Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1818 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1818 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 17/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 19273/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (C.F. P_IVA), in persona dei Legali Rappresentanti p.t. COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE); COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE); COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), tutti rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), giusta procura in atti, ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato COGNOME (C.F. CODICE_FISCALE) in ROMA in INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (C.F. P_IVA), in persona dell’A.U. e legale rappresentante COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), giusta procura in
atti, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato COGNOME in ROMA in INDIRIZZO;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 299/2019 della CORTE DI APPELLO DI POTENZA, depositata il 23.04.2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/11/2023 dal Consigliere NOME COGNOME;
Osserva
Il Tribunale, in accoglimento della domanda proposta dalla RAGIONE_SOCIALE, ordinò alla RAGIONE_SOCIALE, in persona del suo rappresentante legale NOME COGNOME, nonché a NOME e NOME COGNOME, in manutenzione del possesso attoreo, di arretrare la loro nuova costruzione fino a 10 m. dalla facciata esterna del fabbricato della RAGIONE_SOCIALE; inoltre, condannò i convenuti a risarcire il procurato danno, liquidato in € 2.500,00.
Era stata, pertanto sconfessata la prospettazione dei convenuti, i quali avevano dedotto l’infondatezza della domanda, alla luce della clausola negoziale, inserita nell’atto di compravendita, stipulato in forma pubblica il 16/6/1989, con la quale, in deroga alle distanze legali, il venditore (dante causa degli odierni ricorrenti) si era riservato la facoltà di edificare di fronte all’edificio condominiale, di cui faceva parte l’unità immobiliare dell’intimata, senza l’obbligo di rispettare le distanze legali tra fabbricati. Clausola che era stata disattesa dal Giudice, il quale, aveva accolto l’eccezione di nullità della RAGIONE_SOCIALE, avanzata con la memoria ex art. 183 cod. proc. civ.
Avverso la sentenza d’appello propose impugnazione la RAGIONE_SOCIALE enunciando cinque motivi, sunteggiati dalla sentenza nei termini seguenti:
vizio di ultrapetizione;
difetto di legittimazione della RAGIONE_SOCIALE per mancanza d’interesse ad agire;
travisamento dei fatti e falsa applicazione di legge;
-infondatezza nel merito dell’azione di manutenzione;
erroneità della condanna a risarcire i danni.
L’appellata, oltre a chiedere il rigetto dell’impugnazione, avanzò appello incidentale
La Corte d’appello di Potenza rigettò entrambi i gravami.
Sempre limitatamente alla materia ancora controversa va ricordato che la Corte territoriale, reputò che la sentenza di primo grado non era incorsa in ultrapetizione e aveva pienamente rispettato il contraddittorio e, nel merito, corretta la declaratoria di nullità, in quanto <> (cita, fra le altre, Cass. n. 21117/2004). Di conseguenza, non aveva pregio l’affermazione di difetto d’interesse dell’appellata per avere costei accettato il patto contrattuale.
Snodo decisivo è costituito dal rigetto del terzo motivo d’appello, con il quale gli appellanti avevano sostenuto che, essendo l’opera ubicata nella zona B5 di completamento del P.R.G. del Comune di Lauria, le relative N.T.A. (art. 26) prevedevano che la distanza minima di 10 m. tra fabbricati con pareti finestrate potesse essere derogata nel caso in cui l’edificazione fosse succeduta all’approvazione di piani di recupero, piani particolareggiati, lottizzazioni convenzionate e piani planivolumetrici e proprio in forza di un piano di quest’ultimo tipo la pubblica amministrazione locale aveva concesso il permesso di costruire. Di talché il Tribunale era incorso in errore nel disapplicare
l’atto comunale legittimo, affermato tale dal giudice amministrativo (T.A.R. sentenza n. 515/2007).
La Corte locale nega fondamento alla censura evidenziando che, in coerenza con la giurisprudenza di legittimità (che indica), l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 deve considerarsi inderogabile, essendo posto a tutela di pubblici interessi (igiene e sicurezza) e non già a presidio del diritto dominicale dei privati. Da qui l’illegittimità delle fonti secondarie locali deroganti la disposizione, in assenza di un pubblico interesse, rappresentato dall’esigenza di omogenizzare urbanisticamente una pluralità di fabbricati. Esigenza che, nel caso di specie, siccome rilevato dal Tribunale, non sussisteva, come reso evidente dal fatto che il progetto planivolumetrico approvato dal Comune si riferiva <>.
Gli appellanti propongono ricorso per cassazione fondato su un solo, articolato motivo.
L’appellato resiste con controricorso ulteriormente illustrato da memoria.
I ricorrenti riportata l’ultima parte dell’art. 9, u. c. del d.m. n. 1444/1968 (<> ); chiarito che l’art. 26 delle N.T.A. dello strumento urbanistico locale si collocava nell’alveo della predetta disposizione, avendo previsto che <>;
chiarito ancora che l’opera era stata regolarmente approvata da delibera di giunta; che il c.t.u. aveva reputato la stessa conforme alle norme locali e all’art. 873 cod. civ.; che il T.A.R. della Regione Basilicata, con la sentenza n. 515/2007 aveva verificato la conformità rispetto al piano planivolumetrico, che doveva equipararsi a strumento urbanistico esecutivo e/o attuativo, ai sensi dell’art. 11 delle N.T.A., affermano che il giudice ordinario non avrebbe potuto disapplicare l’atto comunale, giudicandolo illegittimo.
Specificano, ulteriormente, che il potere di disapplicazione non può essere esercitato in presenza di un atto amministrativo che abbia superato il vaglio di legittimità del giudice amministrativo.
Inoltre, si sostiene che il piano planivolumetrico non poteva considerarsi normativa di rango inferiore in contrasto con il citato art. 9 del d.m. n. 1444/1968, costituendone, per contro, attuazione.
Soggiungono che il giudice ordinario non può disapplicare l’atto amministrativo, valendosi dell’art. 5 della l. n. 2248/1865, All. E e dell’art. 63, co. 1, del d. lgs. n. 165/2001, non potendo costui sostituirsi al giudice amministrativo al fine di vagliare <>.
Richiamano parte del testo della decisione delle S.U. n. 13193/2018, concludono specificando che <>.
Pregiudizialmente la forma e struttura del ricorso impone di verificarne la corrispondenza al modello legale.
Si è chiarito che il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360, comma 1 c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normativa (S.U. n. 3245, 08/11/2021, Rv. 662880 -01, la quale nel caso esaminato, a fronte di un motivo caratterizzato da scarsa tassatività e specificità nonché dalla esposizione di una congerie di argomenti, la S.C. lo ha ritenuto comunque ammissibile poiché la complessiva lettura dell’insieme censuratorio permetteva di enucleare e perimetrare le critiche alla stregua dei parametri di cui all’art. 360 c.p.c.).
Or non è dubbio che il ricorso, incarnato da un solo motivo, si pone ai margini dell’ammissibilità, stante che non risultano evidenziati con precipua specificità e chiarezza i vizi denunciati e il
parametro processuale di riferimento (nn. da 1 a 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.). Strutturato discorsivamente, riprende la normativa di settore, assumendo la legittimità del permesso di costruzione, che sarebbe stata convalidata dal giudice amministrativo, e sostiene l’illegittimità della disapplicazione operata dal giudice civile.
Per le stesse ragioni di cui alla richiamata pronuncia delle S.U., nonostante la impropria, scarsamente adeguata e disordinata esposizione, la doglianza supera lo scrutinio d’ammissibilità, potendosi cogliere la critica centrale fondata sulla falsa applicazione dell’art. 5, l. n. 2248/1865, All. E e dell’art. 63, co. 1, d. lgs. n. 165/2001, da porsi in correlazione con l’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
6. Il ricorso è infondato.
6.1. Occorre prendere l’abbrivio dalla motivazione con la quale la Corte locale confermò la sentenza del Tribunale.
Come sopra si è ricordato la sentenza qui impugnata correttamente evidenzia l’inderogabilità dell’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, avente la finalità pubblica di garantire, attraverso l’imposizione della distanza minima tra edifici, igiene e sicurezza.
Trattasi di affermazione ampiamente consolidata nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha anche spiegato che, in tema di distanze tra edifici, ove le costruzioni non siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è recata dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che consente ai comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale, bensì dal comma 1 dello stesso art. 9, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Sez. 2, n. 23136,
14/11/2016, Rv. 641684 -01; conf. già Cass. nn. 5741/2008, 12424/2010).
Consegue a ciò che, nel caso d’illegittima determinazione negoziale di distanza inferiore a quella legale, la clausola nulla viene sostituita automaticamente, ai sensi dell’art. 1419, co. 2, cod. civ., salvo importare la nullità dell’intero contratto nell’ipotesi contemplata dall’articolo predetto.
6.1.2. L’assetto complessivo del sistema risulta essere stato puntualmente scolpito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 41 del 2007, riafferma (in perfetta sintonia con le precedenti pronunce), che <>
Di conseguenza, osserva il Collegio che, ove manchi, perché neppure contemplato o perché (come nel caso in esame) solo apparentemente evocato, lo scopo del perseguimento del pubblico
interesse (rappresentato dall’effettiva persecuzione del ‘governo del territorio’) la deroga al primo comma del citato art. 9 deve reputarsi ‘tamquam non esset’, in quanto promanante da atti amministrativi illegittimi.
6.1.3. Nel caso in esame, proprio la sentenza del T.A.R. Basilicata, invocata dalla stessa parte ricorrente, siccome riporta la sentenza d’appello, ha inequivocamente affermato che <>.
Il manufatto della ricorrente, pertanto, non è conforme alla legge. La sentenza n. 1313/2018 delle S.U., richiamata dalla ricorrente, al contrario di quanto da quest’ultima sostenuto, non ne supporta l’assunto. Invero, il provvedimento amministrativo disapplicato dal giudice non costituisce oggetto della controversia, nel senso che su di esso non si fonda il diritto dedotto in giudizio, bensì strumento di cui il giudice conosce, ‘incidenter tantum’, nel percorso logico della decisione. Inoltre, lo stesso è affetto da vizio di legittimità (violazione di legge), restando estranea al vaglio ogni questione di merito (conf., S.U. n. 116/2007; a contrario, a riguardo d’ipotesi nelle quali la censura involge il facere discrezionale della p.a., si vedano S.U. n. 18263/2004 e n. 4242/2010, nonché Cass. n. 5588/2013).
6.1.4. Per contro, mette conto soggiungere che la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell’esercizio del potere da parte della p.a., ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la p.a., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato (Sez. 2, n. 9869, 14/5/2015, 635492; Sez. 2, n. 23543/2018, non massimata, la quale in motivazione significativamente afferma non essere necessaria una delibazione incidentale del giudice a riguardo della legittimità o meno dei provvedimenti amministrativi autorizzativi dell’opera in contrasto con la legge).
In disparte, sul punto, deve, comunque, ulteriormente rilevarsi che la parte ricorrente non ha neppure allegato il passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, nel mentre la controricorrente con la memoria ha evidenziato che il Consiglio di Stato (con sentenza n. 5999/2019 del 30/8/2019) ha definitivamente annullato la decisione del Giudice amministrativo di primo grado.
Quindi il progetto planovolumetrico approvato con la delibera di Giunta n. 197/2003, su cui ruota sostanzialmente il ricorso, è stato definitivamente annullato dal Consiglio di Stato.
6.1.5. Sotto altro connesso profilo si è già avuto modo di chiarire che la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato
richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali. Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione (salva la ipotesi della cosiddetta licenza in deroga), quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali; è del pari irrilevante la mancanza della licenza o della concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le disposizioni normative sopraindicate (Sez. 2, n. 12405, 28/5/2007, Rv. 597809; conf., da ultimo, n. 29166/2021; ma già, Cass. nn. 2230/1985, 3878/2007, 13109/1992, 6038/2000).
6.2. In definitiva, va confermato il giudizio incidentale d’illegittimità dei provvedimenti amministrativi che hanno permesso la costruzione in violazione dell’art. 9, co. 1, più volte citato, non sussistendo le fattispecie che ne avrebbero legittimato la deroga, ai sensi dell’ultimo comma della disposizione, che con efficace sintesi la Corte costituzionale ha individuato nel ‘governo del territorio’. Giudizio che, ‘incidenter tantum’, ex art. 5. L. n. 2248/1865, All. E , impone la disapplicazione dei provvedimenti amministrativi in discorso.
Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo, in favore dei controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione
temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio di giorno 28