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Divieto di patto commissorio: nullo il lease back

La Corte di Cassazione ha confermato la nullità di un’operazione di ‘sale and lease back’ per violazione del divieto di patto commissorio. Il caso riguardava la vendita di un immobile da una società a un’impresa di leasing, che lo ha poi concesso in locazione finanziaria a una società collegata alla venditrice e in grave difficoltà economica. La Corte ha ritenuto che l’intera operazione fosse un meccanismo per garantire un finanziamento in frode alla legge, identificando diversi elementi sintomatici come la crisi finanziaria dell’utilizzatore e le condizioni contrattuali anomale.

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Leasing e Divieto di Patto Commissorio: Quando un Contratto è Nullo

Un’operazione di ‘sale and lease back’, sebbene formalmente lecita, può nascondere un’intenzione fraudolenta volta ad aggirare norme imperative del nostro ordinamento. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre un’analisi dettagliata su come riconoscere quando un contratto di leasing viola il divieto di patto commissorio, sancito dall’articolo 2744 del Codice Civile, rendendo l’intera operazione nulla. Esaminiamo i fatti e i principi di diritto affermati dai giudici.

I Fatti di Causa: Un’Operazione Finanziaria Complessa

Il caso nasce dall’azione legale intentata dal curatore fallimentare di una società a responsabilità limitata. Quest’ultima aveva convenuto in giudizio una nota società di leasing e un’altra impresa ad essa collegata. L’obiettivo era ottenere la dichiarazione di nullità di un contratto di compravendita e del relativo contratto di leasing collegato, aventi ad oggetto un fabbricato industriale.

La ricostruzione dei fatti ha evidenziato una struttura negoziale articolata:
1. Una società (la venditrice), facente capo alla stessa compagine proprietaria di un’altra azienda (l’utilizzatrice), vende un capannone industriale a una società di leasing.
2. La società di leasing concede immediatamente lo stesso immobile in locazione finanziaria (leasing) alla società utilizzatrice, che già vi svolgeva la propria attività e versava in una gravissima crisi finanziaria.
3. L’intero corrispettivo della vendita, incassato dalla società venditrice, viene riversato a favore della società utilizzatrice per fornirle liquidità.

Secondo il curatore fallimentare, questa operazione non era un semplice ‘lease back’, ma un meccanismo per eludere il divieto di patto commissorio, creando un vantaggio indebito per la società di leasing a danno della società in crisi e dei suoi creditori.

L’Analisi della Corte e il Divieto di Patto Commissorio

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello hanno accolto la tesi del fallimento, dichiarando la nullità di entrambi i contratti. La società di leasing ha quindi proposto ricorso in Cassazione, sostenendo la piena legittimità dell’operazione trilaterale.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando la decisione dei giudici di merito. Il punto cruciale non è la liceità del contratto di ‘lease back’ in sé, ma l’analisi della sua causa concreta, ovvero lo scopo pratico perseguito dalle parti. Quando l’operazione è strutturata in modo da avere una funzione di garanzia per un finanziamento, in un contesto di difficoltà economica del debitore, si entra nel campo minato della frode alla legge. Il divieto di patto commissorio serve proprio a proteggere il debitore in difficoltà, impedendo che il creditore possa appropriarsi del bene dato in garanzia in modo automatico in caso di inadempimento, spesso per un valore superiore al credito stesso.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha smontato i tre motivi di ricorso presentati dalla società finanziaria. Ha chiarito che non vi era stata alcuna omissione di pronuncia, ma un tentativo inammissibile del ricorrente di ottenere un nuovo esame dei fatti.

Nel merito, la Corte ha ribadito che per accertare la violazione del divieto di patto commissorio attraverso contratti collegati, il giudice deve verificare la presenza di specifici ‘elementi sintomatici’. Nel caso di specie, la Corte d’Appello li aveva correttamente individuati:

* La situazione di difficoltà finanziaria: L’esistenza di una crisi economica e di indebitamento della società utilizzatrice al momento della stipula dei contratti.
* Le condizioni contrattuali anomale: La previsione di un maxi canone iniziale e la costituzione di un pegno di notevole importo, clausole sproporzionate che accentuavano lo squilibrio tra le parti, a tutto vantaggio della società di leasing.
* Il collegamento societario: La stretta relazione tra la società venditrice e quella utilizzatrice, controllate dalla stessa compagine familiare, dimostrava che l’intera operazione era finalizzata a sostenere l’azienda in crisi.
* La funzione di garanzia: L’alienazione del bene non avveniva a valori di mercato, ma era funzionale a garantire alla concedente un bene di valore superiore a fronte della liquidità fornita.

Infine, la Corte ha respinto la censura di ‘motivazione apparente’, affermando che la sentenza d’appello, seppur sintetica, aveva esaminato adeguatamente i motivi di gravame e spiegato in modo chiaro l’iter logico che l’aveva portata a confermare la decisione di primo grado, rispettando così il ‘minimo costituzionale’ richiesto.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza consolida un principio fondamentale: la sostanza prevale sulla forma. I giudici hanno il dovere di guardare oltre la nomenclatura formale dei contratti (‘compravendita’, ‘leasing’) per indagare la reale funzione economica dell’operazione. Se emerge che lo scopo primario è quello di creare una garanzia atipica che elude il divieto di patto commissorio, l’intera architettura contrattuale è destinata a crollare sotto la sanzione della nullità per frode alla legge (art. 1344 c.c.). Per le imprese, ciò significa che le operazioni di ‘lease back’, specialmente se realizzate in contesti di crisi finanziaria e tra parti collegate, devono essere strutturate con la massima trasparenza e correttezza, per non incorrere nel rischio di essere considerate illecite.

Cos’è il divieto di patto commissorio?
È la norma (art. 2744 c.c.) che vieta l’accordo con cui un debitore e un creditore stabiliscono che, in caso di mancato pagamento del debito, la proprietà del bene dato in garanzia passi automaticamente al creditore. La legge vuole così tutelare il debitore, impedendo al creditore di approfittare della sua debolezza.

Quando un’operazione di ‘lease back’ può essere considerata nulla?
Un’operazione di ‘lease back’ può essere dichiarata nulla quando, analizzando le circostanze concrete, emerge che la sua funzione reale non è quella di una normale locazione finanziaria, ma quella di garantire un finanziamento eludendo il divieto di patto commissorio. Gli indici di questa anomalia sono, ad esempio, la preesistente difficoltà economica dell’utilizzatore, la sproporzione tra il valore del bene e il prezzo, e la presenza di clausole contrattuali eccessivamente vantaggiose per la società di leasing.

In appello, è sufficiente che il giudice condivida la decisione di primo grado senza un’analisi critica?
No. La Corte di Cassazione chiarisce che la sentenza d’appello, anche se conferma la decisione precedente, deve dare conto delle ragioni della conferma in relazione ai specifici motivi di impugnazione. Deve esaminare criticamente le argomentazioni dell’appellante e spiegare perché sono infondate, esplicitando il proprio percorso logico-argomentativo, anche se in modo sintetico.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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