazio ne della Corte sul dolo omissivo, che rinviene il proprio asse negli aspetti presi in considerazione nella parte precedente della motivazione.
Per il resto, non vi è quindi che da confermare l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte (cui la Corte distrettuale fa riferimento): « Pur potendo il dolo omissivo viziare la volontà e determinare l’annullamento del contratto, tuttavia, esso rileva a tal fine solo quando l’inerzia della parte contraente si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia od astuzia, a realizzare l’inganno perseguito. Il semplice silenzio, anche su
situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione di essa alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituiscono causa invalidante del contratto. Piuttosto, la reticenza ed il silenzio non sono sufficienti a costituire il dolo, se non in rapporto alle circostanze ed al complesso del contegno che determina l’errore del ‘ deceptus ‘ , che devono essere tali da configurarsi quali malizia o astuzia volte a realizzare l’inganno perseguito . Così, tra le altre, Cass. 11009/2018, che nel passo successivo ribadisce la corretta regola sull’onere della prova, evidenziando che in quel caso la parte compratrice, « cui incombeva il relativo onere probatorio, non ha dedotto tutti gli elementi necessari ad integrare il preteso dolo omissivo dei venditori con riferimento sia al contesto nel quale il silenzio da essi tenuto avrebbe dovuto inserirsi per essere rilevante, sia alla idoneità del silenzio stesso ad incidere sulla determinazione volitiva dell’acquirente .
In conclusione, sintetizzando la ragione del rigetto del secondo motivo, nel caso attuale, l’accertamento dell’esistenza di una condotta dolosamente omissiva rimane ferma, al riparo dall’erroneo obiter dictum relativo all’onere della prova.
Il terzo motivo è rigettato.
– Il quarto motivo (p. 15) denuncia omesso esame circa fatti decisivi alla luce del principio giurisprudenziale per cui artifici, raggiri, reticenza o silenzio devono essere valutati in relazione alle circostanze di fatto e alle condizioni soggettive dell’altra parte per stabilire se fossero idonei a sorprendere una persona di normale diligenza.
Il quarto motivo è inammissibile.
Esso è animato dal tentativo di sovrapporre l’apprezzamento della parte a quello proprio della Corte distrettuale, il quale è stato espresso in una motivazione esente da censure in sede di giudizio di legittimità. Nel caso attuale la Corte di appello non avrebbe
considerato diverse circostanze rilevanti: il sig. COGNOME e la sig.ra COGNOME risiedevano da sempre nello stesso Comune dell’immobile promesso in vendita, come emergerebbe dalle dichiarazioni rese dagli stessi in interpello e negli atti processuali introduttivi; la concessione per lo sfruttamento della cava, depositata in Comune, risaliva agli anni ’60, mentre il progetto, mai approvato, era stato depositato solo nel 2004, come attestato dall’informativa dei Carabinieri e dalla testimonianza del Sindaco sig. COGNOME; la sig.ra COGNOME era stata assessore comunale prima del 2004, secondo la testimonianza del COGNOME; in passato si erano già verificate escavazioni di bentonite che avevano causato vittime, notizia di evidente rilevanza pubblica, come dichiarato dal teste COGNOME durante le trattative i convenuti si erano rivolti a un tecnico locale per una valutazione dell’immobile, anche in relazione ai luoghi in cui sorgeva, come risulta dalla testimonianza del geom. COGNOME Tali circostanze, ignorate dal giudice di appello, avrebbero dovuto escludere il carattere ingannevole della condotta dei convenuti, non configurandosi la fattispecie di dolo omissivo.
Tuttavia, il giudice di merito che fondi il proprio apprezzamento su alcuni elementi piuttosto che su altri non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento in una motivazione effettiva, resoluta e coerente (che rispetti quindi i canoni dettati da Cass. SU 8053/2014). Di talché egli – in obbedienza al canone di proporzionalità di una motivazione necessaria, idonea allo scopo e adeguata – non è tenuto a discutere esplicitamente ogni singolo elemento probatorio o a confutare ogni singola deduzione che aspiri ad una diversa ricostruzione della situazione di fatto rilevante. È superfluo ricordare che l’esito positivo della verifica compiuta dalla Corte di cassazione non implica logicamente che essa faccia proprio tale apprezzamento: esso è e rimane del giudice di merito.
– Il quinto motivo (p. 17) denuncia omesso esame di un fatto decisivo. La Corte di appello non ha considerato che la medesima
vicenda era stata sottoposta al giudice penale, il quale aveva escluso la configurabilità del reato di truffa, come risulta dal documento prodotto in giudizio con memoria ex art. 184 c.p.c. I sig.ri COGNOME COGNOME resistendo all’appello e anche nel pre cedente giudizio di primo grado, hanno invocato il principio giurisprudenziale secondo cui il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente diverso da quello che vizia il consenso negoziale, poiché entrambi consistono in artifici e raggiri f inalizzati a indurre in errore l’altra parte e viziarne il consenso allo scopo di ottenere un profitto ingiusto. La Corte territoriale avrebbe dovuto considerare le implicazioni derivanti dall’archiviazione della querela presentata dai sig.ri COGNOME e COGNOME e rigettare la domanda di annullamento del contratto.
Il quinto motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’archiviazione del procedimento penale per truffa non preclude al giudice civile di valutare autonomamente gli stessi fatti ai fini dell’accertamento del dolo quale vizio del consenso, che ben può sussistere anche in assenza degli estremi del reato di truffa. D’altra parte, i presupposti e gli elementi costitutivi dell’accertamento del dolo contrattuale non coincidono necessariamente con quelli del reato di truffa, essendo diversi i beni giuridici tutelati e gli scopi perseguiti nei due ambiti (sull’autonomia delle due cognizioni penale e civile, con riferimento a questa ipotesi, cfr., tra le altre, Cass. 27877/2021).
Il quinto motivo è rigettato.
6. – Il sesto motivo (p. 18) denuncia violazione dell’ art. 1224 co. 2 c.c., poiché la Corte di appello di Venezia, accogliendo la domanda di annullamento, ha condannato i ricorrenti alla restituzione della caparra ricevuta, ritenendo in motivazione che si trattasse di un debito di valuta produttivo di soli interessi legali, ma ha successivamente maggiorato l’importo della caparra d ella rivalutazione monetaria. La decisione è errata, poiché l’obbligazione restitutoria costituisce un debito di valuta soggetto a interessi legali e, solo in
presenza di specifica domanda e prova, alla rivalutazione monetaria per il maggior danno ex art. 1224 co. 2 c.c. Nel caso attuale, la controparte si è limitata a chiedere genericamente la rivalutazione monetaria senza fornire prova o specificazione del maggior danno, requisito indispensabile per ottenere la rivalutazione stessa.
Il sesto motivo è accolto negli esatti termini in cui è stato formulato e qui riassunto, poiché il debito di restituzione della caparra è di valuta, non di valore (cfr. Cass. 1714/2000), con decisione nel merito che dichiara non dovuta la rivalutazione monetaria sull ‘importo oggetto della domanda di restituzione accolta.
– Il settimo motivo, p. 20, si limita a riferirsi alle conseguenze delle restituzioni già effettuate in esecuzione della sentenza impugnata, che comprendono capitale, rivalutazione, interessi e spese legali per un totale di € 82.612,84, importo che si richiede sia ripetuto in caso di cassazione della sentenza.
Il settimo motivo è inammissibile in conseguenza del rigetto dei motivi dal terzo al quinto.
-In sintesi, la Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, dichiara inammissibile il settimo motivo, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, dichiara che non è dovuta la rivalutazione monetaria sull’importo oggetto della domanda di restituzione accolta. Liquida le spese come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, dichiara inammissibile il settimo motivo, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, elide la condanna alla rivalutazione monetaria sull ‘importo oggetto della domanda di restituzione accolta; compensa per 1/5 le spese dell’intero giudizio e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente i restanti 4/5 delle spese, che liquida per intero in €
4.800 per il primo grado, in € 7.000 per il secondo grado e in € 6.500 per il giudizio di legittimità, o ltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 24/10/2024.