Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8310 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 8310 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2024
SENTENZA
sul ricorso 11640-2018 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO, presso lo studio
dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 554/2017 della CORTE d’APPELLO di ANCONA, depositata il 12/04/2017;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona della Sostituta Procuratrice Generale, dott. NOME COGNOME, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale e del ricorso incidentale;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/03/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME, che ha concluso in conformità delle conclusioni scritte;
uditi l’avvocato NOME COGNOME per la ricorrente principale e l’avvocato NOME COGNOME per il ricorrente incidentale;
FATTI DI CAUSA E RAGIONI COGNOMEA DECISIONE
COGNOME NOME conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Ancona l’ex coniuge COGNOME NOME, al fine di procedere alla divisione dei beni comuni, costituiti da vari immobili in Camerano, meglio descritti in citazione.
Si costitutiva la convenuta che evidenziava l’esistenza del diritto di usufrutto sui beni in favore della madre, ed in via riconvenzionale chiedeva il rimborso delle somme anticipate sia per l’acquisto dei beni, e precisamente del terreno, che per la loro edificazione.
Il Tribunale rigettava la domanda e la Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 554 del 12 aprile 2017, ha accolto il gravame dell’COGNOME, disponendo la divisione dei beni, di cui accertava la non comoda divisibilità, con l’attribuzione dell’intero in favore della convenuta, previo pagamento dell’eccedenza. Rigettava altresì le domande reciprocamente avanzate di rimborso delle somme asseritamente spese per l’acquisto e le migliorie dei beni comuni.
Dopo avere reputato che, difformemente da quanto opinato dal Tribunale, la domanda attorea era volta ad ottenere lo scioglimento della comunione sui beni, anche tenendo conto dell’esistenza del diritto di usufrutto vantato dalla madre della convenuta, il che denotava l’erroneità della conclusione cui era giunto il Tribunale in punto di inammissibilità della domanda di divisione, la Corte d’Appello escludeva altresì che potesse impedire la divisione la circostanza che l’immobile oggetto di causa costituiva l’abitazione coniugale assegnata alla COGNOME in sede di separazione personale.
Nel merito reputava che il compendio non fosse comodamente divisibile, come peraltro evidenziato dal CTU, e che in presenza di concorrenti richieste di attribuzione dell’intero, dovesse essere preferita l’istanza proveniente dalla appellata che risiedeva da tempo nel bene, in quanto assegnataria del diritto di godimento in sede di separazione.
Passando alla determinazione del conguaglio, la sentenza riteneva che occorresse, da un lato, tenere conto del decorso del tempo che aveva inciso sul valore dell’usufrutto spettante alla madre della convenuta, e dall’altro, del decremento del valore del bene, per la crisi del mercato immobiliare.
I due fattori avevano quindi determinato un incremento del valore ed un decremento di pari entità, così che ai fini della stima poteva tenersi ferma la valutazione a suo tempo effettuata dall’ausiliario, sulla quale quindi parametrare l’entità del conguaglio.
Quanto alle reciproche richieste di rimborsi, la sentenza, in relazione alla domanda dell’COGNOME reputava che non fosse stata data adeguata prova circa la provenienza delle somme asseritamente pagate per la realizzazione del compendio immobiliare, trattandosi di fatture il cui possesso non comprovava che il saldo fosse stato versato con denaro proprio, dovendo peraltro osservarsi che le stesse risalivano ad un’epoca in cui i coniugi ancora convivevano ed erano cointestatari del conto corrente dal quale proveniva il denaro impiegato per i pagamenti.
Quanto alla domanda avanzata dalla moglie, la Corte distrettuale escludeva che potesse invocarsi l’applicazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto il giudizio era stato introdotto in data anteriore alla novella di cui alla legge n. 69/2009. In tal caso non è sufficiente la mancata contestazione del fatto allegato dalla parte, ma è necessario che la circostanza sia esplicitamente ammessa ovvero che, pur essendo stata contestata, veda la difesa della controparte articolata su circostanze o argomentazioni difensive logicamente incompatibili con il suo disconoscimento.
Quanto alla richiesta di prova testimoniale, la medesima era inammissibile in quanto l’appellata non aveva esplicato le ragioni di critica alla decisione del Tribunale di non ammetterla, non potendosi reputare ex art. 345 c.p.c., che sia possibile riproporre in appello prove esplicitamente o implicitamente disattese in primo grado, senza argomentate in merito al rigetto operato da quest’ultimo, e senza neppure provvedere alla loro trascrizione in
comparsa di costituzione, limitandosi ad un generico rinvio alle prove richieste. In ogni caso la prova testimoniale risultava inammissibile, in assenza di adeguati riscontri temporali e fattuali, idonei ad avvalorare la tesi sostenuta con specifico riferimento alla fattispecie in esame, il che avrebbe comportato la necessità di un intervento ortopedico del giudice ex art. 253 c.p.c., sicuramente eccedente rispetto ai limiti che pone la norma.
Né era lecito far richiamo alla consulenza tecnica d’ufficio che avrebbe nella specie assolto ad una funzione meramente esplorativa.
Infine, le spese del doppio grado erano integralmente compensate.
Avverso la suddetta sentenza della Corte d’Appello di Ancona propone ricorso COGNOME NOME, sulla base di otto motivi.
COGNOME NOME ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo.
COGNOME NOME NOME resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con il primo motivo di ricorso principale si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento, nonché la violazione e falsa applicazione del principio di non contestazione, in relazione agli artt. 115, 116 e 167 c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella dell’art. 115 c.p.c. di cui alla legge n. 69/2009.
La Corte d’Appello ha negato che fosse stata dimostrata la circostanza degli esborsi sostenuti con denaro della ricorrente per l’acquisto e la costruzione dei beni comuni, sulla base del principio di non contestazione, sul solo presupposto che la norma di cui
all’art. 115 c.p.c. non fosse applicabile, vertendosi in un giudizio che era già pendente in data anteriore al 4 luglio 2009.
Si sottolinea che però l’elaborazione giurisprudenziale era pervenuta alla conclusione che, anche prima della modifica normativa, fosse possibile applicare il principio di non contestazione alle cause già pendenti, dovendosi però reputare che l’onere di contestazione del convenuto rispetto ai fatti specificamente allegati dalla controparte si imponesse in tutti i casi, dovendosi trarre da tale omissione la conclusione della non contestazione, e quindi della specificità dei fatti allegati.
Nella fattispecie, la ricorrente già in comparsa di risposta aveva specificamente allegato di avere impiegato il denaro personale (ricavato dalla vendita di un proprio immobile e dal TFR), per l’acquisto del terreno e per la costruzione del fabbricato ivi edificato, avendo poi sostenuto le spese per i miglioramenti apportati al bene in epoca successiva alla separazione dal marito.
Siffatta allegazione era rimasta priva di replica e lo stesso era accaduto allorché le circostanze erano state ribadite nei successivi scritti difensivi, atteso che il marito si era limitato a replicare di avere a sua volta contribuito in massima parte con il proprio denaro alla costruzione dell’immobile (chiedendone il rimborso).
Il secondo motivo, in relazione alle medesime circostanze dedotte nel primo motivo, denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione delle medesime norme ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.
Risulta sicuramente erronea l’affermazione secondo cui la previsione di cui all’art. 115 c.p.c., non già nella sua immediata
portata precettiva, ma nella affermazione secondo cui l’onere di contestazione, a fronte di fatti specificamente allegati dalla controparte, impone una altrettanto specifica presa di posizione, sarebbe inapplicabile nella fattispecie, poiché il giudizio già pendeva alla data di entrata in vigore della novella.
Sul punto, la ormai acquista giurisprudenza di questa Corte ha ribadito che, in tema di giudizi instaurati prima dell’entrata in vigore dell’art. 45, comma 14, l. n. 69 del 2009, che ha sostituito l’art. 115, comma 2, c.p.c., il principio di non contestazione trova applicazione solo con riferimento ai fatti primari, ovvero costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio mentre, per i fatti secondari – vale a dire quelli dedotti in mera funzione probatoria -, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., per cui tali fatti possono essere contestati per la prima volta anche nel giudizio di appello (Cass. n. 40756 del 20/12/2021).
Ne consegue che il convenuto, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., (ovvero l’attore ove i fatti siano addotti a sostegno della domanda riconvenzionale), è tenuto, anche anteriormente alla formale introduzione del principio di “non contestazione” a seguito della modifica dell’art. 115 c.p.c., a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda, i quali debbono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nella comparsa di costituzione e risposta, si sia limitata ad una contestazione non chiara e specifica. Questo onere gravante sul convenuto si coordina, peraltro, con quello di allegazione dei fatti di causa che incombe sull’attore, sicché la mancata allegazione puntuale dei fatti costitutivi, modificativi o
estintivi rispetto ai quali opera il principio di non contestazione esonera il convenuto, che abbia genericamente negato il fatto altrettanto genericamente allegato, dall’onere di compiere una contestazione circostanziata (Cass. n. 26908 del 26/11/2020)
Va, quindi, ribadito che il principio di non contestazione, pur essendo stato codificato con la modifica dell’art. 115 c.p.c. introdotta dalla l. n. 69 del 2009, è applicabile anche ai giudizi antecedenti alla novella, avendo questa recepito il previgente principio giurisprudenziale in forza del quale la non contestazione determina effetti vincolanti per il giudice, che deve ritenere sussistenti i fatti non contestati, astenendosi da qualsivoglia controllo probatorio in merito agli stessi (Cass. n. 5429 del 27/02/2020).
Alla luce di quanto esposto, risulta evidente che i fatti, che a detta della ricorrente sarebbero stati non contestati, sono fatti costitutivi della domanda di rimborso avanzata in via riconvenzionale, e quindi sono assoggettati al detto principio.
Quanto poi al rispetto degli oneri formali, va qui ricordato che l’operatività del principio di non contestazione, con conseguente ” relevatio ” dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di provvedere ad una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. n. 20525 del 29/09/2020; cfr. Cass. n. 10761/2022, secondo cui, ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata “pacifica” tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la
suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica), onere che parte ricorrente ha ampiamente soddisfatto, avendo puntualmente riportato in ricorso sia il contenuto della comparsa di risposta in primo grado, contenente la specifica allegazione dei fatti che si assume non essere stati contestati, sia il contenuto degli scritti difensivi della controparte, dai quali si evince come i fatti allegati non siano stati specificamente contrastati (non potendo reputarsi che, a fronte della affermazione secondo cui la ricorrente avrebbe impiegato il proprio denaro personale per l’acquisto e la costruzione del bene comune, in realtà la maggior parte delle spese sarebbe stata sostenuta dall’attore, non equivalendo tale affermazione a negare che l’altra parte del denaro provenisse dal patrimonio personale della convenuta).
Va perciò ribadito che la parte, a fronte di una allegazione della controparte chiara e articolata in punto di fatto, ha l’onere ex art. 167 c.p.c. di prendere posizione in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità e, se non lo fa, i fatti dedotti debbono ritenersi non contestati, per i fini di cui all’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 9439 del 23/03/2022).
L’erroneo assunto del giudice di appello circa la assoluta inapplicabilità del principi di non contestazione, solo in ragione della data di introduzione del giudizio, ha quindi inficiato la correttezza della decisione impugnata, dovendosi avere invece riguardo al contenuto delle difese della parte nei cui confronti era stata compiuta l’allegazione, senza peraltro doversi esigere, perché i fatti fossero reputati pacifici, che vi fosse un esplicito riconoscimento della loro veridicità ovvero che la difesa fosse
fondata su affermazioni o argomentazioni logicamente incompatibili.
Va però evidenziato, quanto al compito assegnato al giudice di rinvio, che è pacifico che l’acquisto del terreno sul quale risulta poi essere stato edificato il fabbricato di cui si chiede la divisione, è avvenuto allorché i coniugi erano in regime di comunione legale (così pag. 24 del ricorso e pag. 7 del controricorso), così che occorre attenersi al principio per cui la norma dell’art. 192, terzo comma, cod. civ. attribuisce a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione – totale o parziale -del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione ” de residuo ” solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale “ex” art. 177, primo comma lett. a), cod. civ., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, primo comma, cod. civ., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione (Cass. n. 10896 del 24/05/2005; Cass. n. 19454/2012; Cass. n. 20066/2023).
Il terzo motivo di ricorso principale lamenta la nullità della sentenza e del procedimento, con violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e/o dell’art. 115 c.p.c., in reazione agli artt. 2712 e 2719 c.c., nella parte in cui la Corte d’Appello, rigettando
la domanda di rimborso della ricorrente, ha ignorato la corposa documentazione che era stata prodotta, e che attestava in maniera analitica i singoli esborsi effettuati, sia per l’acquisto, che per l’attività di edificazione ed, infine, per le migliorie apportate in epoca successiva alla separazione.
La sentenza risulta del tutto silente al riguardo, ma ove voglia sostenersi che si tratti di una implicita valutazione di assenza di rilievo probatorio, la medesima è evidentemente erronea perché in contrasto con l’art. 115 c.p.c., essendosi negata ogni rilevanza a copie fotostatiche la cui conformità agli originali non risulta essere stata contestata.
Il quarto motivo di ricorso, in relazione alle stesse argomentazioni sviluppate con il terzo motivo, denuncia la violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
I motivi, in ragione dell’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, e della necessità quindi per il giudice di rinvio di dover prendere in esame la condotta della controparte ai fini del riscontro della non contestazione, con una nuova rivalutazione del complessivo materiale istruttorio in atti, sono assorbiti.
Il quinto motivo di ricorso principale denuncia la nullità della sentenza o del procedimento, per violazione e falsa applicazione dei principi che regolano l’ammissione delle istanze istruttorie in relazione agli artt. 346, 342 e 359 c.p.c. è del pari assorbito, essendo stato formulato in via subordinata all’ipotesi di mancato accoglimento dei primi due motivi.
L’ordine logico delle questioni impone la preventiva disamina del settimo e dell’ottavo motivo di ricorso.
Il settimo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. la nullità della sentenza per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, con motivazione apparente, illogica, incongrua o contraddittoria.
Si deduce che era stato dedotto che tra la data di redazione della CTU estimativa dei beni comuni e la data della decisione in appello era decorso un ampio periodo di tempo, nel corso del quale era intervenuto un indiscutibile e vistoso crollo del mercato immobiliare.
Infatti, già nel corso del giudizio di primo grado era stata sollecitata la rinnovazione della Ctu e la richiesta era stata reiterata nel corso del giudizio di appello, tanto che nella comparsa conclusionale si erano allegati vari indici dai quali evincere come il valore dell’immobile si fosse considerevolmente e sensibilmente ridotto rispetto alla data cui risaliva la stima dell’ausiliario d’ufficio.
La Corte d’Appello ha del tutto ignorato tale sollecitazione, ma ha provveduto in maniera del tutto immotivata a reputare che l’aumento di valore della nuda proprietà (oggetto della divisione, in ragione del diritto di usufrutto vantato dalla madre della ricorrente) fosse compensato dal decremento del mercato immobiliare.
Si assume che invece il fattore costituito dalla crisi del mercato ha ampiamente sopravanzato l’aumento di valore correlato alle vicende dell’usufrutto, mancando in ogni caso una specificazione del dato, essendo anche erronea, ed in contrasto con il reale andamento, l’affermazione secondo cui il mercato immobiliare nell’anno 2017 era in ripresa.
L’ottavo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 728 c.c., in relazione alle medesime argomentazioni di cui al settimo motivo.
Infatti, il diniego di rinnovo della CTU ha impedito di appurare quale fosse l’effettivo valore del bene alla data della divisione, trascurando le puntuali indicazioni fornite dalla ricorrente, ed incidendo in tal modo sulla corretta determinazione dell’entità del conguaglio dovuto per effetto dell’attribuzione del bene non comodamente divisibile.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono fondati.
In sede di divisione, il valore dei beni si determina con riferimento ai prezzi di mercato correnti al tempo della decisione della causa e deve essere, conseguentemente, aggiornato d’ufficio anche in appello in ragione delle fluttuazioni dello specifico settore (Cass. n. 20383 del 26/07/2019), dovendosi in particolare tenere conto di ogni elemento incidente sul valore di mercato (Cass. n. 5993 del 04/03/2020).
E’ pur vero che, al fine di temperare il rigore del principio che impone l’aggiornamento della stima, con il concreto pericolo di una reiterata rinnovazione delle operazioni peritali, onde stabilire il valore attuale del bene, questa Corte ha affermato che (Cass. n. 3029/2009), poiché occorre assicurare la formazione di porzioni di valore corrispondenti alle quote, la stima dei relativi beni deve essere effettuata in epoca non troppo lontana rispetto a quella della decisione; tuttavia, in considerazione della possibile stasi del mercato e del conseguente deprezzamento di alcuni beni, la parte che sollecita una rivalutazione degli immobili per effetto del tempo trascorso dall’epoca della stima deve allegare ragioni di
significativo mutamento del valore degli stessi intervenute “medio tempore”, non essendo sufficiente il mero riferimento al lasso temporale intercorso (Cass. n. 29733/2017; Cass. n. 21632/2010), deve però rilevarsi che, anche in ragione del notevole lasso di tempo trascorso dalla data del deposito della CTU in primo grado (novembre 2008) a quella della decisione (Aprile 2017), non fosse inverosimile un mutamento dell’andamento del mercato Immobiliare, avendo anche parte ricorrente, con le specifiche allegazioni contenute nella comparsa conclusionale, assolto all’onere di individuazione delle ragioni di significativo mutamento del valore dei beni intervenuto ” medio tempore “.
La soluzione del giudice di appello, in disparte l’assenza di una specifica individuazione dell’incidenza del decorso del tempo sul valore dell’usufrutto residuo, si risolve in una sostanziale immotivata affermazione circa l’incidenza del tempo sulla stima del bene, ma del tutto disancorata da elementi di carattere tecnico (essendosi implicitamente reputata non più attendibile la stima del CTU), in assenza di una individuazione di come in concreto fosse mutato il mercato immobiliare.
Per l’effetto devono essere accolti anche i motivi in esame, dovendo il giudice del rinvio disporre un aggiornamento della stima ovvero indicare gli elementi in base ai quali ritiene di addivenire ad una rinnovata valutazione del compendio comune.
L’accoglimento dei motivi di cui al punto che precede comporta poi l’assorbimento del sesto motivo di ricorso che, sempre in relazione alla questione concernente la stima degli immobili, denuncia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c. nonché per la violazione del principio del contraddittorio e
della difesa, per avere il giudice pronunciato d’ufficio circa l’assenza di valore dell’usufrutto, con motivazione apparente, omettendo di sollecitare il previo contraddittorio delle parti.
8. Il motivo di ricorso incidentale lamenta ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 1114 e 720 c.c., quanto all’affermazione della non comoda divisibilità del bene comune, nonché la nullità della sentenza ex art. 360 co. 1, n. 4, c.p.c. per la violazione dell’art. 132 e 156, co. 2, c.p.c., per omessa, apparente motivazione, in ordine al rigetto della richiesta di divisione in natura.
Assume il mezzo di gravame che la Corte d’Appello ha erroneamente affermato che il bene non fosse comodamente divisibile, pervenendo poi alla sua attribuzione alla moglie, reputando che tale conclusione fosse avallata dagli accertamenti del CTU.
Si deduce che invece la lettura dell’elaborato peritale evidenziava come fosse possibile una divisione in natura, previo adeguamento degli impianti a servizio dell’appartamento, posto che già attualmente vi sono due unità abitative, ed un garage, che però presentano in comune solo gli impianti.
Ne deriva che il giudice avrebbe dovuto dividere in natura, anche in ragione della non particolare entità dei costi necessari per munire ogni unità abitativa di un impianto autonomo.
Il motivo va disatteso.
In primo luogo, deve escludersi che la sentenza sia affetta da nullità per difetto assoluto di motivazione, atteso che la decisione gravata, con il richiamo al contenuto della CTU, nella quale sono espresse le ragioni che hanno indotto l’ausiliario a concludere per la non comoda divisibilità in natura, soddisfa il requisito del cd.
minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014).
La sentenza impugnata ha peraltro deciso la controversia in conformità della giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’art. 718 c.c. trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., qualora i beni secondo accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, coerente e completa -non siano “comodamente” divisibili e cioè, nel caso in cui sia elevata la misura dei conguagli dovuti tra le quote da attribuire, ovvero quando, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento – non compromesse da servitù, pesi o limitazioni eccessive e non richiedenti opere complesse o di notevole costo – o, infine, tali che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risultino sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero. (Cass. n. 27984 del 04/10/2023; Cass. n. 21612/2021; Cass. n. 25888/2016; Cass. n. 3635/2007). Come si ricava dalla consulenza tecnica d’ufficio, il cui contenuto è peraltro riportato anche in controricorso, la divisione in natura, in grado di assicurare la fruizione di singole unità abitative immediatamente suscettibili di autonoma fruizione, imporrebbe la realizzazione di un autonomo impianto idrico, elettrico e termico a favore dell’unità da assegnare all’altro condividente; inoltre sarebbe necessario frazionare la corte di terreno, che allo stato è comune, e bisognerebbe anche suddividere il locale garage, con la creazione di una divisione interna e l’apertura di un nuovo varco di ingresso con porta basculante.
Trattasi di consistenti opere edili (cui si connettono anche adempimenti di carattere burocratico), il cui costo risulta indicato dal CTU alla data della perizia in € 25.500,00, oltre IVA, somma questa che rapportata al valore dei beni in comunione (e tenuto conto della nuda proprietà), eccede ampiamente la percentuale del 10 %.
Ritiene il Collegio che la valutazione del giudicr di merito, che ha condiviso la conclusione del CTU circa la non comoda divisibilità, proprio per l’eccessività dei costi necessari per assicurare la creazione di un’autonoma unità abitativa, munita anche di autonomo garage, sia insindacabile e che pertanto il motivo debba essere rigettato.
Il giudice di rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Poiché il ricorso incidentale è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Accoglie il primo, il secondo, il settimo e l’ottavo motivo del ricorso principale nei limiti di cui in motivazione, e rigetta il ricorso incidentale, assorbiti gli altri motivi del ricorso principale;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’Appello di ancona, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 21 marzo 2024