Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14102 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14102 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 20175/2023 r.g. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata al ricorso, da ll’ Avvocato Prof. NOME COGNOME presso il cui studio elettivamente domicilia in Catania, al INDIRIZZO
–
ricorrente –
contro
FALLIMENTO RAGIONE_SOCIALE in persona del curatore Avv. Prof. NOMECOGNOME COGNOME rappresentato e difeso, giusta procura speciale allegata al controricorso, dall’ Avvocato NOME COGNOME presso il cui studio elettivamente domicilia in Catania, alla INDIRIZZO
–
contro
ricorrente e ricorrente incidentale e
COGNOME NOME COGNOME tutti quali eredi di NOME COGNOME e la prima anche in proprio; COGNOME; COGNOME NOME; RAGIONE_SOCIALE RAPPRESENTANZA GENERALE PER L’ITALIA.
avverso la sentenza, n. cron. 1274/2023, della CORTE DI APPELLO DI CATANIA depositata in data 03/07/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 15/05/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Con atto ritualmente notificato, il Fallimento RAGIONE_SOCIALE citò NOME COGNOME e NOME COGNOME, ex amministratori della società fallita, nonché NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME componenti (effettivi e supplenti) del collegio sindacale, innanzi al Tribunale di Catania per sentirne dichiarare la responsabilità risarcitoria nei confronti della massa dei creditori ed ottenerne la condanna al risarcimento del danno quantificato in € 2.658.518,00, corrispondente al deficit fallimentare, ovvero, in subordine, accertato il momento a partire dal quale -in ragione della palese inattendibilità dei dati di bilancio -doveva considerarsi perduto il capitale sociale, in misura pari alle spese non coerenti con la gestione meramente conservativa dell’impresa. In via del tutto subordinata, chiese la condanna dei medesimi convenuti, in solido, al pagamento di € 230.000,00, oltre rivalutazione ed interessi, per l’illegittima re stituzione ai soci di finanziamenti in violazione dell’art. 2467 cod. civ, di € 351.806,93, oltre rivalutazione ed interessi, per i maggiori importi derivanti dalle cessioni e dagli affitti di rami di azienda effettuati a prezzi non corrispondenti all’effettivo valore, e di € 589.067,79, oltre rivalutazione ed interessi, per crediti tributari e previdenziali non onorati.
A sostegno delle rassegnate conclusioni, dedusse che, dichiarato il fallimento della società in data 9 aprile 2010, a seguito delle indagini svolte dal consulente della curatela, era emerso che gli amministratori avevano commesso gravi irregolarità nella gestione ed avevano violato gli obblighi inerenti la conservazione ed integrità del patrimonio sociale con conseguenti
danni per la società e per i creditori. In particolare, la società, nel corso dell’esercizio 2006, aveva interamente perduto il capitale sociale e gli amministratori avevano fraudolentemente occultato la perdita: a ) non indicando nella contabilità sociale le gravi perdite registrate a seguito delle operazioni in strumenti finanziari derivati, dalle quali gli amministratori avrebbero dovuto astenersi in quanto estranee all’oggetto sociale ed altamente rischiose; b ) non istituendo i necessari strumenti organizzativi idonei a verificare l’esatta consistenza delle giacenze di magazzino, che era stato sovrastimato al fine di occultare le reali perdite registrate nei singoli esercizi sociali; c ) depauperando il patrimonio sociale affittando o cedendo rami di azienda a prezzi non corrispondenti all’effettivo valore; d ) omettendo il regolare pagamento delle imposte; e ) restituendo ai soci finanziamenti quando la società si trovava già in stato di decozione, e, quindi, violando, il disposto dell’art. 2467 cod. civ.
1.1. Instauratori il contraddittorio, si costituirono tutti i convenuti, contestando le avverse pretese e concludendo per il loro il rigetto.
NOME COGNOME, presidente del collegio sindacale, chiese ed ottenne di essere autorizzato a chiamare in giudizio la compagnia di assicurazioni RAGIONE_SOCIALE per essere manlevato in caso di condanna. Quest’ultima, costituendosi, eccepì l’inoperatività della g aranzia nel caso di specie, nonché l’infondatezza delle domande attoree.
A seguito del decesso di NOME COGNOME il giudizio veniva dichiarato interrotto e tempestivamente riassunto dalla curatela (anche) nei confronti dei suoi eredi.
1.2. L’adito tribunale, istruita la causa documentalmente e con ammissione e svolgimento di una consulenza tecnica contabile, con la sentenza del 23 novembre 2020, n. 3898, rigettò tutte le domande, principali e subordinate, del Fallimento.
Pronunciando sul gravame promosso da quest’ultimo contro questa decisione, l’adita Corte di appello di Catania, con sentenza del 3 luglio 2023, n. 1274, resa nel contraddittorio con NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e di RAGIONE_SOCIALE (Rappresentanza Generale
per l’Italia), nonché nella contumacia di NOME COGNOME (in proprio e quale erede di NOME COGNOME), NOME COGNOME e NOME COGNOME (entrambi quali eredi di NOME COGNOME), NOME COGNOME (in proprio e quale erede di NOME COGNOME), NOME COGNOME e NOME COGNOME (entrambi quali eredi di NOME COGNOME), dispose, tra l’altro: «, dichiara cessata la materia del contendere tra la curatela appellante, COGNOME NOME in proprio e quale erede di COGNOME NOME unitamente a COGNOME NOME e COGNOME NOME; in parziale accoglimento dell’appello, condanna COGNOME NOME, COGNOME Remo e COGNOME NOME, in solido, al pagamento, in favore della curatela, della somma di € 103.250,00, oltre rivalutazione monetaria dal 31.12.2009 e con gli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata fino al soddisfo; dichiara che RAGIONE_SOCIALE Generale per l’Italia deve tenere indenne COGNOME Remo di quanto il predetto deve pagare in forza della presente sentenza entro il limite di massimale di polizza e detratta la franchigia contrattualmente stabilita; ».
2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte: i ) preliminarmente, diede atto della cessazione della materia del contendere tra la curatela attrice, da un lato, e NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME dall’altro , rilevando che la prima, « con nota in data 27.4.2021, ha depositato ‘Scrittura privata’, sottoscritta in data 11.3.2021, con la quale le dette parti hanno definito transattivamente il contenzioso in essere mediante la rinuncia della curatela all’appello e la rinuncia delle altre parti alla condanna resa in loro favore dal primo giudice con riferimento alle spese di lite »; ii ) accolse, poi, il secondo motivo di gravame, con il quale la curatela predetta aveva contestato la sentenza impugnata nella parte in cui era stata rigettata la sua domanda concernente la perdita del capitale sociale, in relazione alla sopravvalutazione di rimanenze di magazzino, per difetto di prova in ordine alla sussistenza di un patrimonio netto negativo non solo alla data del 30 dicembre 2006 ma, altresì, al 30 giugno 2009 ritenuto plausibile da parte del c.t.u. In particolare, e diversamente da quanto opinato dal tribunale -che aveva considerato accertata la sopravvalutazione delle rimanenze al 30 giugno 2009, ma, non condividendo, in quanto sganciate da elementi obiettivi
e dati certi, le valutazioni del c.t.u., aveva ritenuto che non fosse possibile ‘ verificare se a quella data il capitale sociale fosse interamente eroso ‘, per cui aveva rigettato la domanda proposta dalla curatela -osservò che « la curatela, specie a fronte della mancata tenuta della contabilità analitica di magazzino, ai fini della fondatezza del suo addebito può limitarsi a dimostrare l’inattendibilità della voce di attivo contestata senza essere tenuta, in positivo, a provare q uale fosse l’esatta misura del capitale sociale, gravando piuttosto sui convenuti i quali assumano che, a dispetto della dimostrata ex adverso sopravvalutazione dell’attivo, il capitale sociale non sarebbe andato per intero perduto, fornire la prova della detta circostanza che li manderebbe esenti da responsabilità. Invero, la conseguenza della dimostrazione della falsità dell’appostazione contab ile di una voce di attivo patrimoniale in quanto, come nella specie, sopravvalutata, non può che comportare la elisione della stessa e ciò tanto più nel caso in cui il responsabile della sopravvalutazione, violando i suoi obblighi in tema di tenuta delle scritture contabili, renda sostanzialmente impossibile l’accertamento, in positivo, della misura esatta della stessa. Nel caso di specie, peraltro, al di là dell’inequivocabile esito dell’esame dei dati di bilancio, sono le stesse vicende societarie degli esercizi 2008 e 2009 che rendono evidente la sopravvalutazione del magazzino al 30.6.2009, potendosi tutt’al più ragionevolmente dubitare finanche della correttezza della valutazione dello stesso già al 31.12.2008 (atteso che l’ultimo inventario analitico di magazzino è, non a caso, quello al 31.12.2007, e considerato che il bilancio 2008 ha visto assottigliarsi il capitale sociale ad appena € 90.200 -da € 1.300.000 nominali -e che gli stessi sindaci, nella relazione al detto bilancio con cui dichiaravano di non potere esprimere parere favorevole alla sua approvazione, oltre a dolersi della mancanza dell’inventario analitico di magazzino, rite nevano sottovalutata la quantificazione, in appena € 30.000,00, della merce guasta) ». Ribadito, dunque, che, « ai fini della dimostrazione della perdita del capitale sociale al 30.6.2009 è sufficiente, per la curatela, dimostrare, come ha fatto, la sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino », evidenziò che il metodo adottato dal c.t.u. per accertare, in
positivo, il quantum della sopravvalutazione, risultava ispirato a criteri di massimo favore per i convenuti. « Invero, premesso che minore è la percentuale di ricarico applicata per la frazione di anno 1.1-30.6.2009 maggiore risulterebbe la sopravvalutazione del magazzino, premesso che la percentuale di ricarico che emerge dalla situazione patrimoniale redatta dall ‘amministratore (e validata dal collegio sindacale presente all’assemblea straordinaria dell’8.9.2009) è pari al 98,34% (a fronte di una media de i quattro anni precedenti del 67% circa), premesso che la percentuale di ricarico del 2008 subisce un crollo fino al + 28,08% in considerazione dell’andamento estremamente negativo dell’attività e che detto andamento, all’evidenza, si accentua nel successi vo esercizio (al quale seguirà quello in cui è stato dichiarato il fallimento) in cui la percentuale di ricarico si attesta al 49,56%, l’avere il c.t.u. adottato, al fine di accertare la misura della sopravvalutazione del magazzino al 30.6.2009, la percentuale di ricarico positiva del 28,08% (registrata nell’esercizio precedente), piuttosto che quella dell’intero esercizio 2009 (negativa del 49,56%), ovvero, comunque, una percentuale di ricarico irrealisticamente positiva, costituisce una scelta di indubbio favore per i convenuti, in relazione ai quali va sempre ribadito non soltanto che non hanno tenuto, a partire dal 2008 incluso, le scritture analitiche di magazzino, bensì che anche nel processo si sono limitati a contestare la arbitrarietà della percentuale di ricarico assunta dal c.t.u. a base del suo accertamento, senza tuttavia fornire qualsivoglia elemento di segno contrario che, giusta quanto sopra esposto, gravava su di essi, a fronte della incontestata dimostrazione della sopravvalutazione del magazzino, addurre »; iii ) in merito alla quantificazione del danno da cd. perdita incrementale, condivise la modalità di sua ricostruzione adottata dal c.t.u. nominato in primo grado (« Si tratta di un metodo che il collegio condivide appieno e che si caratterizza per rifuggire da valutazioni equitative e per risultare strettamente agganciato all’unico fatto economico concretamente produttivo di danno derivante dalla prosecuzione, in guis a non conservativa, dell’attività di impresa pur a fronte della causa di scioglimento determinata dalla perdita del capitale sociale alla data del 30.6.2009 »), ritenendo costi per operazioni
non conservative realizzate tra il 30 giugno 2009 ed il 31 dicembre 2009 pari all’importo di € 294.000, ridotta della percentuale di ricarico negativa elaborata per il medesimo periodo dal c.t.u. nella misura del – 49,56%, giungendo, così, ad un danno quan tificato in € 145.000,00, oltre rivalutazione ed interessi; iv ) rimarcò che « l’accoglimento (sia pur parziale) della domanda proposta dalla curatela in via principale, in ossequio al principio dispositivo, esime la Corte dalla valutazione dei motivi di appello con cui la curatela si è doluta del mancato accoglimento delle domande dalla stessa espressamente proposte in via subordinata (e che comunque dovrebbero essere rigettate perché: a] l’addebito relativo alla restituzione del finanziamento soci in violaz ione dell’art. 2467 c.c. è stato sostenuto da idonea allegazione in punto di fatto e di diritto, da parte della curatela, soltanto nel presente giudizio di appello in chiara violazione del divieto di nova giusta quanto chiarito dalla S.C., da ultimo con Ca ss., sez. III, 22 marzo 2022, n. 9211; b] l’addebito di vendita/affitto di rami d’azienda a prezzo inferiore a quello reale è risultato infondato alla luce degli accertamenti eseguiti sul punto dal CTU e tenuto conto, con riferimento della cessione del punto vendita di Mascali, che nel prezzo pagato va all’evidenza computato anche l’accollo del debito per TFR di € 50.000,00 assunto dall’acquirente; c] l’addebito relativo al mancato pagamento di debiti tributari, con conseguente maturazione di sanzioni ed interessi, innanzitutto non è suscettibile di accertamento perché, in difetto della produzione delle domande di ammissione al passivo, dal mero stato passivo, non è possibile, nemmeno con l’ausilio del CTU, stabilire l’ammontare delle dette sanzioni e degli interessi e poi perché, in difetto di fondatezza degli altri addebiti aventi ad oggetto la vendita/affitto dei rami d’azienda e la restituzione di finanziamenti ai soci, nemmeno può sostenersi che la società avrebbe disperso le risorse mediante le quali avrebbe potuto pagare, in tutto o in parte, i tributi) »; v ) sostenne che dell’addebito ritenuto fondato « debba rispondere l’amministratore unico in carica nell’esercizio 2009, COGNOME NOMECOGNOME unitamente ai componenti del collegio sindacale in carica COGNOME Remo e COGNOME COGNOMEatteso che il terzo sindaco COGNOME ha transatto la sua quota di debito con la curatela attraverso il pagamento della
somma di € 41.750,00 ). I sindaci COGNOME NOME e COGNOME NOME sono cessati dall’ufficio in data 8.10.2007 e, quindi, vanno senz’altro esenti da responsabilità (al pari dell’amministratore unico COGNOME NOME cessato dalla carica in data 19.9.200 6), tenuto conto che l’addebito fondato è stato commesso nell’anno 2009. Con gli eredi del sindaco effettivo COGNOME NOME e con COGNOME NOME (anche in proprio quale sindaco effettivo dall’8.9.2009 al 18.3.2010), è intervenuta definizione transatti va della lite con la curatela nei termini per cui quest’ultima ha rinunciato all’appello ed i primi hanno rinunciato alle spese di lite liquidate dalla sentenza di primo grado, tanto che nei confronti delle dette parti viene adottata oggi sentenza di dichiarazione della cessazione della materia del contendere ». Rigettò, inoltre, l’eccezione del COGNOME riguardante l’asserita inoperatività del collegio sindacale in forza delle dimissioni rese da lui e dal suo terzo componente effettivo, NOME COGNOME atteso che i sindaci dimissionari restano comunque in carica in regime di prorogatio , di fatto escludendo qualunque inoperatività dell’organo di controllo; vi ) giudicò meritevole di rimprovero la condotta tenuta dai componenti del collegio sindacale per non essersi avveduti della sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino appostate, alla data del 30.6.2009, al valore di € 5.200.000. Ciò in quanto, attesa la misura irrealistica delle rimanenze di magazzino nel periodo in questione, nessun rilievo sarebbe stato possibile attribuire al verbale di verifica del magazzino svolto dai sindaci il 21 gennaio 2009, trattandosi di mero controllo fisico della corrispondenza delle giacenze alle risultanze del programma di gestione del magazzino e non della valutazione delle stesse, irrilevanti rivelandosi anche le richieste istruttorie ivi ribadite dagli appellati. Osservò, inoltre, che la condotta del collegio sindacale era censurabile poiché i sindaci COGNOME e COGNOME, pur partecipando all’assemblea straordinaria dell’8 settembr e 2009 -convocata per deliberare la riduzione del capitale sociale a fronte delle perdite sulla base della situazione patrimoniale al 30 giugno 2009 le cui rimanenze erano valutate in € 5.200.000,00 -avevano avallato l’operazione straordinaria senza valu tare rilievi alla valutazione dell’organo amministrativo e consentendo, così, di proseguire l’attività ordinaria anziché porre lo stato di
liquidazione volontaria. Puntualizzò, altresì, che « nessuna iniziativa successiva i predetti hanno assunto, né in termini di deliberazione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore ex art. 2393, comma 3, c.c. (atteso che la perdita integrale del capitale sociale non determina affatto che i danni derivanti dalla prosecuzione dell’attività di impresa in guisa non conservativa si ripercuotano soltanto a detrimento dei creditori sociali, come sembrerebbe sostenere il COGNOME, p otendo all’evidenza -sì come lo stesso articolo 2486, comma 2, c.c. prevede -incidere sul patrimonio netto, appesantendolo), né in termini di denuncia al Tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., a nulla valendo che, secondo l’assunto del COGNOME, i detti procedimenti si sarebbero conclusi in prossimità della dichiarazione di fallimento (intervenuta il 9.4.2010) e si sarebbero quindi rivelati inutili, in primo luogo perché detta considerazione ex post è irrilevante dovendosi valutare l’inerzia dei sindaci al momento in cui gli stessi avrebbero potuto e dovuto agire, e senza che possano essere mandati esenti da responsabilità per il solo accidente costituito dall’essere stata la società dichiarata fallita, e poi perché (così appalesandosi inutile la prova per testi del presidente della sezione IV civile e del dirigente di cancelleria su cui ancora in questa sede il COGNOME ha insistito) non è affatto detto che un provvedimento cautelare di sequestro conservativo (peraltro astrattamente adottabile inaudita altera parte ) non sarebbe potuto giungere in tempo utile a prevenire la trascrizione di pignoramento sui beni dell’amministratore NOME (di cui vi è menzione in atti), se l’organo deputato a deliberarlo lo avesse chiesto’ »; vi ) concluse dichiarando la « responsabilità solidale, ex art. 2407 c.c. dei sindaci COGNOME e COGNOME con l’amministratore unico del tempo, COGNOME NOME, in relazione ai danni da prosecuzione dell’attività di impresa dal 30.6.2009 al 31.12.2009, pari ad € 145.000 », ritenendo, tuttavia, di dovere tener conto della quota di debito risarcitoria imputabile al sindaco NOME COGNOME, estinta A seguito di transazione, chiarendo che la richiesta, formulata dal sindaco COGNOME e dalla sua assicurazione, fosse « senz’altro meritevole di essere accolta e che refluisce sulla posizione di tutti gli appellati ». Spiegò, dunque, che « avuto riguardo alla presunzione dettata dagli artt. 1298 e 2055 c.c., la quota
del debito di cui il COGNOME deve rispondere è pari ad € 36.250,00, considerato che il predetto ha pagato la maggior somma di € 41.750,00, è detta somma che va detratta dal debito risarcitorio complessivo gravante in capo agli odierni convenuti e che si riduce quindi ad € 103.250,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ».
Per la cassazione di questa sentenza ha promosso ricorso NOME COGNOME affidandosi ad undici motivi. Ha resistito, con controricorso, il Fallimento RAGIONE_SOCIALE proponendo anche ricorso incidentale condizionato recante un motivo. Tutti gli altri destinatari della notificazione del ricorso del COGNOME sono rimasti solo intimati. Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ex art. 380bis .1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via pregiudiziale, va disattesa l’eccezione con cui il Fallimento RAGIONE_SOCIALE ha sostenuto la non integrità del contraddittorio in questa sede (« Il ricorrente, nell’epigrafe del suo ricorso ha indicato, tra gli altri, quale resistente, ‘COGNOME NOME, nato a , contumace nel giudizio di secondo grado’, erroneamente perché il suddetto soggetto, già convenuto nel giudizio di prime cure, veniva a mancare ai vivi precedentemente alla proposizione del procedimento di appello . Inoltre , nella stessa epigrafe, erroneamente non vengono indicati gli eredi del suddetto convenuto, ai quali peraltro il ricorso non risulta notificato. Si consideri che i suddetti eredi erano stati correttamente citati nel procedimento di appello ». Cfr . pag. 7-8 del controricorso).
In proposito, infatti, è sufficiente considerare, tra l’altro, che: i ) come affatto condivisibilmente osservato dalla difesa del COGNOME nella propria memoria ex art. 380bis .1 cod. proc. civ. del 5 maggio 2025, l’odierno giudizio riguarda un’azione di responsabilità, ai sensi e per gli effetti dell’art. 146 l.fall. (r.d. n. 267 del 1942, applicabile ratione temporis ), con la quale il Fallimento ha chiesto accertarsi la responsabilità e pronunciarsi la condanna al risarcimento del danno di diversi soggetti ( ex componenti degli organi amministrativi e di controllo della fallita) che, a suo dire, avevano tutti concorso all’illecito. Si tratta , dunque, di una controversia integrante una
ipotesi di litisconsorzio passivo facoltativo, sicché trova applicazione la previsione di cui all’art. 332 c od. proc. civ. e sono ormai decorsi i termini di cui agli artt. 325 e 327, comma 1, cod. proc. civ., cui fa riferimento il comma 2 del medesimo art. 332 del già menzionato codice. Conseguentemente, nessuna incidenza può avere, oggi, sulla integrità del contradittorio la mancata notificazione della impugnazione agli eredi di NOME COGNOME; ii ) la corte distrettua le, nell’individuare le responsabilità in relazione all’addebito dalla stessa ritenuto fondato, ha opinato che « di esso debba rispondere l’amministratore unico in carica nell’esercizio 2009, COGNOME NOMECOGNOME unitamente ai componenti del collegio sindacale in carica COGNOME Remo e COGNOME NOME COGNOMEatteso che il terzo sindaco COGNOME ha transatto la sua quota di debito con la curatela attraverso il pagamento d ella somma di € 41.750,00; ). I sindaci COGNOME COGNOME e COGNOME NOME sono cessati dall’ufficio in data 8.10.2007 e quindi vanno senz’altro esenti da responsabilità (al pari dell’amministratore unico RAGIONE_SOCIALE NOME cessato dalla carica in data 19.9 .2006), tenuto conto che l’addebito fondato è stato commesso nell’anno 2009 » ( cfr . pag. 16-17 della sentenza impugnata). Detta negazione della responsabilità del RAGIONE_SOCIALE non è stata oggetto di specifica impugnazione da parte del Fallimento controricorrente, né del COGNOME.
È opportuno, poi, dare atto fin da ora che il 12 aprile 2025 è entrato in vigore il nuovo testo dell’art. 2407 cod. civ. , come sostituito dalla legge 14 marzo 2025, n. 35, che ha modificato il regime di responsabilità dei sindaci delle società di capitali con lo scopo di riequilibrare il rapporto tra doveri di vigilanza e rischio economico personale.
L’intervento normativo ha introdotto : i ) un tetto massimo di responsabilità civile, parametrato al compenso percepito dai sindaci e articolato su tre fasce (quindici, dodici e dieci volte il compenso annuo, a seconda della soglia retributiva), con esclusione del limite solo in caso di dolo; ii ) un termine di prescrizione quinquennale per l’azione di responsabilità, decorrente dal deposito della relazione ex art. 2429 cod. civ., anziché dal momento della percezione del danno; iii ) il riconoscimento espresso della
possibilità che i sindaci rispondano anche nei confronti dei singoli soci e dei terzi, in continuità con quanto già previsto per gli amministratori.
Le questioni concretamente poste dalle odierne impugnazioni, principale ed incidentale, tuttavia, così come le ragioni delle decisioni che su ciascuna di esse saranno adottate, non interferiscono con quanto sancito dalle appena descritte modifiche (né, del resto, le parti hanno ad esse fatto alcun riferimento ad esse nelle loro rispettive memorie ex art. 380bis .1 cod. proc. civ.), sicché non vi è necessità, in questa sede, di valutare l’applicabilità, o non, della norma come modificata anche ai giudizi già in corso al momento della sua entrata in vigore e relativi a fatti anteriori a quest’ultima.
Infine, ancor prima di procedere allo scrutinio dei formulati motivi delle impugnazioni suddette, giova ricordare che, come ripetutamente sancito dalla qui condivisa giurisprudenza di legittimità, la congruità della motivazione adottata dal giudice di appello deve essere verificata con esclusivo riguardo alle questioni sottoposte al suo esame, e dallo stesso risolte per decidere la controversia, risultando ad essa del tutto estranea la decisione eventualmente diversa del giudice di primo grado, la quale è destinata a rimanere interamente travolta ed assorbita da quella emessa, in sua sostituzione, dal giudice del gravame, che, dunque, può limitarsi ad una valutazione diretta del materiale probatorio messo a disposizione dalle parti, nell’ambito delle questioni sollevate con i motivi di impugnazione, senza essere tenuto ad una puntuale confutazione dei singoli punti della decisione impugnata ( cfr ., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 4226 e 395 del 2021; Cass. n. 15038 del 2018; Cass., n. 28487 del 2005; Cass. n. 9670 del 2003; Cass. n. 2078 del 1998).
Fermo, dunque, quanto precede, il primo motivo del ricorso principale del COGNOME, rubricato « Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., 147 del r.d. n. 267/42, 2727 c.c. e 115 c.p.c. Errata ripartizione dell’onere della prova tra le parti del processo », censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sufficiente -per l’assolvimento dell’onere probatorio della curatela fallimentare, in caso di azioni di responsabilità promosse ex art. 146 l.fall. -la dimostrazione della
mera inattendibilità di una posta dell’attivo (nel caso di specie, le rimanenze di magazzino). In particolare, il ricorrente lamenta che la corte territoriale, muovendo dal presupposto che la società fallita non aveva tenuto una contabilità analitica di magazzino e che alcuni elementi indiziari relativi alla vita ed alla gestione della medesima società negli anni immediatamente precedenti al fallimento (in particolare il 2008 e il 2009) erano idonei a dimostrare la ‘ macroscopica inattendibilità ‘ delle riman enze di magazzino, aveva tratto una conseguenza processuale ulteriore, vale a dire che l’intera voce di attivo (costituito dalle rimanenze di magazzino iscritte in contabilità) doveva ritenersi inesistente ed eliminata nella riclassificazione della situazione economico patrimoniale della fallita, producendo, così, automaticamente la perdita del patrimonio netto di quest’ultima. Si assume, tra l’altro, che: « La sentenza impugnata viola l’art. 2697 c.c., attribuendo un onere probatorio ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni. L’azione di responsabilità esercitata dalla Curatela del Fall. della RAGIONE_SOCIALE ha ad oggetto (tra i diversi addebiti) la richiesta di risarcimento del danno derivante dalla illecita prosecuzione dell’attività di impresa in presenza di patrimonio netto negativo. I sindaci, in particolare, sarebbero responsabili per non aver impedito la prosecuzione e la perdita incrementale a danno della massa. I fatti costitutivi di tale forma di responsabilità pacificamente consistono: a) nell’accertamento della perdita del patrimonio netto; b) nella prosecuzione dell’attività successiva a tale perdita; c) nella produzione di u n danno consistente nell’incremento di debiti non riconducibili alla gestione conservativa dell’impresa (la cd. perdita incrementale); d) nel nesso di causalità tra danno e comportamento illecito. . La sentenza impugnata, invece, ritiene sufficiente che la curatela provi solo l’inattendibilità delle rimanenze di magazzino trascurando del tutto elementi essenziali per poter ritenere provato il fatto costitutivo dell’illecita prosecuzione dell’attività d’impresa in violazione dell’art. 2484 c.c. ossia la q uantificazione dell’eventuale sopravvalutazione delle rimanenze e il momento in cui tale sopravvalutazione determina la perdita del capitale
sociale. Si tratta di fatti costitutivi basilari per l’accoglimento dell’azione di responsabilità di cui è causa che le regole processuali in tema di riparto dell’onere della prova non consentono di porre a carico di una parte diversa rispetto all’attore. Ciò, tanto più che l’errore cui incorre la corte d’appello è di ritenere (in mancanza di contabilità analitica di magazzino la cui tenuta sarebbe stata asseritamente omessa dalla società fallita) ‘sostanzialmente impossibile l’accertamento, in positivo, de lla misura della stessa ‘. La Corte d’Appello, infatti, ricostruisce la ripartizione dell’onere della prova sull’errato presupposto che le parti non avessero disponibilità di documentazione atta a dimostrare l’andamento del m agazzino e, in conseguenza, la misura è il momento della eventuale sua sopravvalutazione. . Ebbene, le fatture di acquisto, le fatture di vendita, le chiusure giornaliere dei registratori di cassa, richiamati dal Tribunale di Catania e dal c.t.u. del giudizio di primo grado, costituiscono documenti in possesso della curatela fallimentare. È la curatela fallimentare e il suo consulente ad avere affermato espressamente che tutta la documentazione contabile relativa al periodo oggetto di contestazione era completa e regolarmente tenuta . Il dato è pacifico e non è stato mai contestato dalla curatela del fallimento della RAGIONE_SOCIALE per tutto il giudizio di primo grado. L’affermazione circa la completezza delle scritture contabili comporta una sola ed esclusiva conclusione: la curatela fallimentare era ed è in possesso delle fatture di acquisto e di vendita (per le operazioni di vendita all’ingrosso) riportate nei registri Iva; la curatela fallimentare era ed è in possesso dei documenti di trasporto su tutta la merce in entrata e in uscita dal magazzino; la curatela era ed è in possesso dei registri di chiusura delle casse dei punti vendita (nel quale venivano annotate ogni giorno le vendite al dettaglio). In altri termini, la curatela era ed è in possesso di tutta la documentazione che – in modo diretto – avrebbe consentito di verificare e di accertare l’effettiva presenza nel deposito di Piano Tavola (Belpasso) della merce il cui valore era poi indicato nella relativa posta attiva di bilancio (rimanenze di magazzino). La produzione di tali documenti avrebbe consentito un’analitica e dettagliata ricostruzione delle rimanenze di
magazzino e della loro evoluzione nel corso del tempo consentendo di verificare se e quando la società, poi fallita, abbia sopravvalutato tale voce di attivo. La curatela era onerata, pertanto, a provare documentalmente la falsificazione dei dati di magazzino ma ha disatteso tale onere. Ha scelto di non produrre le prove che avrebbero consentito di dimostrare l’effettivo andamento del magazzino. Per ciò solo non può avvalersi della prova presuntiva che è succedanea nei casi in cui la parte ha la possibilità di fornire una prova diretta delle proprie pretese. . La Corte di appello, quindi, male ha fatto a invertire l’onere probatorio gravante sulla curatela attrice in ordine alla prova della perdita del capitale sociale della fallita, basando tale statuizione su un elemento -la impossibilità di accedere a documentazione idonea a ricostruire l’andamento del magazzino insussistente e smentito dagli atti di causa ».
4.1. Questa doglianza -da ritenersi ammissibile, benché recante motivi cumulati, posto che, per come concretamente argomentata, consente di individuare agevolmente in cosa consista la lamentata violazione di legge ed in cosa, invece, il prospettato vizio motivazionale. Cfr. , Cass. n. 39169 del 2021. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass., SU, n. 9100 del 2015; Cass. n. 7009 del 2017; Cass. n. 26790 del 2018) -si rivela complessivamente immeritevole di accoglimento.
Invero, proprio dalla relazione del dott. COGNOME -cfr., amplius , doc. n. 9 allegato al ricorso -richiamata dal COGNOME, emerge chiaramente che la fallita non aveva tenuto una contabilità di magazzino, sicché, ovviamente, la curatela certamente non poteva esserne in possesso. Ne consegue, quindi, che il presupposto stesso della prospettata censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ. ne resta smentito, risultando pure assolutamente condivisibile l’affermazione della corte distrettuale secondo cui « la curatela, specie a fronte della mancata tenuta della contabilità analitica di magazzino, ai fini della fondatezza del suo addebito può limitarsi a dimostrare l’inattendibilità della voce di attivo contestata senza essere tenuta, in positivo, a provare quale fosse l’esatta misura del capitale sociale, gravando piuttosto sui convenuti i quali assumano che, a dispetto della dimostrata ex adverso
sopravvalutazione dell’attivo, il capitale sociale non sarebbe andato per intero perduto, fornire la prova della detta circostanza che li manderebbe esenti da responsabilità. Invero, la conseguenza della dimostrazione della falsità dell’appostazione contab ile di una voce di attivo patrimoniale in quanto, come nella specie, sopravvalutata, non può che comportare la elisione della stessa e ciò tanto più nel caso in cui il responsabile della sopravvalutazione, violando i suoi obblighi in tema di tenuta delle scritture contabili, renda sostanzialmente impossibile l’accertamento, in positivo, della misura esatta della stessa » ( cfr . pag. 11 della sentenza impugnata).
4.2. Q uanto, poi, all’asserita non contestazione della circostanza che tutta la documentazione contabile relativa al periodo oggetto di esame sarebbe stata completa e regolarmente tenuta, è sufficiente rimarcare che una tale conclusione potrebbe riferirsi alla sola documentazione realmente esistente, non anche a quella -come quella concernente la contabilità del magazzino -accertata come inesistente. Ciò senza dimenticare che spetta, comunque, al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le risultanze processuali, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le stesse, quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione e, quindi, a fondare la decisione.
A tanto deve aggiungersi soltanto che: i ) costituisce ‘ elemento valutativo riservato al giudice del merito ‘, apprezzare, ‘ nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte ‘ (così Cass. n. 3680 del 2019), sicché tale apprezzamento è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione. Peraltro, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui viene dedotta la violazione del principio di non contestazione deve indicare sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto degli scritti difensivi avversari, in modo da consentire alla Corte di valutare la sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. ( cfr . Cass.
n. 15058 del 2024 e Cass. n. 7597 del 2025); ii ) il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043, 6257, 9429, 10712, 16118, 19423, 27328 e 35006 del 2024; Cass. nn. 1166, 8671 e 12466 del 2025); iii ) come puntualizzato da Cass. nn. 12466 e 8671 del 2025 ( cfr . le rispettive motivazioni), « Il compito di questa Corte, , non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), anche se il ricorrente prospetta un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati fattuali acquisiti in giudizio (Cass. n. 12052 del 2007), dovendo, invece, solo controllare, a norma degli artt. 132, n. 4, e 360 comma 1, n. 4, c.p.c., se costoro abbiano dato effettivamente conto delle ragioni in fatto della loro decisione e se la motivazione al riguardo fornita sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente: Cass. SU n. 8053 del 2014), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com’è in effetti accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.) ».
Il secondo motivo del ricorso principale in esame, rubricato « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c. in merito alla ritenuta sussistenza della violazione dell’obbligo di tenuta della contabilità analitica di magazzino. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 2214 c.c. in relazione all’articolo 14 del d.P.R. n. 600/73 e al d.P.R. n. 695 del 1996 art. 1., all’art.
22, comma 1, nn. 1) e 2), del d.P.R. n. 633 del 26/10/1972 », censura la sentenza impugnata per avere la stessa sostenuto, erroneamente, che i sindaci della società fallita avevano colposamente omesso di censurare tempestivamente il mancato assolvimento dell’obbligo di tenuta della contabilità analitica di magazzino da parte degli amministratori. Si deduce che «, la C orte d’appello di Catania ha ritenuto sufficiente per l’assolvimento dell’onere probatorio da parte della curatela fallimentare la dimostraz ione anche presuntiva della inattendibilità della voce dell’attivo costituita dalle rimanenze di magazzino giustificando l’inversione dell’onere probatorio a carico dei convenuti proprio sulla scorta della impossibilità di accertare le rimanenze in mancanza di una contabilità analitica di magazzino ritenendo l’obbligo di istituzione di tale contabilità violato da parte degli amministratori e consentito dal comportamento inerte degli sindaci. Tale argomentazione si pone tuttavia in contrasto con le norme civilistiche che disciplinano gli obblighi di tenuta delle scritture contabili da parte delle società di capitali. L’articolo 2214 del codice civile stabilisce che l’imprenditore commerciale è tenuto ad avere il libro giornale e il libro degli inventari oltre che a tenere le altre scritture contabili necessarie per la natura dell’attività svolta e la dimensione dell’impresa. La curatela fallimentare sin dall’atto di citazione del giudizio di primo grado ha ritenuto disatteso l’obbligo di tenuta delle scritture contabili sociali sulla scorta della asserita violazione di una disposizione in materia fiscale prevista dall’articolo 14 del d.P.R. 600/7314. Tale previsione normativa, tuttavia, è dettata dal legislatore in materia fiscale e non integra la disciplina civilistica in tema di tenuta delle scritture contabili ».
5.1. Questa doglianza risulta complessivamente insuscettibile di accoglimento.
La corte di appello ha considerato responsabile il COGNOME (con l’ altro sindaco NOME COGNOME e con l’amministratrice NOME COGNOME ) per l’accertata sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino, indipendentemente, dunque, da ogni altra considerazione sull’essere soggetta, o non, la società fallita alla disposizione di cui all’art. 14 del d.p.r. n. 660 del 1973. In altri termini, ha opinato che il non essersi l’odierno ricorrente principale accorto di
tanto, o l’averlo avallato, costituisse una violazione dei doveri dell’organo di controllo.
Orbene, appare assolutamente ragionevole ritenere che se il collegio sindacale deve vigilare sulla corretta amministrazione della società e sull’adeguatezza del suo assetto organizzativo, amministrativo e contabile, nel caso di specie, avuto riguardo alla natura e dimensione dell’impresa ( cfr ., anche in questo caso, quanto emerge dalla già citata relazione del COGNOME, richiamata nel primo motivo ), l’assetto amministrativo e contabile della RAGIONE_SOCIALE in bonis era evidentemente deficitario ed aveva consentito a ll’organo amministrativo di alterare i dati di bilancio. È questo, in buona sostanza, ciò che la corte etnea ha rimproverato al collegio sindacale.
5.2. Il resto della censura, poi, quanto alla sussistenza, o meno, di un obbliga della menzionata società di rispettare la disciplina fiscale di cui all’art. 14 del d.P.R. n. 600/73 (che, secondo il Perrone, non integrerebbe la disciplina civilistica in tema di tenuta delle scritture contabili), postula accertamenti di natura chiaramente fattuale, come tali incompatibili con il giudizio di legittimità.
Il terzo motivo di questo ricorso, recante « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c.; violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 e seguenti c.c.; violazione del principio di non contestazione ex art. 115, comma 1, c.p.c. », lamenta -« Senza recedere dai precedenti motivi di ricorso » -che l’asserita assenza di contabilità analitica di magazzino (posta a fondamento della impropria ripartizione dell’onere della prova da parte della corte di appello) è smentita da numerosi elementi acquisiti agli atti di causa e che mai sono stati contestati da parte della curatela fallimentare.
6.1. Questa censura si rivela complessivamente inammissibile alla stregua di tutto quanto si è detto con riferimento al primo motivo e tenuto altresì conto che: i ) in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso (come
concretamente accaduto nella specie) ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità ( cfr . Cass., SU, n. 34469 del 2019; Cass. n. 18695 del 2021; Cass. n. 31999 del 2022; Cass. n. 5141 del 2023). Inoltre, il vizio di motivazione per omesso esame di un mezzo istruttorio può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento ( cfr . Cass. n. 18072 del 2024 n. 16214 del 2019); ii ) come ricordato, ancora recentemente da Cass. n. 33909 del 2024 ( cfr . pag. 21 della motivazione. Nello stesso senso, vedasi anche la più recente Cass. n. 11055 del 2025, pag. 8-9 della motivazione), « in tema di prova per presunzioni, spetta al giudice di merito non solo la valutazione dell’opportunità di fare ricorso alla stessa, ma anche l’individuazione dei fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e l’accertamento della rispondenza degli stessi ai prescritti requisiti di gravità, precisione e concordanza: il relativo apprezzamento costituisce un giudizio di fatto, censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, la cui denuncia non può risolversi, peraltro, nella mera prospettazione di un convincimento diverso da quello espresso nel provvedimento impugnato, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo ».
7. Il quarto motivo di questo ricorso, rubricato « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, n. 4, c.p.c. -Inesistenza, contraddittorietà insanabile
e illogicità della motivazione in violazione dell’articolo 132, comma 2, n. 4, c.p.c. in ordine alla mancata ammissione dei mezzi di prova richiesti dal dott. COGNOME, assume che la sentenza impugnata « è comunque viziata da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, consistita nella violazione del diritto di difesa e nella manifesta illogicità della motivazione, scaturenti dalla scelta di rigettare dapprima le istanze istruttorie formulate dal convenuto resistente, e poi dichiarare non provato l’eccezione volta a paralizzare la pretesa insussistenza della contabilità di magazzino ».
7.1. Questa doglianza è complessivamente infondata.
Invero, quanto alla lamentata nullità della sentenza impugnata per pretesa motivazione insanabilmente contraddittoria e/o illogica ex art. 132 cod. proc. civ., essa mostra di non considerare minimamente che, come ancora ribadito, in motivazione, da Cass. n. 8671 del 2025 e da Cass. nn. 26383, 19423, 16118, 13621, 9807 e 6127 del 2024, l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo -qui applicabile ratione temporis , risultando impugnata una sentenza pubblicata il 3 luglio 2023 -modificato dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012), ha ormai ridotto al ‘ minimo costituzionale ‘ il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché si è chiarito ( cfr . tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 35947, 28390, 26704 e 956 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella ” mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico “, nella ” motivazione apparente “, nel ” contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ” e nella ” motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile “, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ” sufficienza ” della motivazione ( cfr . Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. nn. 20042 e 23620 del 2020; Cass. nn. 395, 1522 e 26199 del 2021; Cass. nn. 27501 e 33961 del 2022; Cass. n. 28390 del 2023) o di sua
‘ contraddittorietà ‘ (cfr. Cass. nn. 7090 e 33961 del 2022; Cass. n. 28390 del 2023). Cass., SU, n. 32000 del 2022, ha puntualizzato, altresì, che, a seguito della riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., l’unica contraddittorietà della motivazione che può rendere nulla una sentenza è quella ‘ insanabile ‘ e l’unica insufficienza scrittoria che può condurre allo stesso esito è quella ‘ insuperabile’ . Tutte ipotesi, nella specie, insussistenti (neppure è configurabile alcuna motivazione manifestamente ed irriducibilmente contraddittoria, o perplessa o incomprensibile), posto che la corte distrettuale ha spiegato, affatto esaustivamente, le ragioni cui ha ritenuto l’inammissibilità della prova testimoniale ivi articolata dal convenuto/appellato COGNOME (« Quanto alla prova per testi sulla cui ammissione sia il COGNOME che il COGNOME hanno anche in questa sede insistito, va osservato come si tratti, ad avviso del collegio, di mezzo istruttorio irrilevante ai fini della discolpa degli appellati. Invero, le testimonianze di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno tutte ad oggetto la prova della materiale effettuazione delle verifiche di magazzino, mentre nel caso a mani l’addebito ritenuto fondato dalla Corte riguarda la valutazione delle giacenze, e non già la loro fisica esistenza ». Cfr . pag. 18 della sentenza impugnata). Né rileva, in relazione ad una siffatta contestazione, la correttezza della soluzione adottata o la sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva ( cfr . Cass. n. 5375 del 2024; Cass. n. 35947 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022).
7.2. Con riguardo, poi, alla mancata ammissione (perché ritenuta irrilevante) della prova testimoniale richiesta dal COGNOME, è sufficiente rimarcare che: i ) secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, « la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni poiché, diversamente, le stesse debbono intendersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello; tale onere non è assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico,
coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle (sole) richieste – istruttorie e di merito definitivamente proposte » ( cfr . Cass. n. 30810 del 2023; Cass. n. 19352 del 03/08/2017; vedasi anche, in precedenza, Cass. n. 16290 del 2016). Nella specie, il COGNOME non ha trascritto in ricorso il verbale di udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado nel quale sarebbe stata ribadita la richiesta istruttoria, contenuta nella sua memoria ex art. 183, comma 6, cod. proc. civ., non ammessa dal tribunale, ma si è limitato ad affermare di averla ribadita nella comparsa di costituzione in appello; ii ) come si legge in Cass. n. 30810 del 2023, « il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma p rimo, num. 5, cod. proc. civ.; non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, § 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti -fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ.; una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 05/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite; ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come è stato rilevato -‘il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta’
(Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077); in tal caso, ‘la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa e, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle’ (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.); la mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999) ». Nel caso di specie, si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi e la valutazione della corte distrettuale -tenuto conto del tenore letterale dei capitoli di prova de quibus , come riprodotti in ricorso, di quanto si è detto con riferimento al primo motivo e dell’ef fettiva circostanza che, invece, secondo la corte di appello, si doveva provare, appare assolutamente corretta.
8. Il quinto motivo di questo ricorso, rubricato « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c. Violazione falsa applicazione degli obblighi gravanti sui componenti dell’organo di controllo ex articolo 2407 c.c. In merito alla violazione dell’obbligo di vigilanza connesso alla verifica delle rimanenze di magazzino », contesta, sostanzialmente, gli argomenti con cui la corte distrettuale ha ritenuto configurabile, nella specie, la responsabilità dei componenti del collegio sindacale per non essersi avveduti della sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino appostate, alla data del 30 giugno 2009, al valore di € 5.200.000,00.
8.1. Questa doglianza si rivela complessivamente inammissibile.
Innanzitutto, essa prospetta genericamente e cumulativamente vizi di natura eterogenea ( errores in procedendo ed errores in iudicando ), in
contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per Cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure ( cfr., ex aliis , anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 8671, 3284 e 2115 del 2025; Cass. nn. 33778, 26383 e 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878, 27505 e 4528 del 2023; Cass. nn. 35832 e 6866 del 2022). In altri termini, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione ( cfr . Cass. nn. 26383 e 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878 e 27505 del 2023; Cass. nn. 11222 e 2954 del 2018). È sicuramente vero, peraltro, che, « In tema di ricorso per cassazione, l’inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c., può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati » ( cfr ., in termini, Cass. n. 39169 del 2021. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass., SU, n. 9100 del 2015; Cass. n. 7009 del 2017; Cass. n. 26790 del 2018). Tanto, però, -diversamente da quanto riscontrato con riferimento al primo motivo di questo ricorso, pure recante motivi cumulati ma dove l’inammissibilità è stata esclusa perché le argomentazioni consentivano agevolmente di individuare in cosa consistesse la ivi lamentata violazione di legge ed in cosa, invece, il pure prospettato vizio motivazionale -non si rinviene nel motivo di ricorso in esame, il quale, per come
concretamente argomentato, non consente di individuare, con chiarezza, le doglianze riconducibili agli invocati vizi, rispettivamente, motivazionali e di violazione di legge, in modo tale da consentirne un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare quella teoricamente proponibili, al fine di ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse.
8.2. La censura, inoltre, non considera che ciò che è stato addebitato ai sindaci non è la mancata effettuazione di verifiche, bensì il non essersi accorti, malgrado ciò fosse evidente, della sopravvalutazione delle rimanenze di magazzino.
In altri termini, la c orte d’appello ha accertato che in bilancio le rimanenze erano state valutate € 5.200.000 e che tale dato era irrealistico. Orbene, sono proprio i principi contabili richiamati dal Perrone a sancire che il collegio sindacale deve verificare l’esistenza fisica delle rimanenze e la veridicità della valutazione fatta dagli amministratori. Nella specie, invece, i componenti del collegio sindacale come individuati dalla corte etnea, disattendo i loro doveri, si sono resi corresponsabili, ex art. 2407 cod. civ., con l’organo amministrativo per non aver vigilato in conformità agli obblighi della loro carica, causando ai creditori i danni che si sarebbero potuti evitare se avessero agito con la diligenza e professionalità richiesta.
9. Il sesto motivo di questo ricorso, rubricato « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, nn. 4 e 5, c.p.c. Violazione del diritto alla prova. Illogicità e contraddittorietà della motivazione nonché omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti in merito alla ricostruzione del nesso di causalità tra comportamento omissivo dei sindaci e danni evitabili in caso di esercizio tempestivo delle azioni », lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha imputato ai componenti del collegio sindacale l’omessa attivazione di iniziative finalizzate ad evitare o ridurre i danni posti in essere dal comportamento illecito degli amministratori della società fallita. Si deduce, tra l’altro, che la corte di appello aveva omesso « di considerare fatti notori incontrovertibili », ovvero aveva omesso « di accertare fatti (richiesti dalla difesa dei sindaci) tali da
inficiare il nesso di causalità tra comportamento omissivo dei sindaci e danno arrecato dagli amministratori per l’asserita protrazione dell’attività di impresa in presenza di deficit patrimoniale ».
9.1. Questa doglianza si rivela complessivamente inammissibile, risolvendosi, sostanzialmente, nel tentativo di ottenere una nuova valutazione dei fatti di causa, dimenticando, peraltro, da un lato, che la corte distrettuale ha espressamente valutato il fatto che alcuni componenti del collegio sindacale si erano dimessi (affermando, tuttavia, che in ragione del regime di prorogatio , ciò non avrebbe impedito la prosecuzione del regolare funzionamento dell’organo. Nemmeno vi è prova, peraltro, del momento di effettivo subentro dei componenti supplenti di quel collegio rispetto ai componenti dimissionari); dall’altro, che costituisce insegnamento costante, e qui condiviso, di questa Corte che i sindaci debbono rilevare le irregolarità commesse dagli amministratori (qui la irrealistica valutazione di rimanenze di magazzino per oltre € 5.000.000,00) e non possono limitarsi ad un atteggiamento inerte, ma debbono reagire con tutti i mezzi a loro disposizione, ivi compresa l’eventuale segnalazione al Pubblico Ministero: nulla di tutto questo è stato fatto , nell’odierna vicenda, da quei componenti del collegio sindacale (NOME COGNOME ed NOME COGNOME) cui la corte territoriale ha ascritto la corrispondente responsabilità.
Pertanto, non resta che ribadire che: i ) il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . l’ampia rassegna di legittimità riportata alla fine del precedente § 4.2. di questa motivazione); ii ) il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito, anche se il ricorrente prospetta un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati
fattuali acquisiti in giudizio, dovendo, invece, solo controllare, a norma degli artt. 132, n. 4, e 360 comma 1, n. 4, c.p.c., se costoro abbiano dato effettivamente conto delle ragioni in fatto della loro decisione e se la motivazione al riguardo fornita sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente: Cass. SU n. 8053 del 2014), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com’è in effetti accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile ( cfr . l’ampia rassegna di legittimità riportata, anche su questo punto, alla fine del precedente § 4.2. di questa motivazione),
10. Il settimo motivo di questo ricorso, recante, « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Illogicità, contraddittorietà e motivazione meramente apparente in ordine ai danni imputabili al dottor COGNOME antecedente alla data dell’8 settembre 2009 », assume essere viziata da illogicità, contraddittorietà ed apparenza la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha imputato al COGNOME – a decorrere dalla data di asserita perdita del capitale sociale della fallita – tutti i danni da incremento del deficit patrimoniale.
10.1. Questa doglianza risulta infondata.
Richiamate, infatti, le considerazioni circa i limiti di sindacato sulla motivazione ancora consentiti a questa Corte già riferiti trattando il quarto motivo, va qui aggiunto che, come ancora ribadito dalla recente Cass. n. 9218 del 2025 ( cfr . in motivazione), il vizio di omessa o apparente motivazione della decisione sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento ( cfr . Cass. nn. 27328, 19423 e 5375 del 2024; Cass. n. 35947 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. nn. 26199, 1522 e 395 del 2021; Cass. nn. 23684 e 20042 del 2020). Ne deriva che è possibile ravvisare una ‘ motivazione apparente ‘ nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non
consentano l’identificazione dell’ iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche, tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio -da apprezzarsi, peraltro, non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva ( cfr . Cass. n. 9218 del 2025; Cass. nn. 19423 e 5375 del 2024; Cass. n. 35947 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 26893 del 2020) -è, nella specie, insussistente (né è configurabile alcuna motivazione manifestamente ed irriducibilmente contraddittoria, né perplessa o incomprensibile), posto che la corte distrettuale ha spiegato, affatto esaustivamente, le modalità con cui ha determinato il danno di cui avrebbero dovuto concretamente rispondere l’amministratore COGNOME ed i componenti del collegio sindacale COGNOME e COGNOME. Nemmeno rileva, come si è già detto, in relazione ad una contestazione come quella in esame, la correttezza della soluzione adottata o la sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva ( cfr . Cass. n. 5375 del 2024; Cass. n. 35947 del 2023; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022).
10.2. Nemmeno risponde al vero, poi, che la corte di appello ha addebitato al P errone comportamenti successivi all’8 settembre 2009. La stessa, infatti, molto più semplicemente, ha opinato che già a quella data i sindaci si sarebbero dovuti accorgere della inattendibilità della stima delle rimanenze di magazzino appostata al valore di € 5.200.000.
11 . L’ottavo motivo di ricorso, rubricato « Nullità della sentenza ex articolo 360, comma 1, n. 3 e n. 4, c.p.c., violazione e falsa applicazione della disciplina di cui all’articolo 2385 e 2401 c.c. Contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione in violazione dell’articolo 132, comma 1, n. 4, c.p.c. in merito all’applicazione dell’istituto della prorogatio e all’addebito di responsabilità nei confronti del sindaco dimissionario Perrone successive alla data dell’8.9.2009 », contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha
sancito la responsabilità dell’odierno ricorrente malgrado questi si fosse dimesso alla data dell’8 settembre 2009.
11.1. Questa doglianza si rivela inammissibile perché, da un lato, non coglie l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata su questo punto (come già detto scrutinando il motivo precedente, la corte di appello non ha addebitato al P errone comportamenti successivi all’8 settembre 2009, ma, molto più semplicemente, ha ritenuto che già a quella data i sindaci si sarebbero dovuti accorgere della inattendibilità della stima delle rimanenze di magazzino appostata al valore di € 5.200.000); dall’altro, nemm eno riferisce se, ma soprattutto quando, i componenti supplenti del collegio sindacale erano realmente subentrati a quelli dimissionari.
Il nono motivo di questo ricorso, recante « Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Violazione del divieto di doppia presunzione in violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. », assume che la sentenza impugnata è nulla poiché, condannando il COGNOME e gli altri convenuti al risarcimento del danno in ragione della prosecuzione dell’attività d’impresa in assenza di patrimonio netto positivo, è incorsa nel divieto di doppia presunzione. In particolare, la stessa viene contestata nel capo che condanna i convenuti al risarcimento dei danni condividendo la ricostruzione operata dal c.t.u. sia in ordine alla quantificazione dell’ammontare dell’asserita sopravvalutazione del magazzino al 30 giugno 2009, sia in ordine ai criteri per determinare il danno imputabile ai convenuti. Si sostiene, tra l’altro, che « La Corte di Appello di Catania fa infatti proprie le conclusioni e l ‘iter ricostruttivo della asserita perdita del capitale sociale della fallita al 30.06.2009 operata dal c.t.u. Tuttavia il c.t.u. era in possesso esclusivamente dei dati di valorizzazione di magazzino iscritti nei bilanci e nelle situazioni contabili, e del registro iva acquisti e vendite. Per poter ricostruire quale fosse il valore delle rimanenze di magazzino mediante un criterio induttivo e partendo da tali dati, il c.t.u. aveva la necessità verificarne la movimentazione (e quindi il valore della merce prima della vendita) scorporando dai ricavi il margine di ricarico applicato dalla società fallita. Non essendo in possesso della indispensabile necessaria documentazione che avrebbe consentito di
determinare quale sia stata la percentuale di ricarico sulle vendite attuata dalla società fallita dal 2006 alla data di fallimento, il c.t.u. ricorre allora ad un’ulteriore presunzione. Ipotizza, infatti, che la percentuale di ricarico sulle vendite inter venuta nell’anno 2009 sia pari al 28,08%. Si tratta della percentuale di ricarico che il c.t.u. ha calcolato con riferimento all’anno 2008 (sulla base dei dati di acquisto di magazzino vendite di magazzino e ricavi). Applicando tale percentuale di ricarico il c.t.u. giunge alla conclusione che le risultanze di magazzino al 30 giugno 2009 non siano coerenti. Tuttavia, è proprio la scelta del c.t.u. che determina tale incoerenza dei valori di magazzino. Qualunque metodo induttivo (ossia un ragionamento che si fonda su presunzioni) necessita di elementi noti da cui trarre i fatti ignoti. Nel caso di specie, invece, la Corte di appello aderendo acriticamente alla ricostruzione del CTU, ricorre ad un metodo induttivo che utilizza una presunzione (la percentuale d i ricarico applicato nell’anno 2009) per elaborare un’altra presunzione (l’accertamento dell’inattendibilità delle rimanenze di magazzino al 30 giugno 2009). La sentenza è dunque viziata perché resa in violazione del divieto di doppia presunzione (ossia il divieto di dedurre il fatto ignoto muovendo da fatti altrettanto ignoti) che costituisce il limite all’applicazione dell’articolo 2729 c.c. . I criteri ricostruttivi elaborati dal CTU erano quindi inutilizzabili ed errati. L’adesione della Corte di App ello alle determinazioni (errate) del CTU inficiano la sentenza impugnata. È assolutamente opinabile e, soprattutto non è dimostrato né è stato provato dalla curatela fallimentare qual è stata la percentuale di vendita nel corso del 2009 praticata dalla società fallita. Mancando tale elemento (che costituirebbe il fatto noto da cui trarre il fatto ignoto), il c.t.u. avrebbe semplicemente dovuto attestare l’impossibilità di adempiere al mandato conferito dal giudice. Sostituendo al necessario fatto noto (la percentuale di ricarico applicato dalla società fallita nell’anno 2009) una presunzione (ossia la presunzione che la medesima percentuale di ricarico del 2008 fosse stata applicata nell’anno 2009) senza averne certezza, il CTU vizia integralmente il risultato della consulenza tecnica d’ufficio. La Corte di appello, dal canto suo, determina la nullità della sentenza aderendo alla ricostruzione illegittima posta in essere dal consulente tecnico d’ufficio.
. E tale vizio si ripercuote anche in ordine alla quantificazione del danno il cui capo unitamente al presente si impugna. La Corte di Appello di Catania, con la sentenza impugnata, aderendo alle conclusioni sulla quantificazione del danno operata dal c.t.u. nel giudizio di primo grado, incorre nel medesimo errore violando il divieto di doppia presunzione anche in ordine alla quantificazione del danno. Ed infatti il c.t.u. (cui la Corte di Appello rinvia per determinare la misura del danno imputabile ai componenti degli organi amministrativi e di controllo della fallita) – nonostante ricordi espressamente i limiti della documentazione versata agli atti e, quindi, l’impossibilità di operare la ricostruzione analitica del danno conseguente dalla vendita della merce acquistata durante il periodo di illecita prosecuzione dell’attività d’impresa -calcola l’asserito danno prodotto dalla prosecuzione dell’attività successivamente al 30 giugno 2009 ‘ipotizzando la vendita della merce in questione con un ribasso pari a quello mediamente praticato dalla fallita nell’intero esercizio 2009 ( -49,5%)’ (c.t.u. Doc. n. 5 p. 46). È una chiara un’invenzione del c.t.u. Si tratta di una situazione paradossale. Anche in tal caso il c.t.u. utilizza un metodo induttivo (la presunzione del danno cagionato ai creditori dall’illegittima prosecuzione dell’attività in un momento in cui il patrimonio sociale si era asseritamente perso) ponendo alla base di tale ricostruzione non un fatto noto (ossia quale sia stata la percentuale di ribasso applicato effettivamente nel periodo 30 giugno 2009 – 31 dicembre 2009 dalla Nuova Stock Import per le vendite) ma un ulteriore presunzione (la presunzione per cui il medesimo ribasso applicato nella prima metà del 2009 sia intervenuto anche nella seconda metà del 2009). Anche in tal caso si tratta di un’operazione che il CTU non può compiere perché in contrasto palese con quanto previsto dall’articolo 2729 c.c. come costantemente pacificamente interpretato dalla giurisprudenza di cassazione ».
12.1. Questa doglianza si rivela fondata, posto che, effettivamente, in relazione ad entrambi gli accertamenti, il c.t.u. ha preso le mosse non già da un fatto noto (nel primo di essi, la effettiva percentuale di ricarico applicato dalla società fallita nell’anno 2009; nel secondo, la percentuale di ribasso effettivamente applicata per il periodo 30 giugno/31 dicembre 2009), bensì
da una mera presunzione senza avere certezza della corrispondente circostanza (nel primo caso, la presunzione che la medesima percentuale di ricarico del 2008 fosse stata applicata nell’anno 2009; nel secondo, la presunzione per cui il medesimo ribasso applicato nella prima metà del 2009 sia intervenuto anche nella seconda metà del 2009).
Orbene, secondo la consolidata e qui condivisa giurisprudenza di legittimità, « In tema di prove, è inammissibile la cd. “praesumptio de praesumpto” , non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto per derivarne da essa un’altra presunzione » ( cfr . in termini, Cass. n. 1278 del 2019. In senso sostanzialmente analogo, si vedano pure Cass. n. 17421 del 2019 e Cass. n. 10190 del 2022).
La prova presuntiva, invero, non può ridursi ad una mera congettura od illazione. Essa, infatti, è una deduzione logica: si deve fondare su fatti certi, al fine di giungere, sulla base di massime d’esperienza o dell’ id quod plerumque accidit , alla dimostrazione di fatti incerti. La congettura, invece, è una mera supposizione: si fonda su fatti incerti e viene dedotta da questi in via di semplice ipotesi ( cfr . Cass. n. 17421 del 2019; Cass. n. 6387 del 15/03/2018; Cass. n. 14620 del 1999).
12.2. Esigenze di completezza impongono, però, di dare atto dell’esistenza di un più recente indirizzo ermeneutico secondo cui, « Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto; ne consegue che, qualora si giunga a stabilire, anche a mezzo di presunzioni semplici, che un fatto secondario è vero, ciò può costituire la premessa di un’ulteriore inferenza presuntiva, volta a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale o la verità di un altro fatto secondario » ( cfr . Cass. n. 14788 del 2024).
Il Collegio, tuttavia, non ritiene di poter condividere tale opinione.
Invero, l ‘idea che la presunzione deve muovere da un fatto certo e concreto e che da esso possa inferirsene uno non noto, secondo massime di esperienza o sulla base dell’ id quod plerumque accidit, ha lo scopo di avvalorare decisioni ancorate alla realtà e non frutto di opinabili congetture soggettive, né può pretendersi che, attraverso tale meccanismo, il processo civile debba comunque tendere alla ricerca della verità materiale piuttosto che a quella processuale: se così fosse, infatti, risulterebbe incomprensibile la funzione del l’art . 2697 cod. civ., posto che, se il giudice deve sempre accertare la verità materiale, mai si presenterebbe il caso della decisione fon data sul riparto dell’onere probatorio. Del resto, l’art. 2727 cod. civ. è chiarissimo nello stabilire che, nel ragionamento presuntivo, occorre muovere da un fatto noto.
12.3. In definitiva, quindi, le presunzioni semplici di cui all’articolo appena citato sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. Di conseguenza, gli elementi che costituiscono la premessa del ragionamento presuntivo devono avere il carattere della certezza e della concretezza. Non è possibile, perciò, considerare come ” fatto noto ” una mera presunzione, per poi inferirne un’ulteriore presunzione ( cfr ., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 10190 del 2022; Cass. n. 17421 del 2019; Cass. n. 27032 del 2007; Cass. n. 5045 del 2002; Cass. n. 1044 del 1995).
La sentenza impugnata, quindi, nella descritta parte in cui ha proceduto alla quantificazione della pretesa risarcitoria riconosciuta al Fallimento appellante non è rispettosa di tale principio, sicché, sul punto, non può essere confermata.
Il decimo motivo di questo ricorso è rubricato « Nullità della sentenza, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione. Violazione dell’art. 115 c.p.c. e del principio di non contestazione. In merito all’importo di 45.000 quale attivo ricevuto dalla fallita successivamente al 30.06.2009 e che riduce la perdita incrementale conseguente all’esercizio dell’attività di impresa in presenza di patrimonio netto negativo ». Si ascrive alla corte di appello di avere omesso di considerare, ai fini della condanna, un elemento di attivo che, ottenuto
dalla società fallita nel periodo in cui la stessa asseritamente operava in assenza di capitale sociale positivo, ha determinato un decremento della perdita imputata agli organi amministrativi e di controllo condannati. Si tratta, infatti, come risulta pacificamente dagli atti del processo, di versamenti, per l’ammontare complessivo di € 45.000, eseguiti dai soci successivamente al 30 giugno 2009 a seguito della diffida dei sindaci di provvedere alla retrocessione della restituzione di finanziamenti operata nei mesi precedenti dall’amministratore.
13.1. Questa doglianza può considerarsi assorbita per effetto dell’avvenuto accoglimento del motivo precedente, dovendo, conseguentemente, il giudice di rinvio provvedere ad una nuova quantificazione del danno concretamente riconducibile alla già accertata condotta illecita ascritta (anche) al Perrone.
14 . L’undicesimo motivo di questo ricorso, infine, rubricato « Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, c.p.c. Violazione del principio che vieta l’indebito arricchimento ex art. 2031 e ss. e dell’art. 1304 c.c., comma 1. Illogicità, contraddittorietà e apparenza della motivazione in relazione all’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. con riferimento alla mancata riduzione del danno risarcibile per effetto della transazione intervenuta con due condebitori solidali », contesta la sentenza impugnata nella parte in cui, quantificando l’importo del danno da porre a carico degli appellati, non ha tenuto conto, ai fini della condanna, delle transazioni raggiunte dalla curatela fallimentare con i sindaci COGNOME e Patti.
14.1. Questa censura si rivela fondata.
Invero, la corte distrettuale, laddove ha affrontato la questione della quantificazione dell’importo da porre a carico dei condannati COGNOME e COGNOME, ha applicato correttamente il principio ( cfr . Cass., SU, n. 30174 del 2011) degli effetti della transazione parziale stipulata da uno dei condebitori solidali con riferimento alla transazione raggiunta con il Fallimento dall’altro sindaco NOME COGNOME ma ha omesso di prevederne la medesima applicazione con riguardo alle transazioni (della cui esistenza e delle cui condizioni si dà
atto nella sentenza impugnata) stipulate nel corso del giudizio di appello dagli altri convenuti ed appellati COGNOME e COGNOME.
In altri termini, la corte distrettuale, per fare corretta applicazione del pacifico principio di diritto predetto, avrebbe dovuto suddividere l’ammontare complessivo della condanna per il numero di appellati nei cui confronti la curatela fallimentare aveva proposto domanda di condanna (e, dunque, nei confronti dell’amministratore NOME COGNOME dei sindaci NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, come emerge dall’atto di citazione nel giudizio di primo grado ) e, successivamente, avrebbe dovuto sottrarre al danno da perdita incrementale, quantificato di € 145.000, non solo la somma versata dal Bua a titolo transattivo (maggiore rispetto al valore della sua quota per € 41.750,00) ma altresì le quote di danno imputabili ai sindaci COGNOME e Patti, giungendo, così, ad un minore importo di condanna in solido dei sindaci COGNOME e COGNOME nonché dell’amministrat rice COGNOME.
Pure di tale principio, dunque, e del relativo meccanismo di calcolo da applicarsi alla eventuale, nuova quantificazione del danno concretamente riconducibile alla già accertata condotta illecita ascritta (anche) al Perrone, dovrà tenere conto il giudice di rinvio.
15. Passando, a questo punto, al ricorso incidentale del Fallimento RAGIONE_SOCIALE, espressamente qualificato come condizionato (e, come tale da esaminarsi, stante l’accoglimento, nei limiti fin qui esposti, di quello principale del Perrone), il suo unico motivo, recante « Violazione e falsa applicazione di norma di legge (art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, c.p.c.). Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. », contesta alla corte distrettuale di non essersi limitata a dichiarare assorbito il motivo di impugnazione con cui il medesimo Fallimento, subordinatamente al mancato accoglimento della sua domanda principale avente ad oggetto la determinazione del danno da illecita prosecuzione dell’attività d’impresa, aveva chiesto l’accoglimento di u na sua domanda gradata concernente il preteso danno subito per l’avvenuta illegittima restituzione dei finanziamenti postergati, ma di aver rigettato quest’ultima anche nel merito.
15.1. Questa doglianza si rivela inammissibile, in ragione dell’avvenuto accoglimento, in sede di gravame, della domanda principale della curatela.
Invero, la sentenza impugnata ha ritenuto ( cfr . pag. 16) che « l’accoglimento (sia pur parziale) della domanda proposta dalla curatela in via principale, in ossequio al principio dispositivo, esime la corte dalla valutazione dei motivi di appello con cui la curatela si è doluta del mancato accoglimento delle domande dalla stessa espressamente proposte in via subordinata (e che comunque dovrebbero essere rigettate perché: a) l’addebito relativo alla restituzione del finanziamento soci in violazione dell’art. 2467 c.c. è stato sostenuto da idonea allegazi one in punto di fatto e di diritto, da parte della curatela, soltanto nel presente giudizio di appello in chiara violazione del divieto di nova giusta quanto chiarito dalla S.C., da ultimo con Cass., sez. III , 22 marzo 2022, n. 9211 ».
È chiaro, dunque, che, proprio perché ha accolto la domanda principale, la corte etnea giustamente ha ritenuto di non dover più pronunciare su quella subordinata.
Il resto della sua motivazione sul punto risulta meramente ipotetico, sicché inidoneo a creare effettiva soccombenza, sicché le corrispondenti considerazioni non possono formare oggetto di impugnazione proprio per l’assenza di loro valenza decisoria.
16. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso principale di NOME COGNOME deve essere accolto limitatamente ai suoi motivi nono ed undicesimo, dichiarandosene inammissibili il terzo, il quinto, il sesto e l’ottavo, infondati il primo, il secondo, il quarto ed il settimo ed assorbito il decimo, mentre va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale del Fallimento RAGIONE_SOCIALE
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata la causa alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Deve darsi atto, infine, -in assenza di ogni discrezionalità al riguardo ( cfr . Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n.
15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata in relazione al suddetto ricorso incidentale, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del RAGIONE_SOCIALE, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per quel ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento ».
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il nono e l’undicesimo motivo del ricorso principale di NOME COGNOME dichiarandone inammissibili il terzo, il quinto, il sesto e l’ottavo, infondati il primo, il secondo, il quarto ed il settimo ed assorbito il decimo.
Dichiara inammissibile il ricorso incidentale del Fallimento RAGIONE_SOCIALE
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del RAGIONE_SOCIALE , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il suo ricorso incidentale, giusta il comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 15 maggio 2025.
Il Presidente NOME COGNOME