Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32640 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32640 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3076/2019 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE -ricorrente- contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
e
NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato
COGNOME
NOME
–
altra controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO MILANO n. 4716/2018, pubblicata il 31/10/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Lette le conclusioni della Procura Generale, in persona del Sost. PG NOME COGNOME con le quali è stato chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso o, comunque, rigettarlo.
Premesso che:
1. in seguito al decesso di NOME COGNOME si apriva una controversia successoria tra i figli NOME, la quale era stata nominata dal padre, con testamento, erede universale, NOME e NOME, nonché NOME, moglie del de cuius ; in ordine all’individuazione dei beni compresi nell’asse, la c ausa veniva definita con sentenza di questa Corte n. 6514/2014, resa sul ricorso avverso la sentenza di appello emanata con riferimento alla sentenza parziale del Tribunale di Voghera 16 maggio 2008; per il resto la controversia riceveva un primo assetto complessivo da parte del Tribunale di Pavia, a cui la controversia era stata assegnata a seguito della soppressione del Tribunale di Voghera, con sentenza n. 220 del 2016, con cui si dichiarava NOME COGNOME erede universale di NOME COGNOME si accertava che NOME COGNOME avendo accettato il legato testamentario in sostituzione della legittima, era stata soddisfatta, si dava atto della transazione intervenuta tra NOME COGNOME la sorella NOME e la madre in sostituzione della legittima con conseguente sua estromissione dal giudizio, si accertava la lesione della legittima spettante a NOME COGNOME si riducevano le disposizioni testamentarie a favore di NOME COGNOME si procedeva alla
divisione del patrimonio tra NOME e NOME COGNOME sulla base del progetto divisionale n. 2 predisposto dal CTU.
La citata sentenza del Tribunale pavese veniva appellata da NOME COGNOME la quale contestava il valore attribuito dal CTU ai beni ripartiti tra lei e la sorella, contestava il progetto divisionale recepito dal giudice, contestava altresì che non le fosse stato riconosciuto ‘il diritto ad accedere al sepolcro di famiglia’, contestava l’approvazione da parte del Tribunale del rendimento del conto cui NOME COGNOME era stata chiamata riguardo ai beni da lei gestiti dopo la morte del padre tra cui, in particolare, due aziende agricole.
Proponeva appello incidentale anche COGNOME NOME.
La Corte di Appello di Milano, con sentenza 4716 del 2018, rigettava entrambi i gravami;
contro questa sentenza NOME COGNOME ha formulato ricorso per cassazione con sei motivi, avversati da NOME COGNOME con controricorso;
anche NOME COGNOME ha depositato controricorso;
la Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;
la ricorrente ha deposito memoria;
NOME COGNOME ha depositato memoria in cui dichiara di ‘rimettersi a giustizia’ .
Considerato che:
1. con il primo motivo di ricorso, rubricato «Violazione o falsa applicazione degli artt. 537 e 556 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.), nonché violazione dell’art. 111, 6° comma, Cost. e degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. (artt. 360, comma 1, nn. 4 e 5 cod. proc. civ.)», si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello di Milano ha recepito la stima dei terreni agricoli destinati alla viticultura, caduti in successione, fornita dal CTU malgrado che tale stima fosse basata su un criterio, a dire
della ricorrente, errato in particolare perché il CTU aveva tenuto conto del valore delle uve prodotte sui terreni laddove invece avrebbe dovuto tener conto del valore del vino ricavabile dalle uve prodotte sui terreni. La Corte di Appello, recependo la CTU, avrebbe errato nella valutazione dell’asse ereditario e conseguentemente sulla determinazione della quota di legittima della ricorrente. Si sostiene che la motivazione della sentenza sarebbe apparente essendosi la Corte di Appello limitata a recepire le conclusioni del CTU senza tener conto della osservazioni critiche del consulente della odierna ricorrente;
il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
È infondato nella parte in cui con esso si deduce che la sentenza non sia motivata se non in modo apparente quanto alla stima dei beni.
Come questa Corte ha precisato, il vizio di motivazione apparente ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 2016; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 2022; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019).
La motivazione della sentenza impugnata è tutt’altro che apparente.
Infatti, la Corte di Appello ha recepito la stima dei terreni effettuata dal CTU in base al criterio di funzionalità, specificando di ritenere quel criterio corretto in quanto riferito alla ‘produttività specifica dei terreni’. La Corte territoriale ha riportato le contestazioni mosse dalla allora appellante alla CTU e le ha confutate una per una (v. sentenza impugnata pagine 10-12). Ha osservato, in particolare,
che non poteva dirsi corretta la contestazione per cui avrebbe dovuto, nella stima, includersi il ‘plusvalore’ imputabile alla attività della azienda agricola di trasformazione dell’uva dato che tale valore non era inerente ai terreni e che, in special modo , l’azienda agricola di riferimento la ‘Fattoria Ca banon ‘ già di proprietà del de cuius – era divenuta di proprietà esclusiva di NOME COGNOME ed era rimasta estranea alla comunione ereditaria.
