Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5143 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5143 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/02/2025
ORDINANZA
sui ricorsi riuniti 17269-2019 e 3609/2021 proposti da:
ASTARITA NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME nella loro qualità di eredi di NOME, NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME, questi ultimi in proprio e nella qualità di eredi di NOME, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME COGNOME COGNOME COGNOME e COGNOME rappresentate e difese dall’avv.
NOME COGNOME ed elettivamente domiciliate presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
-controricorrenti –
avverso le sentenze non definitiva n. 1772/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 29/03/2019 e definitiva della medesima CORTE D’APPELLO di NAPOLI, n. 4061/2020, depositata il 26/11/2020;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 7.1.2003 COGNOME NOME e COGNOME NOME evocavano in giudizio COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME innanzi il Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Sorrento, esponendo che i convenuti avevano realizzato un ampliamento del loro fabbricato, confinante con il fondo degli attori, aprendo delle vedute prima inesistenti ed invocando la condanna dei predetti a demolire quanto realizzato in violazione delle norme in tema di distanze dal confine e tra fabbricati, a chiudere le vedute realizzate e a risarcire il danno correlato. Inoltre, gli attori deducevano la natura parzialmente interclusa del loro fondo, accessibile soltanto a piedi, ed invocavano la costituzione di servitù di passaggio, pedonale e carrabile, sulla strada carrabile esistente sulla proprietà dei convenuti.
Si costituivano questi ultimi, resistendo alle domande degli attori e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna dei predetti a demolire i parapetti realizzati sul terrazzo da essi realizzato in luogo di una precedente copertura ‘a botte’ e la sopraelevazione di cd. 35 di detto terrazzo, perché tali opere sarebbero state realizzate a distanza irregolare dal confine; a rimuovere alcuni manufatti realizzati su aree
di proprietà comune, ed in particolare sulla corte esterna del fabbricato al cui interno si collocano le proprietà delle parti; ad eliminare le servitù di scolo e stillicidio create dagli attori mediante realizzazione di un cornicione sporgente posto al primo piano dell’edificio, nonché a demolire il detto cornicione.
Nel corso del giudizio di prime cure decedevano ambedue gli attori, ai quali subentravano i rispettivi eredi. All’esito dell’istruttoria, con sentenza n. 82 del 2012, il Tribunale accoglieva soltanto in parte le domande, principali e riconvenzionali, costituendo la servitù coattiva di passaggio invocata dagli attori, ed ordinando a questi ultimi di eliminare le servitù di scolo e stillicidio lamentate dai convenuti, demolendo il cornicione dal quale esse erano state create. Le altre domande, invece, venivano disattese dal primo giudice.
La decisione di prime cure veniva sottoposta ad appello principale, da parte dei convenuti, e a gravame incidentale, da parte di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, eredi degli originari attori.
Con sentenza non definitiva n. 1772/2019, la Corte di Appello di Napoli accoglieva taluni dei motivi dei gravami proposti dalle parti, ed in particolare: il terzo motivo dell’appello principale, con il quale era stata censurata la mancata condanna degli odierni controricorrenti ad eliminare o arretrare le vedute aperte sulla proprietà Verde-Astarita; il secondo e quarto motivo dell’impugnazione incidentale, con i quali era stata contestato il mancato riconoscimento, in favore degli appellanti incidentali, della proprietà esclusiva della corte esterna al fabbricato, e la mancata condanna dei COGNOME ad eliminare la veduta da essi realizzata a carico della predetta corte mediante la trasformazione della terrazza di loro proprietà in lastrico calpestabile. La Corte distrettuale, invece, rigettava il primo e quarto motivo del gravame principale,
dichiarando inammissibile il secondo, e dichiarava assorbito il terzo motivo e rigettava il quinto motivo del gravame incidentale. Rinviava infine al prosieguo la decisione sulla domanda di arretramento di alcune piante, proposta con il quinto motivo del gravame principale, e la regolamentazione delle spese di lite. Non esaminava, invece, il primo motivo dell’appello incidentale, con il quale gli odierni controricorrenti avevano contestato la mancata condanna dei Verde-Astarita ad arretrare il loro fabbricato sino al rispetto delle distanze legali.
Avverso detta pronuncia propongono ricorso per cassazione COGNOME NOME, COGNOME NOME ed NOME, in proprio e quali eredi di NOME, e da NOME, NOME ed NOME NOME, solo in quanto eredi di NOME, affidandosi a sei motivi. Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Il giudizio, distinto dal numero 17269/2019, già fissato per l’adunanza camerale del 23.1.2025, relatore cons. COGNOME è stato rinviato, con provvedimento del presidente in data 16.1.2025 all’odierna adunanza del 20.2.2015, ed assegnato al cons. COGNOME adunanza alla quale è chiamato il distinto ricorso n. 3609/2021, sempre assegnato al medesimo consigliere relatore, diretto dai medesimi ricorrenti avverso la successiva sentenza definitiva della Corte di Appello, n. 4061/2020, con la quale è stato accolto il primo motivo di appello incidentale e sono stati condannati i COGNOME-Astarita ad arretrare la loro fabbrica sino al rispetto di 10 metri dal confine con la proprietà degli odierni controricorrenti, nonché la veduta indicata con il numero 1 di cui alle pagg. 22 e 23 della C.T.U. sino al rispetto di 1,5 metri dal confine predetto; mentre è stata rigettata la domanda risarcitoria proposta dagli odierni controricorrenti, ritenendola non provata, e sono state regolate le spese del doppio grado di giudizio.
Anche contro la sentenza definitiva hanno proposto ricorso COGNOME Giuseppe, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME NOME, affidandosi a due motivi.
Nel giudizio, distinto dal n. 3609/2021, si sono costituiti con controricorso, resistendo all’impugnazione, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Con separati atti datati 11.11.2024 si è costituita, per parte controricorrente, nei due giudizi di cui anzidetto, il nuovo difensore avv. NOME COGNOME in luogo del precedente, avv. NOME COGNOME deceduto, giusta procure notarili per atti del notar COGNOME in data 5.11.2024, rispettivamente rep.7958, quanto al ricorso n. 17269/2019 e rep. 7957, quanto al ricorso n. 2609/2021.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria in ambedue i ricorsi suindicati.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Prima di esaminare i motivi di ricorso, va osservato che è chiamato alla stessa adunanza camerale il ricorso n. 3609/2021, proposto avverso la sentenza definitiva della Corte di Appello di Napoli, n. 4061/2020. Al riguardo, va data continuità al principio secondo cui ‘I ricorsi per cassazione proposti contro sentenze che, integrandosi reciprocamente, definiscono un unico giudizio (come, nella specie, la sentenza non definitiva e quella definitiva) vanno preliminarmente riuniti, trattandosi di un caso assimilabile a quello -previsto dall’articolo 335 c.p.c.della proposizione di più impugnazioni contro una medesima sentenza’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9192 del 10/04/2017, Rv. 643737; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9377 del 10/07/2001, Rv. 548071 e Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17603 del 28/06/2019, Rv. 654429). Va quindi disposta la riunione al presente giudizio di quello distinto dal n. 3609/2021.
Passando ai motivi di ricorso proposti avverso la sentenza non definitiva della Corte di Appello di Napoli, n. 1772/2019, con il primo di essi, la parte ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe rigettato il primo motivo del gravame principale, accogliendo invece il secondo dell’appello incidentale, sulla base dell’erroneo presupposto che la corte a ridosso del fabbricato distinto dalla particella 152, di proprietà dei controricorrenti, fosse a servizio esclusivo dello stesso, escludendo in tal modo la sussistenza della violazione dell’art 1102 c.c. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte distrettuale sarebbe pervenuta a tale erronea conclusione valorizzando una dichiarazione ricognitiva a firma di NOME Tommaso e NOME, da un lato, e di NOME (genitore e dante causa degli odierni ricorrenti) e NOME, dall’altro lato. Al contrario di quanto ritenuto dalla corte partenopea, poiché nel momento in cui è venuto a sorgere il condominio non vi era stata alcuna riserva della proprietà della corte di cui si discute in capo all’alienante, la stessa avrebbe dovuto essere compresa tra i beni comuni, giusta la disposizione di cui all’art. 1117 c.c. La destinazione dell’area di cui si tratta a servizio dell’intero fabbricato, peraltro, sarebbe comprovata dal fatto che essa consente l’accesso alla scala comune, insistente sulla contigua particella 595, come emergerebbe dalla planimetria catastale all. 5 alla relazione del tecnico di parte geom. COGNOME nonchè dalle foto 14 e 15 e dalla descrizione dei luoghi contenuta alle pagg. 4 e ss. della C.T.U. redatta dall’ing. COGNOMEcfr. pag. 13 del ricorso).
Con il secondo motivo, invece, i ricorrenti si dolgono della violazione dell’art. 1102 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che i manufatti eretti dagli odierni controricorrenti su parte della corte
comune di cui alla prima doglianza non avrebbero comunque limitato il pari godimento degli altri comproprietari ed avrebbero quindi costituito un uso consentito della cosa comune, rientrante nei limiti di cui all’art. 1102 c.c.
Con il terzo motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione dell’art. 1102 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché l’occupazione di parte della cosa comune, nella specie realizzata mediante la costruzione di un piccolo ripostiglio, non potrebbe mai essere ricompresa nell’ambito degli usi consentiti dalla norma.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto, sono infondate.
La Corte di Appello ha ritenuto che ‘a) la cd. corte, che altro non è che un vialetto cementato antistante quelli che originariamente erano una serie di manufatti -deposito, stalla e cellaio- allineati lungo il vialetto, è al servizio esclusivo di questa specifica porzione di fabbricato consentendone l’accesso e rappresentandone l’affaccio esterno; b) il vano al primo piano di proprietà Verde / Astarita è invece accessibile e lo è sempre stato- esclusivamente da una scala esterna posizionata in altra e distinta particella (la 595: pag. 4 della CTU ing. Macedonia); c) il vialetto non dà luce ed aria al suddetto vano del primo piano e non costituisce l’affaccio esterno del vano medesimo; d) il vialetto risulta incluso nella particella 152, pacificamente di proprietà COGNOME; e) tale particella veniva indicata (cfr. atto per notaio COGNOME dell’11 agosto 1937 con il quale fondo ed entrostante fabbricato rurale erano stati alienati a COGNOME Maria, coniugata COGNOME) come confinante non già con la corte ma con altro appezzamento di terreno che risulta ubicato al di là del vialetto in esame; f) vi è una dichiarazione ricognitiva (così espressamente intitolata dai suoi sottoscrittori, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed i coniugi COGNOME NOME e COGNOME NOME) in cui, fra l’altro, per quel che interessa in punto di
contestazione, i primi due si dichiaravano proprietari del fondo rustico con annessa casetta colonica di cui alla particella 152 con corte e gli altri due si dichiaravano, l’COGNOME proprietario di altro fondo situato nella medesima proprietà e la Verde conduttrice insieme alla propria famiglia di un altro fondo ancora, particelle 596, 782, 783 e 784, al quale si poteva accedere pedonalmente attraverso la corte del fabbricato rurale di proprietà dei germani COGNOME meglio sopra descritto …’ (cfr . pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata). La decisione impugnata, dunque, non ha riconosciuto la proprietà esclusiva del vialetto di cui si discute in capo ai COGNOME soltanto in base alla dichiarazione ricognitiva sottoscritta tra i danti causa delle odierne parti e sulla scorta di un travisamento dello stato dei luoghi, frutto dell’omesso esame di fatti decisivi, bensì sulla scorta di una complessiva ricostruzione degli stessi e della valutazione delle risultanze acquisite al compendio istruttorio, tra le quali risultano decisive, anche perché non adeguatamente attinte dalla prima censura proposta dagli odierni ricorrenti, quelle relative al ravvisato asservimento dell’area di cui si discute al servizio esclusivo della proprietà COGNOME, all’assenza di accesso ed affaccio alla stessa dal vano di proprietà RAGIONE_SOCIALE (punti a, b e c dell’elenco dianzi riportato), alla sua verificata inclusione nella particella 152, identificativa della proprietà COGNOME (punto d) ed al fatto che, nell’atto del 1937 con il quale la dante causa degli odierni controricorrenti aveva acquistato la consistenza immobiliare oggi di questi ultimi, il confine non era indicato con riferimento al vialetto di cui si discute, bensì al terreno esistente al di là di esso (punto e). Rispetto a tale articolata ricostruzione del fatto e delle prove, le censure mosse con il primo motivo, tendenti a dimostrare la comproprietà del vialetto di cui anzidetto sono per un verso inadeguate, perché, come
detto, non si confrontano con i numerosi argomenti valorizzati dalla Corte di merito, e dall’altro lato carenti del necessario grado di specificità, poiché esse fanno riferimento alla relazione tecnica di parte a firma del geom. COGNOME ed alla C.T .U. a firma dell’ing. Macedonia senza riportarne, neanche per stralcio, il contenuto, non consentendo in tal modo al collegio la doverosa verifica della decisività del vizio denunziato. Sotto quest’ultimo profilo, va anche evidenziato che la sentenza impugnata richiama, a conferma della proprietà esclusiva del cespite di cui si discute, la stessa pag. 4 della C.T.U. a firma dell’ing. Macedonia che, secondo la tesi dei ricorrenti, dimostrerebbe invece il contrario: era quindi preciso onere dei COGNOME COGNOME riportare testualmente il passaggio dell’elaborato dell’ausiliario, al fine di rendere possibile la verifica della correttezza delle conclusioni opinate dalla Corte distrettuale. In proposito, va ribadito che ‘In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013, Rv. 625839; conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015 Rv. 636120; Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 18679 del 27/07/2017 Rv. 645334; Cass. Sez. L, Sentenza n. 4980 del 04/03/2014, Rv. 630291).
Una volta esclusa la fondatezza del primo motivo, anche il secondo e terzo vanno disattesi, in quanto essi presuppongono una
comproprietà del vialetto, che tuttavia la Corte distrettuale ha motivatamente escluso.
Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame con cui era stata impugnata la statuizione, contenuta nella decisione di prime cure, secondo cui l’apertura di una botola sul terrazzo dell’edificio distinto dalla particella 152, per metterlo in comunicazione con la sottostante proprietà esclusiva COGNOME, non costituiva violazione dell’art. 1102 c.c.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha evidenziato, sul punto, che il Tribunale aveva disposto soltanto il risarcimento del danno, a fronte dell’esecuzione dell’opera contestata con il motivo in esame, ritenendo inapplicabili, nell’ambito del condominio, le regole sulle distanze, e ha dato atto che tale statuizione non era stata fatta oggetto di impugnazione. Nel riproporre la questione, gli odierni ricorrenti non attingono in modo adeguato la ratio della decisione impugnata, poiché essi non dimostrano che, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte di Appello, fosse stato proposto specifico motivo di gravame avverso la decisione del Tribunale.
Con il quinto motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione degli artt. 1051, 1052 e 1053 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente confermato la decisione del Tribunale, che aveva costituito la servitù coattiva di passaggio sul fondo distinto dalla particella 244 sul presupposto che la stessa rispondesse alle esigenze produttive del fondo dominante, il quale invece era dotato di un diverso accesso, già sufficiente ad assicurarne la coltivazione. Inoltre, secondo i ricorrenti, le esigenze
dell’agricoltura cui fa riferimento la disposizione di cui all’art. 1052 c.c., in presenza di fondo non completamente intercluso, non dovrebbero essere valutate in concreto, bensì in termini astratti e generali.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha dato atto che il fondo dominante aveva già un autonomo accesso, caratterizzato tuttavia dalla presenza di gradini in cemento e da una forte pendenza (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata) e dunque non adeguato al passaggio di motocoltivatori o motocarriole, che invece sarebbero -secondo quanto risulta dalla valutazione condotta dal C.T.U. dott.ssa agronoma COGNOME– utili per assicurare un migliore sfruttamento dei 1.400 mq. di vite, degli alberi di agrumi e delle altre coltivazioni (ulivi e alberi di noce) esistenti sul fondo dominante (cfr. pag. 16 della sentenza). Sulla base di tale apprezzamento di fatto, il giudice di merito ha ravvisato l’esistenza delle esigenze dell’agricoltura di cui all’art. 1052 c.c., le quali, esattamente all’opposto di quanto argomentato dalla parte ricorrente, non devono essere valutate in termini astratti e generali, ma con specifico riferimento alle caratteristiche del fondo dominante e delle colture ivi presenti. Sul punto, va data infatti continuità al principio secondo cui ‘La costituzione coattiva della servitù di passaggio in favore di un fondo non intercluso, ai sensi dell’art. 1052 c.c., postula la rispondenza alle esigenze dell’agricoltura o dell’industria, requisito che trascende gli interessi individuali e giustifica l’imposizione solo per interesse generale della produzione, da valutare, non già in astratto, ma con riguardo allo stato attuale dei fondi e alla loro concreta possibilità di un più ampio sfruttamento o di una migliore utilizzazione, sicché il sacrificio del fondo servente non si giustifica qualora il fondo dominante sia incolto e da lungo tempo inutilizzato a fini produttivi’ (cfr . Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 40824 del 20/12/2021, Rv. 663364;
conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5765 del 07/03/2013, Rv. 625518). La disamina condotta, sul punto, dal giudice di appello appare peraltro particolarmente puntuale, posto che la Corte partenopea si è spinta sino a valutare la possibilità di percorrere l’accesso esistente con mezzi cingolati, in modo da superare i gradini esistenti, per poi trasferire il carico degli stessi su altri mezzi su ruote, ma ha escluso tale ipotesi sia per la macchinosità delle operazioni di carico e scarico necessarie, sia perché i mezzi su ruote dovrebbero, in teoria, sostare in attesa lungo INDIRIZZO sulla quale incide parte del percorso esistente, che è interessata da un discreto transito veicolare.
Con il sesto motivo, i ricorrenti contestano la violazione degli artt. 1102 e 1117 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe, in accoglimento del gravame incidentale, erroneamente eliminato la condanna dei COGNOME al risarcimento del danno derivante dalla sostituzione della volta a botte del terrazzo ubicato al primo piano della particella 152 con un solaio piano.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello, nell’accogliere il motivo di appello incidentale che, sul punto, era stato spiegato dai COGNOME, ha evidenziato che la copertura a botte oggetto della contestata trasformazione in terrazzo era di loro proprietà esclusiva, come pure il sottostante locale, e che la trasformazione di essa in un solaio piano messo in opera a quota leggermente superiore (circa 35 cm.) previo innalzamento di parte della muratura non aveva interferito in alcun modo con la accessibilità e vivibilità del vano di proprietà COGNOME – Verde, né con il decoro e la sicurezza del fabbricato.
La statuizione viene impugnata dagli odierni ricorrenti soltanto con riferimento alla trasformazione della volta in lastrico, sul presupposto
che la prima costituisse bene comune, e non invece, come ritenuto dalla Corte di Appello, bene di proprietà esclusiva dei COGNOME. Di conseguenza, nessun rilievo assume, ai fini della decisione, l’innalzamento della quota originaria del solaio, rispetto alla preesistenza, in quanto tale aspetto non viene contestato dai ricorrenti. Ne deriva la correttezza della decisione assunta dalla Corte distrettuale, la quale, facendo corretta applicazione degli insegnamenti di questa Corte, ha richiamato il principio secondo cui ‘Il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell’edificio e che sia proprietario dell’appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l’uno e l’altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un’apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l’esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sé violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un’alterazione della cosa comune che ne impedisca l’uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6253 del 10/03/2017, Rv. 643368; cfr. anche Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 2500 del 04/02/2013, Rv. 624921)
Passando all’esame dei motivi di ricorso proposti da COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME Rita avverso la sentenza definitiva della Corte distrettuale, n. 4061/2020, con il primo di essi si contesta la violazione o falsa applicazione degli artt. 873, 875 c.c. e del P.R.G. del Comune di Vico Equense del 16.211.1982, approvato il 2.12.1986, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente applicato al fabbricato eretto dagli odierni ricorrenti le disposizioni regolamentari locali, che nella zona omogenea
‘A3’ in cui ricade l’immobile prevedono una distanza minima di 10 metri dal confine, senza considerare che detto distacco era stato previsto in funzione del divieto assoluto di realizzare, in detto comparto, insediamenti a scopo residenziale, essendo viceversa consentiti soltanto limitati interventi di adeguamento di manufatti destinati a servizio di attività agricole, per definizione insalubri e dunque necessitanti di un cospicuo distacco dal confine tra i fondi. Secondo i ricorrenti, poiché il loro edificio non rientrava tra quelli consentiti dalla norma locale, ma costituiva un fabbricato ad uso residenziale, allo stesso, ancorché edificato nella zona ‘A3’, avrebbe dovuto essere applicata la sola distanza prevista dagli artt. 873 e 875 c.c.
La censura è infondata.
La tesi degli odierni ricorrenti si fonda sull’assunto che un fabbricato, la cui edificazione è assolutamente vietata dalla norma regolamentare locale, non dovrebbe soggiacere alla distanza minima prevista per la zona in cui esso è stato realizzato, pur in modo illecito, bensì a quella, inferiore, prevista dal codice civile. Trattasi di ragionamento che, se avallato, finirebbe per premiare, in modo assolutamente irragionevole, la violazione di un divieto imposto dal regolamento locale. Tale argomento, proposto anche dalla Corte distrettuale (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata) trova conforto nel principio, affermato da questa Corte, secondo cui ‘Le norme di cui all’art. 872, secondo comma, c.c. in tema di distanze tra costruzioni, nonché quelle integrative del codice civile in subiecta materia, sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell’ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo
insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia, la sua (asserita) rumorosità e non conformità alle prescrizioni antincendio, la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, circostanze, queste, che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della P.A., e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 e ss. c.c. (o di quelle in esse richiamate)’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5143 del 22/05/1998, Rv. 515733; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4372 del 27/03/2002, Rv. 553317). Pertanto ‘… la regolarità urbanistica del fabbricato non rileva ai fini della proposizione dell’azione ripristinatoria atteso che, in ipotesi di mancato rispetto delle distanze, il provvedimento autorizzatorio può essere disapplicato dal giudice ordinario, previo accertamento incidentale della sua illegittimità, dall’altro, se le distanze sono state osservate, il vicino non ha diritto di chiedere la riduzione in pristino anche se l’immobile è abusivo’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5605 del 26/02/2019, Rv. 652764). La circostanza, dunque, che l’immobile eretto in violazione delle distanze previsto per una determinata zona di P.R.G. non rientri tra le tipologie consentite in quell’ambito territoriale, non spiega alcun effetto sull’individuazione del regime applicabile, per la cui individuazione deve farsi esclusivamente riferimento alle norme del codice civile o, se esistenti, a quelle regolamentari locali, in ragione del contesto territoriale in cui, in concreto, il manufatto sia collocato.
Solo nel caso in cui l’immobile, eretto in zona in cui non sarebbe consentita l’edificazione, rispetti comunque le distanze minime previste per l’area in cui esso è collocato, non potendosi consentire, in difetto
dei suoi presupposti, la tutela ripristinatoria, può essere riconosciuto alla parte i cui interessi siano lesi dalla costruzione abusiva una tutela a contenuto risarcitorio, finalizzata ad indennizzare il cd. ‘danno non da distanze’ (cfr . Cass Sez. 2, Sentenza n. 4754 del 29/04/1995, Rv. 492064, e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6743 del 12/11/1983, Rv. 431463). Detta ipotesi, tuttavia, non ricorre nel caso di specie.
Con il secondo motivo, i ricorrenti si dolgono dell’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe trascurato di verificare l’effettiva consistenza e l’effettivo posizionamento del preesistente fabbricato di proprietà degli odierni ricorrenti rispetto al confine. Ad avviso di questi ultimi, infatti, l’arretramento avrebbe potuto essere ordinato soltanto per le parti di nuova realizzazione, poiché solo esse potevano integrare una nuova costruzione, onde occorreva una accurata verifica in tal senso, da parte della Corte di merito, per poter accogliere la domanda ripristinatoria proposta dagli odierni controricorrenti.
La censura è infondata.
Premesso che la Corte di Appello ha accertato la consistenza originaria del manufatto di proprietà degli odierni ricorrenti, dando atto delle modifiche che lo stesso aveva subito, e ritenendo, all’esito, che l’intera fabbrica costituisse nuova costruzione (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata), va ribadito il principio secondo cui, qualora la parte proceda alla demolizione e ricostruzione, o comunque ad interventi, su un immobile preesistente, e lo trasformi in modo significativo, come (secondo la Corte di merito) è accaduto nella fattispecie, si è in presenza di un corpo che, nella sua interezza, costituisce nuova costruzione ed è quindi soggetto all’obbligo di rispetto delle norme in tema di distanze. Infatti ‘Nell’ambito delle opere edilizie -anche alla luce dei criteri di cui all’art. 31, primo comma lettera d),
della legge 5 agosto 1978, n. 457- la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima’ (Cass. Sez. U, Ordinanza n. 21578 del 19/10/2011, Rv. 619608; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 12196 del 14/04/2022, Rv. 664390). L’intero edificio, dunque, se modificato, integra una nuova costruzione e deve rispettare le norme in tema di distanze, con conseguente infondatezza della censura in esame.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione, previa la riunione al presente ricorso quello distinto dal n. 3609/2021, rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000,00 per
compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda