Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24464 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 24464 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/09/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 13804/2023 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE difesa da ll’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE difesa dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 2658/2022 depositata il 09/12/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udite le osservazioni del P.M., la Sostituta P.G. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Uditi gli avvocati NOME COGNOME per la ricorrente e NOME COGNOME per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
La vicenda giudiziaria trae origine dalla gestione delle strutture di approdo e ormeggio, destinate al servizio di trasporto non di linea nel porto di Venezia. Con ordinanza n. 245 del 3/10/2006, la gestione di tali strutture con il correlato potere di fissare le tariffe veniva affidata senza gara dall’Autorità Portuale di Venezia alla società RAGIONE_SOCIALE (il 100% delle quote era detenuto dall’Autorità portuale; nel 2016 la società si è fusa per incorporazione in RAGIONE_SOCIALE, odierna controricorrente). A partire dal 2007 fino al 2015, la RAGIONE_SOCIALE, odierna ricorrente, stipulava con RAGIONE_SOCIALE una serie di contratti di utilizzazione, con cui si impegnava a versare alla seconda un corrispettivo per l’utilizzo delle strutture. È pacifico che la RAGIONE_SOCIALE abbia usufruito dei servizi forniti da RAGIONE_SOCIALE nel periodo dal 2006 al 2015. La RAGIONE_SOCIALE successivamente contestava la legittimazione di Nethun a stipulare questi contratti e a riscuotere le tariffe. Era accaduto infatti che l’Associazione RAGIONE_SOCIALE aveva proposto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (non già contro l’originario provvedimento di affidamento del 2006, bensì) contro il diniego opposto dall’Autorità Portuale di Venezia a una richiesta di annullamento in autotutela dell’affidamento . Con d.p.r. del 24/11/2014, previo parere del Consiglio di Stato n. 2414 del 22/07/2014), veniva sancito l’obbligo di mettere a gara i servizi di gestione delle strutture menzionate all’inizio . Nel passo saliente, il Consiglio di Stato argomentava: «Infatti, se pure è vero che le società cosiddette in house, ricorrenti nella specie, essendo il capitale sociale nelle mani esclusivamente di enti pubblici, possono essere affidatarie, come stabilito dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato , di attività di competenza delle amministrazioni titolari del pacchetto azionario, è pur vero che tali società non possono avere una valenza di tipo lucrativo, caratterizzandosi in tal caso come un’entità imprenditoriale, che deve essere considerata alla stregua di qualsiasi
altro imprenditore e concorrere pertanto con essi nella possibilità di aggiudicazione». Nel frattempo (nel periodo intercorrente tra il parere del C.d.S e il d.p.r.), il 13/10/2014, le due parti avevano raggiunto una transazione, limitatamente a una parte dell’oggetto dei contratti di utilizzazione. Nelle more dell’espletamento di una nuova procedura ad evidenza pubblica, l’affidamento a RAGIONE_SOCIALE veniva prorogato con provvedimenti dell’Autorità Portuale e del Comune di Venezia. Tali atti di proroga (per il periodo successivo al 31/12/2014) venivano impugnati e annullati dal Tar del Veneto con sentenza n. 680 del 24/06/2016, attualmente (a quanto consta) soggetta ad appello avanti al Consiglio di Stato. Nel passo saliente, il Tar argomentava: «Discende da quanto rilevato l’illegittimità, per violazione dei principi nazionali e comunitari in materia di concorrenza e di abuso di posizione dominante, non soltanto dell’intervenuta proroga della convenzione stipulata tra il Comune di Venezia e l’Autorità portuale da un lato e la RAGIONE_SOCIALE dall’altro, ma anche della conseguente ratifica delle tariffe applicate dalla ricorrente, poiché tali tariffe avrebbero dovuto invece essere adottate previa valutazione della loro congruità rispetto ai costi del servizio e solo all’esito di una procedura di valutazione comparativa nell’ambito del procedimento».
In questo contesto, la RAGIONE_SOCIALE, con atto di citazione del 24/07/2018, conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia RAGIONE_SOCIALE L’attrice domandava (non già il risarcimento del danno derivante dall’impatto abusivo sulla determinazione delle tariffe di un’allegata posizione dominante della RAGIONE_SOCIALE) , bensì previa disapplicazione del provvedimento di concessione del 2006 e delle successive proroghe – l’accertamento della invalidità dei contratti di utilizzazione stipulati, per carenza di potere in capo a Nethun. Chiedeva, di conseguenza, una tutela di tipo restitutorio: la condanna della convenuta alla restituzione della somma complessiva di € 1.585.579,28, corrisposta a titolo di tariffe. In via subordinata,
domandava la restituzione della somma di € 865.579,28, pari alla differenza tra le tariffe applicate da RAGIONE_SOCIALE s.p.aRAGIONE_SOCIALE e quelle, inferiori, praticate dai precedenti gestori sino al 2006. Si costituiva in giudizio RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, contestando la domanda e proponendo, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al pagamento di € 54.296,87 per fatture rimaste insolute, nonché, in via riconvenzionale subordinata, la condanna della stessa attrice, ai sensi dell’art. 2041 c.c., al pagamento di un indennizzo per l’ingiusto arricchimento derivante dall’utilizzo dei servizi.
Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 307/2021, rigettava integralmente le domande attoree e accoglieva la domanda riconvenzionale principale della convenuta. Il giudice di primo grado riteneva che i contratti di utilizzazione non fossero inficiati dall’eventuale illegittimità degli atti amministrativi a monte, non potendosi negare il potere di autonomia negoziale della società convenuta. Inoltre, il Tribunale valorizzava l’esistenza d ell’ accordo transattivo novativo tra le parti (con riferimento a una parte dell’oggetto dei contratti).
La Corte di appello di Venezia, con la sentenza qui impugnata, ha rigettato il gravame della RAGIONE_SOCIALE e confermato la pronuncia di primo grado. La Corte territoriale ha innanzitutto precisato che il d.p.r. del 2014 aveva annullato il diniego di autotutela, ma non il provvedimento di affidamento del 2006, il quale aveva quindi continuato a produrre i suoi effetti fino alla cessazione del suo periodo di efficacia, il 31/12/2014. Di conseguenza, ha escluso che l’affidataria fosse carente di legittimazione a stipulare i contratti fino a tale data. Il giudice d’appello ha poi affermato che le questioni relative alla legittimità del provvedimento di affidamento del servizio rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. e) n. 1 d.lgs. n. 104/2010 (c.p.a.). Pertanto, al giudice ordinario era precluso sia l’annullamento sia la disapplicazione dell’atto amministrativo, in quanto quest’ultimo non
costituiva un mero antecedente logico, bensì il fondamento stesso del diritto dedotto in giudizio. La Corte ha ritenuto che, non essendo stato impugnato l’atto di affidamento del 2006 dinanzi al giudice amministrativo, questo dovesse essere considerato valido ed efficace. Con riferimento ai contratti stipulati nel 2015, successivi alla cessazione dell’affidamento originario e basati su proroghe poi annullate dal Tar, la Corte di appello ha osservato che il caso di specie non coincide con quella disciplinata dagli artt. 121 e 122 del codice del processo amministrativo, poiché esso non atteniene al contratto tra la pubblica amministrazione e l’affidatario, ma ai contratti tra quest’ultimo e i privati utilizzatori. Pur riconoscendo la giurisdizione del giudice ordinario, la Corte ha ritenuto che l’inefficacia sopravvenuta potesse essere fatta valere solo da chi aveva impugnato l’affidamento. Ha concluso che, non avendo RAGIONE_SOCIALE impugnato i provvedimenti dell’Autorità Portuale, essa fosse priva di legittimazione a far valere l’inefficacia dei contratti di utilizzazione. Infine, la Corte ha considerato l’accordo transattivo sottoscritto dalle parti il 13/10/2014 come un’autonoma ratio decidendi a sostegno del rigetto della domanda, sebbene limitatamente a una parte dell’oggetto dei contratti. Ha escluso che tale transazione fosse viziata ai sensi dell’art. 1972 c.c., in quanto non relativa a un contratto nullo per illiceità, ed ha ritenuto che l’eventuale annullabilità potesse essere fatta valere solo dalla parte che ignorava la causa di invalidità, condizione non ravvisata in capo all’appellante. Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado.
Ricorre in cassazione la NOME COGNOME con otto motivi, illustrati da memoria. Resiste RAGIONE_SOCIALE con controricorso, ricorso incidentale condizionato e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 190, 352 e 156 c.p.c. Si articola in più profili.
In primo luogo, si lamenta che la Corte di appello, a fronte della reiterazione – in sede di precisazione delle conclusioni del 21 giugno 2022 – di un’istanza di c.t.u. contabile per accertare le maggiorazioni tariffarie applicate da COGNOME rispetto ai precedenti gestori, abbia omesso di pronunciarsi su di essa. In secondo luogo, si contesta che la Corte abbia deciso la causa senza un formale provvedimento che trattenesse la causa in decisione e senza assegnare i termini per il deposito delle difese conclusive. Infine, si evidenzia che una successiva istanza di informazioni del 27 settembre 2022, volta a sollecitare chiarimenti sullo stato del procedimento, è rimasta senza risposta. Tale condotta avrebbe leso il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, comportando la nullità della sentenza.
Il primo motivo è rigettato.
Quanto al profilo procedurale, la doglianza è smentita dal provvedimento della Corte di appello del 5 ottobre 2021. Con tale atto, nel ritenere la causa «matura per la decisione», si fissava l’udienza per la precisazione delle conclusioni per il 21 giugno 2022, disponendo che essa si svolgesse mediante lo scambio di note scritte. Il provvedimento preannunciava in modo inequivocabile che, in assenza di una richiesta di trattazione orale, la causa sarebbe stata riservata per la decisione con assegnazione dei termini ordinari previsti dall’art. 190 c.p.c., decorrenti dalla data di tale udienza. La ricorrente era dunque stata posta nelle condizioni di conoscere il calendario del processo e di predisporre le proprie difese finali, con piena garanzia del contraddittorio. Non sussiste pertanto alcuna nullità processuale, avendo la Corte territoriale correttamente applicato le disposizioni che regolavano lo svolgimento del processo.
Quanto alla mancata pronuncia sull’istanza istruttoria, la censura è parimenti infondata. La decisione della Corte di appello di ritenere la causa matura per la decisione e di procedere alla fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni è frutto di una chiara e implicita valutazione di superfluità della consulenza tecnica richiesta.
Tale valutazione si sottrae a censure in questa sede, non avendo peraltro la ricorrente adeguatamente argomentato la decisività della prova non ammessa, ossia la sua idoneità a determinare, con ragionevole certezza, un diverso esito del giudizio.
-Con il secondo motivo di ricorso, la società RAGIONE_SOCIALE lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi generali in tema di giudicato amministrativo. La censura si articola in tre distinti profili, con cui si contesta l’erronea interpretazione che la Corte di appello avrebbe dato alla portata della pronuncia del Capo dello Stato, che annullò il diniego di autotutela relativo all’affidamento senza gara della concessione.
Il primo profilo di critica attiene all’ambito oggettivo del giudicato amministrativo. Secondo la ricorrente, la pronuncia di annullamento del diniego con cui l’Autorità Portuale si era rifiutata di annullare l’affidamento diretto alla RAGIONE_SOCIALE implica, quale imprescindibile antecedente logico e necessario, l’accertamento dell’illegittimità dell’affidamento stesso. Tale accertamento, anche se non esplicitato nel dispositivo, rientrerebbe nella portata del giudicato, che si estende anche alle questioni deducibili che costituiscono il presupposto della decisione. Di conseguenza, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che tale pronuncia non avesse comportato l’automatica caducazione del provvedimento di affidamento.
Il secondo profilo di critica riguarda l’ambito soggettivo e l’efficacia erga omnes del giudicato. La ricorrente sostiene che l’annullamento di un provvedimento amministrativo lo elimina dal mondo giuridico per chiunque. Tale efficacia generale, secondo l’assunto, si estende anche agli effetti prescrittivi quando viene annullato un atto a contenuto inscindibile, come nel caso dell’affidamento della concessione, che è strutturalmente e sostanzialmente unitario e non può esistere per alcuni soggetti e non per altri.
Il terzo profilo di critica si fonda sulla cosiddetta efficacia riflessa del giudicato amministrativo. La ricorrente afferma che la sentenza, quale affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche anche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo, qualora questi siano titolari di un diritto dipendente o comunque subordinato alla situazione definita in quel processo. Nel caso di specie, i contratti di utilizzazione stipulati dalla RAGIONE_SOCIALE si configurerebbero come un diritto subordinato alla validità della concessione, e pertanto la ricorrente dovrebbe beneficiare degli effetti della pronuncia di annullamento.
Il secondo motivo è rigettato.
Come ha correttamente argomentato la Corte territoriale, oggetto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica non era l’atto di affidamento della concessione del 2006, bensì il provvedimento con cui l’Amministrazione aveva rifiutato di esercitare il proprio potere di autotutela. L’annullamento di tale diniego non produce l’effetto automatico di caducare l’atto presupposto. La valutazione di illegittimità della concessione, contenuta nel parere del Consiglio di Stato e recepita nel decreto, costituisce il fondamento della decisione di annullamento del diniego, ma non si sostituisce al provvedimento di annullamento d’ufficio, che l’Amministrazione avrebbe dovuto adottare, né tantomeno a una pronuncia giurisdizionale di annullamento dell’atto di affidamento. Quest’ultimo, pertanto, non essendo stato tempestivamente impugnato, è divenuto inoppugnabile e ha continuato a produrre i suoi effetti, legittimando la concessionaria a stipulare i contratti de quibus fino alla sua scadenza (31/12/2014).
3. -Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 133 co. 1 lett. e), 121 e 122 d.lgs. 104/2010 e dei principi generali in tema di riparto di giurisdizione, per avere la Corte escluso la propria giurisdizione a valutare l’illegittimità del provvedimento di affidamento e disapplicarne gli effetti. La ricorrente lamenta che la
Corte abbia ritenuto non disapplicabile l’atto amministrativo di affidamento, sul presupposto che la questione posta attenga al fondamento stesso della domanda, piuttosto che a un antecedente logico.
La sentenza argomenta che le controversie relative alle procedure di affidamento di servizi pubblici sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, citando l’art. 133 co. 1 lett. e) d.lgs. 104/2010. Affronta poi la questione della disapplicazione, affermando a p. 16 che tale potere «non è concretamente esercitabile, perché l’accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo viene in rilievo, non già come mero antecedente logico, ma come fondamento del diritto dedotto in giudizio dall’istante». La conseguenza logica e necessaria che la Corte trae da questa premessa è che il giudice ordinario deve decidere la controversia «considerando valido ed efficace il citato provvedimento se ed in quanto non impugnato o non utilmente contestato dinanzi al giudice amministrativo».
Il terzo motivo è rigettato.
La motivazione della Corte di appello si armonizza con i principi affermati dalle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione e sui limiti del potere di disapplicazione del giudice ordinario. La domanda della ricorrente, volta a ottenere la restituzione delle somme versate sulla base della pretesa invalidità dei contratti per carenza di potere della controparte, fa discendere tale carenza direttamente dall’illegittimità della concessione amministrativa a monte. In un simile schema, la legittimità del provvedimento amministrativo non è un mero antecedente logico della decisione, ma costituisce elemento saliente della causa petendi della domanda di restituzione. Di conseguenza, al giudice ordinario è preclusa anche la disapplicazione dell’atto, il quale pertanto è da ritenersi valido ed efficace.
Per tacere di pronunce più risalenti, la correttezza di questa conclusione trova conferma in Cass. SU n. 13193 del 2018 (come
argomentato anche dalla P.M.). Tale pronuncia, nel delineare i confini del potere di disapplicazione, ha sinteticamente ribadito che una delle condizioni necessarie per l’ esercizio di quest’ultimo è che il provvedimento amministrativo non costituisca l’oggetto diretto della controversia, cioè non venga in rilievo come fondamento del diritto dedotto in giudizio, bensì si configuri quale mero antecedente logico, sicché la questione della sua legittimità si prospetti come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale.
Applicando tale principio alla presente controversia, è da confermare che la domanda della ricorrente si fonda interamente sulla richiesta di accertare l’illegittimità del provvedimento di affidamento del 2006. L’invalidità di tale atto non è una questione pregiudiziale, ma è la questione principale da cui dipenderebbe la fondatezza della pretesa restitutoria. Pertanto, il giudice ordinario non ha il potere di disapplicazione, dovendo decidere la controversia «considerando valido ed efficace il citato provvedimento se ed in quanto non impugnato o non utilmente contestato dinanzi al giudice amministrativo».
Sono inoltre inconferenti, come osservato anche dalla P.M., i richiami agli artt. 121 e 122 c.p.a. Tali norme disciplinano le sorti del contratto stipulato tra la pubblica amministrazione e l’aggiudicatario a seguito dell’annullamento della procedura di gara, ma non sono applicabili ai distinti e successivi contratti di diritto privato, come quelli di utilizzazione in esame, intercorsi tra l’affidatario del servizio e i terzi utenti.
-Con il quarto motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., a causa di una motivazione perplessa e fondata su affermazioni contraddittorie. Si evidenzia come la Corte di appello, da un lato, riconosca che la fattispecie non coincide con quella disciplinata dal codice del processo amministrativo, relativa al contratto tra pubblica amministrazione e affidatario; dall’altro, in modo contraddittorio,
applichi i principi di quel sistema per negare la legittimazione della ricorrente a far valere l’inefficacia dei contratti, in quanto non avrebbe impugnato il provvedimento di affidamento.
Il quarto motivo è rigettato.
La censura si fonda su una lettura parcellizzata della decisione impugnata, il cui percorso argomentativo è invece logico e coerente. La ratio decidendi principale e autosufficiente della pronuncia della Corte di appello, come evidenziato anche dalla Procura Generale risiede nel principio, già esaminato in relazione al terzo motivo, per cui al giudice ordinario è precluso sindacare la legittimità del provvedimento amministrativo di affidamento che, non essendo stato annullato dal giudice amministrativo, deve essere considerato valido ed efficace. Il riferimento della Corte territoriale ai principi che regolano la sorte del contratto in caso di annullamento dell’aggiudicazione nel processo amministrativo non si pone in contraddizione con la premessa, ma costituisce una risposta a uno specifico motivo di gravame con cui l’appellante stessa aveva invocato tali principi.
Non vi è, pertanto, alcuna contraddizione, ma una motivazione articolata su un argomento principale e assorbente (il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulla legittimità dell’atto amministrativo) e uno secondario e rafforzativo. Il percorso logicogiuridico seguito dal giudice di merito è chiaramente ricostruibile.
5. – Con il quinto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 22 del d.lgs. n. 82/2005, 16-decies del d.l. n. 179/2012 e 2719 c.c., in relazione all’utilizzo processuale di un accordo transattivo. Si assume che la Corte abbia fondato la propria decisione su un documento prodotto da controparte in appello, nonostante la ricorrente ne avesse tempestivamente eccepito l’inammissibilità per mancanza della necessaria attestazione di conformità all’originale, richiesta dalla legge per la produzione di copie di atti di precedenti fasi processuali.
Il quinto motivo è rigettato.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che l’obbligo per il difensore di attestare la conformità all’originale, ai sensi dell’art. 16decies del d.l. n. 179 del 2012, riguarda le sole copie informatiche di «un atto processuale di parte o di un provvedimento del giudice formato su supporto analogico», ma non si estende agli altri documenti, quali le scritture private, che vengono prodotte in giudizio a fini probatori per dimostrare i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni (cfr. Cass. n. 26200/24). Per tali documenti operano le regole ordinarie del codice di rito e del codice civile, che impongono alla parte contro cui il documento è prodotto l’onere di un tempestivo e specifico disconoscimento della conformità della copia all’originale.
Nel caso di specie, l’accordo transattivo costituisce un documento probatorio e non un atto processuale in senso stretto. Pertanto, la sua produzione in copia informatica non richiedeva la necessaria attestazione di conformità da parte del difensore. Ne consegue che la Corte di appello ha legittimamente esaminato il documento e ne ha tratto elementi per la propria decisione, senza incorrere in alcuna violazione delle norme invocate.
6. – Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1972, 1418 e 1425 c.c. e 156 c.p.c., in relazione alla valutazione dell’accordo transattivo. Si contesta l’applicazione dell’art. 1972 co. 2 c.c., sostenendo che la Corte, pur riconoscendo che l’annullabilità della transazione su titolo nullo può essere fatta valere dalla parte che ignorava la causa di nullità, abbia poi negato tale possibilità alla ricorrente. Ciò sarebbe in contrasto con l’evidenza fattuale, dato che l’accordo transattivo (13 ottobre 2014) era stato sottoscritto prima dell’emanazione del decreto del Capo dello Stato (24 novembre 2014) che aveva accertato l’illegittimità dell’affidamento, dimostrando così l’ignoranza della causa di invalidità da parte della ricorrente al momento della transazione.
Con il settimo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., per un ulteriore profilo di motivazione perplessa e inconciliabile riguardante la transazione. Si ribadisce che la Corte, pur avendo correttamente indicato le date della transazione e del successivo decreto presidenziale, è giunta alla conclusione illogica e contraddittoria di negare alla ricorrente la possibilità di contestare la validità della transazione, nonostante la cronologia dei fatti dimostrasse la sua non conoscenza del vizio.
Con l’ottavo e ultimo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per omessa pronuncia su uno specifico motivo di appello. Si lamenta che la Corte di appello non abbia in alcun modo esaminato la censura con cui la ricorrente, in via subordinata, aveva contestato l’oggetto e la portata della transazione. Si era infatti sostenuto che l’accordo, a prescindere dalla sua validità, fosse limitato a eventuali pretese risarcitorie e non potesse quindi precludere le domande di natura restitutoria, fondate sulla totale assenza di titolo della controparte a percepire le somme versate. Su questo distinto profilo di critica, la sentenza impugnata sarebbe del tutto silente.
Il sesto , il settimo e l’ottavo motivo sono disattesi.
Le censure, come correttamente rilevato dalla Procura Generale, devono ritenersi assorbite. La decisione della Corte di appello si fonda, infatti, su una pluralità di rationes decidendi , tra le quali assume carattere principale e autonomamente sufficiente quella relativa al difetto di potere del giudice ordinario di sindacare la legittimità del provvedimento amministrativo di affidamento del servizio, non annullato in sede di giurisdizione amministrativa. Tale ragione, di per sé, è idonea a sorreggere la statuizione di rigetto della domanda, rendendo superfluo l’esame delle ulteriori censure relative alla validità ed efficacia dell’accordo transattivo, che
costituisce un argomento concorrente e aggiuntivo nella motivazione della sentenza impugnata.
Ad ogni modo, anche a voler esaminare i motivi nel merito, essi si palesano infondati.
L’intero castello argomentativo della ricorrente si basa su un presupposto temporale errato. Se è vero che il decreto decisorio del Capo dello Stato è del 24 novembre 2014, è altrettanto vero, come documentato in atti, che il parere del Consiglio di Stato che ne costituiva il fondamento era stato pubblicato già il 22 luglio 2014. L’accordo transattivo è stato sottoscritto il 13 ottobre 2014, in un momento in cui la causa di invalidità del titolo era già conoscibile. Di conseguenza, non sussiste la condizione dell’ignoranza richiesta dall’art. 1972 co. 2 c.c. per poter domandare l’annullamento della transazione, e l’onere di provare tale ignoranza, che gravava sulla ricorrente, non è stato in alcun modo assolto. La Corte di appello, pertanto, ha fatto logica applicazione dei principi di diritto in materia.
Per quanto attiene specificamente all’ottavo motivo , la Corte di appello ha esaminato il correlativo motivo di gravame e ne ha argomentato correttamente il rigetto. Nel riportare il contenuto dell’accordo transattivo, la sentenza impugnata ha evidenziato come la ricorrente avesse rinunciato «esplicitamente a far valere ogni pretesa connessa ai contratti di utilizzazione» e avesse dichiarato «di null’altro avere a pretendere in ragione di tutte le doglianze, anche di pretesi danni-risarcimenti e/o altre diverse pretese economiche lamentate ».
L’interpretazione di tale clausola, in ragione della sua ampiezza e onnicomprensività letterale («altre diverse pretese economiche»), è stata ritenuta dal giudice di merito idonea a includere anche le pretese restitutorie. Tale apprezzamento costituisce un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per motivazione manifestamente illogica, vizi che non
sussistono. Il motivo è animato dall’intenzione di sovrapporre il proprio apprezzamento ricostruttivo della volontà negoziale a quello che il giudice di merito ha espresso in una motivazione effettiva e coerente, la quale quindi non si espone a censure in sede di giudizio di legittimità.
– Il rigetto del ricorso principale determina l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, con il quale la controricorrente ha riproposto la domanda, già avanzata in via riconvenzionale subordinata nei gradi di merito, di condannare la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento della somma di € 1.585.579,28, oltre interessi, a titolo di indennizzo per ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c., nel caso in cui le domande della ricorrente principale fossero accolte e i contratti venissero dichiarati nulli o inefficaci.
-Il ricorso principale è rigettato. Il ricorso incidentale condizionato è assorbito. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 14.000 , oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 10/07/2025.
Il Consigliere estensore La Presidente