Il motivo in esame è, invece, inammissibile per la parte in cui, dietro le affermazioni per cui la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto delle osservazioni critiche del consulente di parte alla CTU – affermazione che, come già detto, è smentita dal contenuto concreto della sentenza – e per cui la Corte di Appello avrebbe violato o falsamente applicato gli artt. 537 e 556 cod. civ, mira in realtà alla rivalutazione del merito della causa.
In particolare, in ordine al dedotto vizio di violazione o falsa applicazione di legge, si osserva che il motivo è così strutturato: poiché il giudice di merito ha accertato che i beni caduti in successione hanno un determinato valore e tale accertamento è errato perché in realtà il valore è un altro, allora sono state violate le norme giuridiche indicate. Tale struttura scambia il ruolo della Corte di cassazione per quello di una terza istanza di merito.
Il motivo, al di là della formale denuncia, si riduce alla sovrapposizione dell’apprezzamento delle prove da parte del ricorrente all’accertamento dei giudici di merito espresso in una motivazione che non si espone a censure di legittimità.
Trova, quindi, applicazione il seguente consolidato principio: ‘ è inammissibile il (motivo di) ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito’ ( v., per tutte, Sez. U, Sentenza n. 34476 del 2019);
3. con il secondo motivo di ricorso, rubricato «Violazione o falsa applicazione dell’art. 718 e seguenti cod. civ. (Art. 360, 1 comma, n. 3 cod. proc. civ.)», si lamenta che la Corte di Appello ha errato a recepire il progetto divisionale contraddistinto con il n. 2 della relazione del CTU, perché ha così finito per attribuire alla COGNOME Elena i beni più produttivi e quindi di maggior valore mentre tutti i beni avrebbero dovuto essere frazionati nel rispetto degli artt. 720 e 727 cod. civ., in base ai quali a ciascun condividente devono attribuirsi beni immobili omogenei, di uguale natura e qualità;
4. il motivo è inammissibile per ragioni identiche a quelle esposte in riferimento al primo motivo: dietro lo schermo dalla violazione o falsa applicazione di legge, la ricorrente vorrebbe ottenere una rivalutazione – riservata al merito e non possibile in questa sede di legittimità – degli immobili compresi nei lotti e quindi una diversa ripartizione della massa ereditaria. Può aggiungersi, in riferimento a ciò che in apparenza si deduce, ossia la violazione o falsa applicazione dell’art. 718 cod. civ., che questo articolo prevede che «Ciascun coerede può chiedere la sua parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli seguenti». L’art. 727 cod. civ. dispone, inoltre, al primo comma, che «Salvo quanto è disposto dagli articoli 720 e 722, le porzioni devono essere formate, previa stima dei beni, comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di eguale natura e qualità, in proporzione dell’entità di ciascuna quota».
La giurisprudenza di questa Corte, come ricordato dal giudice di a ppello, ha affermato: «Il principio stabilito dall’art. 727 c.c. in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera
diversa, ove ritenga che l’interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l’attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato» (Cass. n. 29733 del 2017). E’ stato, altresì, chiarito che «nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente in sede di formazione delle porzioni una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio» (Cass. n. 15105 del 2000; Cass. n. 573 del 2011 e Cass. n. 17862 del 2020).
Nel caso di specie la Corte di Appello, dopo aver osservato che l’affermazione della allora appellante per cui i beni a lei assegnati sarebbero stati improduttivi non appariva, alla luce della CTU, avere riscontro nei fatti (v. sentenza pagina 13 in fondo), ha comunque precisato che i lotti formati in base al progetto
divisionale 2 del CTU comprendevano beni omogenei – una parte dei fabbricati e una parte dei terreni compresi nell’asse ereditario -ed erano stati definiti con riguardo all’esigenza di non disperdere utilità inserendo in un lotto alcuni dei beni compresi nel compendio immobiliare ‘RAGIONE_SOCIALE‘ perché strumentali alla (già citata) ‘Fattoria Ca banon ‘;
5. con il terzo motivo di ricorso, rubricato «Violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc civ. (art. 360, 1^ comma, n. 3 cod. proc. civ.) e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 cod. proc. civ.)», si lamenta che la Corte di Appello avrebbe errato nell’avallare il progetto divisionale del CTU malgrado che lo stesso fosse stato predisposto senza tenere conto del fatto che l’attuale ricorrente era domiciliata in un immobile ad uso abitativo presso il compendio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ con la conseguenza che l’immobile avrebbe dovuto essere assegnato a lei. La Corte di Appello ha al riguardo affermato che, come già osservato dal giudice di primo grado, le prove sul fatto che la ricorrente fosse o non fosse ‘domiciliata’ presso il compendio ‘RAGIONE_SOCIALE‘ non erano univoche e che tra gli elementi in senso contrario vi era quello della mancanza di impianto di riscaldamento funzionante presso l’immobile abitativo sito nel suddetto compendio.
La ricorrente deduce, inoltre, che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto del fatto, risultante da una relazione di consulenza tecnica acquisita agli atti, che l’immobile aveva un caminetto e una stufa.
6. Il motivo è inammissibile.
Non è individuabile il referente giuridico in forza del quale vorrebbe annettersi valore alla residenza della ricorrente in un determinato immobile come criterio di attribuzione dell’immobile stesso.
A ciò si aggiunge, in riferimento al denunciato vizio di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc civ. (art. 360, 1° comma, n. 3 cod. proc. civ.), che «in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.» (Cass., Sez. U., n. 20867 del 2020; in senso conforme, Cass. n. 16016 del 2021). Così anche che «in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo ‘prudente apprezzamento’, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione» (Cass., Sez. U., n. 20867 del 2020 e Cass. n. 16016 del 2021, cit.).
Ciò posto, nel caso di specie, non viene neppure denunciato che la Corte di Appello abbia giudicato su prove non introdotte dalle parti
ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutile né che la Corte di Appello abbia errato nel non considerare fatti non contestati. Il motivo non si confronta con l’affermazione della Corte di Appello per cui non vi erano prove univoche sulla localizzazione del domicilio della ricorrente. In più il motivo veicola la doglianza di omesso esame di un dato – la presenza di un caminetto e di una stufa – senza considerare che nel caso di specie il vizio di omesso esame di fatti non è deducibile poiché, a fronte di un doppio accertamento conforme dei giudici di primo e secondo grado sulla mancanza di prova della domiciliazione della attuale ricorrente presso il compendio ‘RAGIONE_SOCIALE‘, l’impugnazione della sentenza d’appello soggiace alla preclusione derivante dalla regola di cui all’art. 348-ter, comma 5, c.p.c. (‘ratione temporis’ applicabile).
Il motivo in esame è, altresì, inammissibile in riferimento al dedotto vizio di ‘omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 cod. proc. civ.)’ posto che tale vizio non è più denunciabile. Infatti, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ‘ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico’ (v. Cass. n. 2268 del 2022). Come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 8053 del 2014, ‘ la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo
della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione’. Qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, il vizio è deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (Cass. 22598 del 2018);
7. con il quarto motivo di ricorso, rubricato «Violazione o falsa applicazione degli artt. 132 e 112 cod. proc. civ. (Art. 360, 1 comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ.)», si lamenta che la Corte di Appello avrebbe errato nel confermare la soluzione del Tribunale per cui, divisi tra le parti gli immobili del ‘condominio in Godiasco’, erano stati mantenuti in ‘una soluzione condominiale’ alcuni beni laddove invece sarebbe stato preferibile assegnare alcune abitazioni dello stesso compendio alla ricorrente mantenendosi ‘ordinati rapporti condominiali’ per le parti ‘necessariamente comuni’ come da ipotesi divisionale ‘1b’ del CTU ;
avrebbe così violato l’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. e l’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. e l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. per insufficienza e contraddittorietà della motivazione della decisione (come si legge a pagina 61 del ricorso);
8. il motivo è inammissibile perché sovrappone confusamente censure di violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), neppure precisando le norme sostanziali di riferimento, di omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.), non specificando neanche quale sarebbe stata la domanda o eccezione su cui la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata, di difetto ‘insufficiente e
contraddittoria motivazione … legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5, c.p.c.’, senza considerare che – come già si è osservatoil vizio di cui all’art.360, comma 1, n. 5, c.p.c. (come novellato nel 2012) non consente più il sindacato sulla motivazione.
Il motivo appare, nel complesso, teso a prospettare una questione di merito: la preferibilità, rispetto alla soluzione divisionale adottata dai giudici di merito, di altra soluzione divisionale preferita dalla ricorrente;
con il quinto motivo di ricorso, rubricato «Violazione della disciplina in tema di ‘Cappelle gentilizie o di famiglia’, nonché violazione degli artt. 132, n. 4 e 112 cod. proc. civ. (art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ.)» si lamenta che la Corte di Appello avrebbe ‘escluso la ricorrente ‘dalla cappella di famiglia’ e, nella parte finale del motivo, che stessa Corte milanese avrebbe altresì errato nel recepire, senza motivazione, la stima del CTU relativa ad una condotta idraulica malgrado che tale stima fosse stata effettuata con riguardo alla sola porzione visibile della condotta, senza coinvolgere la parte interrata e la parte insistente su proprietà di soggetti estranei al giudizio;
10. il motivo è inammissibile in relazione alla prima questione, involgente la ‘cappella di famiglia’ , ed è infondato in relazione alla seconda questione, riguardante la condotta idraulica.
10.1. La Corte di Appello non ha parlato di ‘ius sepulchri’. Ha escluso che la ricorrente potesse vantare ‘una servitù di passaggio’ verso la cappella di famiglia non essendo individuabile un fondo dominante.
La ricorrente riferisce, nel corpo del motivo, che la cappella si trova ‘all’interno di un’ampia proprietà’, riporta un passo della CTU ove si dice che, a seguito della divisione, occorrerà procedere ad un frazionamento che separi ‘l’area esterna di competenza della Chiesa ivi compreso il cimitero adiacente, e alla creazione di un
passaggio pedonale di collegamento che separi la chiesa dalla strada comunale’, sostiene poi che, ove i giudici di merito avessero scelto tra i progetti divisionali predisposti dal CTU non il progetto 2 ma il progetto 1a) o 1b), sarebbero stati individuati ‘il fondo dominante e il fondo servente’, riporta giurisprudenza di legittimità relativa allo ‘ius sepulchri’ e afferma che la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto di tale giurisprudenza.
Il motivo è strutturato in modo da non consentire di comprendere sul cosa la Corte di Appello avrebbe dovuto pronunciarsi e non si sarebbe pronunciata. Esso è formulato in modo confuso in spregio del principio di necessaria specificità del ricorso per cassazione sancito dall’art. 366 cod. proc. civ.
La giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, tra le più recenti, Cass. n. 28072 del 2021 ) è pacifica nell’affermare che : «nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi).
10.2. Riguardo alla questione involgente la condotta idraulica interrata sulla cui stima, a dire della ricorrente, la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunciare, si osserva che, in realtà, la Corte di Appello ha rispettato l’art. 112 c.p.c. dato che ha esaminato tale questione recependo la stima del CTU relativa ad una parte della condotta e recependo le argomentazioni – dalla stessa Corte
ritenute esaustive – fornite dal CTU nel proprio elaborato peritale di risposta alle osservazioni dell’allora appellante, secondo cui non era possibile, per mancanza di documentazione e per ostacoli materiali dati dal parziale interramento della condotta anche in fondi di terzi, procedere ad una stima della condotta stessa nella sua interezza, cosa che sarebbe peraltro stata ‘eccessivamente gravosa e non utile ai fini del giudizio’;
11. con il sesto ed ultimo motivo di ricorso, rubricato «Violazione o falsa applicazione degli artt. 723, 1713 e 2030 cod. civ., nonché degli artt. 112 e 132 cod. proc. civ. (Art. 360, 1^ comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ.)», si lamenta che la Corte di Appello avrebbe immotivatamente – e comunque erroneamente – ritenuto ben compilato il rendiconto di gestione dei beni ereditari, dal 2003 al 2016, da parte della attuale controricorrente COGNOME NOME. Secondo la ricorrente la Corte di Appello doveva rilevare che il conto non avrebbe dovuto essere basato, quanto al ricavato dalla gestione dei terreni, sul criterio della produzione delle uve bensì su quello della produzione dei vini. La ricorrente riporta ampi stralci della relazione del proprio consulente per affermare che vi sarebbe stata una sottovalutazione del reddito della gestione dei terreni; 12. il motivo è inammissibile.
La Corte di Appello ha motivato la decisione osservando che il criterio del ‘reddito fondiario’ usato dal CTU era corretto non potendosi ‘imputare ai terreni il valore aggiuntivo derivante dalla trasformazione del prodotto raccolto in vino poiché tale valore è imputabile all’azienda agricola ‘ Fattoria Ca banon’ che è estranea alla comunione’.
Non sussiste quindi alcun difetto di motivazione. Il giudizio positivo espresso dal giudice di merito circa la congruità del criterio di calcolo del valore di gestione di un bene costituisce un apprezzamento di fatto ed è adeguatamente motivato ove, come nel caso di specie, si fondi su considerazioni inerenti
all’intrinseca essenza del criterio stesso. Ciò detto il motivo, al di là delle enunciate violazioni o false applicazioni di leggi, si riduce alla richiesta di una nuova valutazione di merito sui risultati della gestione dei beni ereditari;
in conclusione il ricorso deve essere integralmente rigettato.
le spese seguono la soccombenza e si liquidano, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti, nei sensi di cui in dispositivo (tenendo conto del valore della causa e delle distinte attività difensive svolte);
15. sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente COGNOME NOME, delle spese del presente giudizio che liquida in € 5. 500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti;
condanna, altresì, la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente COGNOME Carmen, delle spese del presente giudizio che liquida in € 7 .500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda