Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 4347 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 4347 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13305/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di BRESCIA n. 159/2021 depositata il 10/03/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE ottenne dal Tribunale di Brescia l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente
R.G. 13305/2021
COGNOME.
Rep.
C.C. 11/12/2023
C.C. 14/4/2022
VENDITA AZIENDA. RISARCIMENTO DANNI.
esecutivo, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, poi incorporata nella RAGIONE_SOCIALE, per la somma di euro 1.154.804,19.
Il decreto si fondava su due atti stipulati il 16 dicembre 2014, l’uno avente ad oggetto un contratto di affitto di azienda concluso tra le due società, relativo ad undici rami di azienda e altrettanti punti vendita, e l’altro col quale la società RAGIONE_SOCIALE riconosceva di essere debitrice, nei confronti dell’altra, della maggiore somma di euro 1.450.221,20. Nel contratto di affitto le parti avevano pattuito che l’affittuaria RAGIONE_SOCIALE potesse pagare il relativo canone anche tramite la compensazione con qualsiasi credito da essa vantata nei confronti della locatrice società RAGIONE_SOCIALE; per cui la minore somma portata dal decreto ingiuntivo risultava dalla relativa compensazione.
Il decreto fu opposto dalla società RAGIONE_SOCIALE, la quale eccepì in compensazione il proprio controcredito per canoni di affitto. Nel corso del giudizio, l’opponente riconobbe, all’udienza del 16 gennaio 2017, di essere debitrice nei confronti della RAGIONE_SOCIALE della somma residua di euro 631.846,90, che fu pagata banco iudicis a quest’ultima, la quale la trattenne in acconto della maggiore asseritamente ad essa spettante.
All’esito del giudizio di opposizione, svoltosi nel contraddittorio delle parti, il Tribunale accolse l’opposizione, revocò il decreto ingiuntivo e, dando atto del pagamento intervenuto in corso di causa, rigettò la domanda proposta dalla creditrice opposta per il pagamento di una somma maggiore e condannò la RAGIONE_SOCIALE alla rifusione delle sole spese di lite verificatesi successivamente al pagamento effettuato in udienza.
La pronuncia è stata impugnata dalla RAGIONE_SOCIALE e la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 6 maggio 2021, ha rigettato l’impugnazione e ha condannato l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
2.1. La Corte territoriale ha esaminato i motivi di appello uno per uno.
In relazione al primo motivo, avente ad oggetto la compensazione compiuta dal Tribunale tra il credito dell’appellante e quello della società RAGIONE_SOCIALE per canoni di affitto, la sentenza l’ha ritenuto inammissibile e comunque infondato. La Corte di merito ha innanzitutto rilevato che la società appellante, mentre da un lato aveva dichiarato di non contestare il diritto della società RAGIONE_SOCIALE di percepire i canoni di affitto fino al dicembre 2016, dall’altro aveva contestato la compensazione asserendo che il credito della controparte fosse incerto e non provato, in quanto oggetto di un separato giudizio.
Ha poi aggiunto la sentenza che, al di là della contraddittorietà, il motivo doveva essere rigettato perché l’appellante aveva mosso critiche del tutto generiche alla sentenza di primo grado. Il Tribunale, infatti, aveva affermato che le contestazioni riguardanti la compensazione – fondate sul fatto che vi era in corso un altro giudizio sullo stesso punto – erano infondate, perché nell’altra sede non si discuteva dell’ an e del quantum del canone di affitto, quanto, piuttosto, della «perdurante efficacia del contratto di affitto di azienda». E su questo punto l’appellante non aveva sollevato «alcuna censura». D’altra parte, la RAGIONE_SOCIALE non aveva mai contestato, in primo grado, la documentazione offerta a dimostrazione della spettanza dei canoni fino al dicembre 2016.
2.2. In relazione al secondo motivo – nel quale si lamentava che la società RAGIONE_SOCIALE avesse conteggiato in compensazione, a proprio favore, anche crediti per canoni di locazione di immobili di proprietà di terzi – la sentenza ha osservato che la contestazione era generica e che, pertanto, correttamente il Tribunale l’aveva ritenuta infondata. E poi la società appellante non aveva dimostrato «di aver provveduto a adempiere alle prescrizioni di cui agli artt.
2.6.1. e 2.6.2. del contratto di affitto di azienda, necessarie per il suo subingresso nei contratti di locazione».
2.3. Esaminando poi il terzo motivo – avente ad oggetto la circostanza per cui la società RAGIONE_SOCIALE non aveva pagato, «nella vigenza dei contratti di affitto, i canoni di leasing» – la Corte d’appello l’ha ritenuto infondato.
Al riguardo ha osservato che, pur essendo previsto nella clausola 2.4. del contratto di affitto che il pagamento dei canoni di leasing rimanesse a carico della concedente e che, in caso di mancato pagamento da parte della società RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto ridurre il corrispettivo per l’affitto dell’azienda, tale facoltà non era mai stata esercitata dall’appellante; e poiché la previsione contrattuale era nel senso che la RAGIONE_SOCIALE non potesse essere chiamata a corrispondere i canoni di leasing, la contestazione su questi ultimi era «pretestuosa e non pertinente» nel giudizio in esame, che ha invece ad oggetto i canoni di affitto dell’azienda.
2.4. In riferimento al quarto motivo di appello, erroneamente indicato come quinto, relativo al pagamento degli interessi moratori successivi all’offerta reale della società RAGIONE_SOCIALE, avvenuta nel maggio 2016, la sentenza ha rilevato che il motivo era infondato.
Risultava, infatti, che nel maggio 2016 la debitrice RAGIONE_SOCIALE aveva offerto alla società RAGIONE_SOCIALE il pagamento di tutti i propri debiti, ma quest’ultima aveva rifiutato di riceverlo. La Corte d’appello, nel ritenere ingiustificato quel rifiuto, ha precisato che l’offerta non formale di cui all’art. 1220 cod. civ., idonea ad escludere la mora del debitore, può consistere in qualsiasi condotta del debitore. La circostanza secondo cui il pagamento, da parte della società RAGIONE_SOCIALE, «sarebbe stato subordinato al rilascio di tutti i rami d’azienda» da parte della creditrice RAGIONE_SOCIALE, non era stata mai provata in giudizio. Analogamente, il rifiuto di ricevere il pagamento offerto alla parte creditrice dal terzo Italmark
non poteva essere giustificato asserendo che lo stesso fosse assoggettabile a revocatoria.
2.5. Passando all’esame del quinto motivo di appello, erroneamente indicato come sesto, avente ad oggetto le contestazioni riguardanti il credito opposto in compensazione – che il Tribunale aveva ritenuto tardive – la Corte d’appello ha osservato che esso era infondato, sussistendo nel nostro ordinamento il principio di non contestazione. E comunque doveva essere condiviso il giudizio di tardività espresso dal Tribunale, dal momento che quelle contestazioni erano state sollevate «solo nella comparsa conclusionale».
2.6. In riferimento, infine, al sesto motivo di appello, erroneamente indicato come settimo, avente ad oggetto la condanna (parziale) alle spese, la Corte bresciana l’ha rigettato, rilevando che la compensazione era corretta in quanto limitata fino al momento del pagamento della somma di euro 631.486, avvenuta in primo grado. Dopo quel momento, però, attesa la soccombenza della RAGIONE_SOCIALE rispetto alla domanda di pagamento di un’ulteriore e maggiore somma, era corretta la condanna disposta dal Tribunale.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia ricorre la RAGIONE_SOCIALE, in qualità di successore a titolo universale della RAGIONE_SOCIALE, con atto affidato a otto motivi.
La società RAGIONE_SOCIALE non ha svolto attività difensiva in questa sede.
La società ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La società ricorrente ha redatto il ricorso facendo precedere ogni motivo dalla trascrizione, pressoché integrale, dei motivi di appello, allo scopo di illustrare meglio ogni censura che era stata posta al vaglio della Corte d’appello.
Svolta un’ampia premessa sul primo e secondo motivo di ricorso, con il primo motivo si lamenta violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ., dell’art. 1243 cod. civ., oltre a omessa motivazione integrante violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111, sesto comma, Cost. e dell’art. 132 n. 4), del codice di rito.
Dopo aver premesso che la sentenza di primo grado non si era pronunciata sull’eccezione di inesigibilità del controcredito, la parte ricorrente osserva che tale profilo era stato oggetto di una specifica censura. La sentenza impugnata, dichiarando inammissibile il primo motivo di appello, avrebbe omesso di pronunciarsi sul fatto costitutivo di quel motivo, e cioè l’omessa pronuncia, da parte del Giudice di primo grado, sul dedotto grave inadempimento della società RAGIONE_SOCIALE; con conseguente violazione dell’art. 1243 cit., avendo la Corte d’appello asseritamente «confuso l’esistenza del controcredito -che RAGIONE_SOCIALE aveva pur sempre contestato nel quantum -con la sua esigibilità, parimenti necessaria perché sia integrata la fattispecie della compensazione». La sentenza, inoltre, avrebbe omesso di esporre le ragioni poste a fondamento del rigetto del motivo di appello.
1.1. Il Collegio osserva che il motivo, benché formulato in modo assai ampio, contiene, in effetti, due censure, peraltro strettamente connesse l’una con l’altra.
La prima è di violazione dell’art. 1243 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., in conseguenza dell’omessa pronuncia. La Corte d’appello, nell’assunto della società ricorrente, male interpretando il contenuto dell’impugnazione, non avrebbe inteso che la parte appellante non intendeva contestare il diritto della società RAGIONE_SOCIALE al pagamento dei canoni di affitto fino al 31 dicembre 2016, quanto, piuttosto, l’esigibilità e compensabilità del controcredito di quella società, almeno fino alla determinazione del residuo credito nella
somma effettivamente versata dalla RAGIONE_SOCIALE (euro 631.846,90). Sussisterebbe, in altre parole, un’omissione di pronuncia della Corte d’appello (v. ricorso a p. 18) nella parte in cui non avrebbe riconosciuto che il controcredito non era certo nel suo ammontare e non era esigibile.
Da questa prima censura deriva la seconda, che lamenta una lesione dell’art. 342 cod. proc. civ.; ma essa, leggendo bene il motivo di ricorso, non ha in effetti una sua autonomia, perché la società ricorrente supporta la doglianza riferendosi sempre alla mancanza di specificità della sentenza in riferimento alla questione della pretesa inesigibilità del credito. Il che viene a significare che la seconda censura non ha autonomia rispetto alla prima.
1.2. Questi essendo i punti sui quali si concentra il primo motivo di ricorso, la Corte ritiene che lo stesso sia privo di fondamento.
Occorre rilevare, innanzitutto, che la sentenza impugnata non può essere accusata, per così dire, di un’omissione di pronuncia, perché dalla lettura della motivazione emerge senza dubbio che la Corte bresciana ha colto esattamente l’argomento della discussione e ha illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto insussistente la lamentata omissione.
La Corte d’appello, come si è detto, ha rigettato il primo motivo di gravame sulla base di due fondamentali argomenti: 1) la contraddittorietà della censura, perché, se era pacifico che il credito della RAGIONE_SOCIALE non era contestato almeno fino al 31 dicembre 2016, non si poteva contemporaneamente affermare che esso non fosse esigibile perché contestato in un altro giudizio; e comunque, 2) era improprio il richiamo all’altro giudizio in corso, poiché in esso non si discuteva di determinazione del canone di affitto, quanto invece della «perdurante efficacia» del contratto stesso.
Appare evidente, dunque, che l’impugnata sentenza non ha affatto omesso di decidere sul punto della compensabilità del
credito della RAGIONE_SOCIALE e ha posto in luce la diversità dell’oggetto dell’altro giudizio e la conseguente sua inidoneità a fondare una contestazione sull’esigibilità del controcredito.
Rispetto a tale ratio decidendi le censure prospettate nel motivo qui in esame si rivelano inconferenti e comunque inidonee a superare la motivazione resa dalla Corte d’appello.
Ne deriva, pertanto, l’infondatezza del motivo di ricorso sotto entrambi i profili.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione degli artt. 35 e 115 cod. proc. civ., dell’art. 1243 cod. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., oltre a omessa motivazione.
La società ricorrente rileva che la sentenza impugnata ha ritenuto inammissibile l’eccezione relativa alla prova del credito, non avendo la parte opponente mai contestato, nel corso del giudizio di primo grado, la documentazione offerta a dimostrazione del credito per canoni di affitto ed avendo anzi riconosciuto espressamente la debenza dei canoni di affitto sino al dicembre 2016. Simile circostanza sarebbe invalida ed errata in diritto, perché era onere della società RAGIONE_SOCIALE dimostrare l’esistenza del controcredito, costituito da canoni di affitto dei rami di azienda più canoni di affitto degli immobili. Il principio di non contestazione sarebbe stato erroneamente applicato nel caso in esame, perché la società RAGIONE_SOCIALE non aveva compiuto una specifica allegazione dei fatti. Quanto, invece, al presunto riconoscimento della debenza del pagamento dei canoni fino al dicembre 2016, la motivazione sarebbe apparente, perché il controcredito era formato dai canoni di affitto dei rami aziendali più i canoni di locazione degli immobili; comunque, incontestato l’ an , era invece contestato il quantum del debito, per cui la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 1243 cod. civ., perché la compensazione legale prevede che i crediti siano omogenei, liquidi ed esigibili. Essendo il controcredito per canoni di
affitto in contestazione, siccome oggetto di una diversa causa di merito, esso non era di facile e pronta liquidazione, sicché la compensazione giudiziale non avrebbe potuto essere disposta.
2.1. Il Collegio osserva che le censure poste in questo motivo sono in parte ripetitive o comunque assimilabili a quelle formulate nel primo.
Ciò premesso, le contestazioni sono sostanzialmente due.
La prima, connessa alla presunta violazione dell’art. 2697 cod. civ., lamenta violazione dell’art. 115, primo comma, cod. proc. civ., per errata applicazione del principio di non contestazione.
Si tratta, però, di una doglianza generica e che comunque non tiene nella dovuta considerazione la motivazione dell’impugnata sentenza la quale, come si è già detto, ha affermato che l’odierna ricorrente aveva «riconosciuto espressamente la debenza dei canoni di affitto sino al dicembre 2016», non avendo mai contestato la documentazione offerta dalla RAGIONE_SOCIALE a dimostrazione del proprio credito. A fronte di questi argomenti, è palese che la presunta violazione del principio di non contestazione è dedotta in modo assertivo e, come tale, inammissibile. D’altra parte, l’odierna ricorrente non può fondare la propria censura di violazione delle regole dell’onere della prova senza considerare che la sentenza impugnata ha tratto la prova del controcredito – come ben poteva fare – dalla mancata contestazione. Sicché la prima censura pecca di evidente genericità.
La seconda censura (p. 27 del ricorso) prospetta il vizio di motivazione apparente, sempre in relazione all’effettiva debenza dei canoni di affitto e all’esatta determinazione del loro ammontare.
Rileva il Collegio che – ferma restando, per quanto si è detto, l’evidente insussistenza di un vizio di motivazione apparente tale da determinare la nullità della sentenza – questa parte del secondo motivo di ricorso è ripetitiva di censure già esaminate, oltre ad essere formulata senza tener conto di quello che la Corte d’appello
ha detto e che si è in precedenza riportato. La ricorrente continua ad insistere sul concetto della contestazione del controcredito della società RAGIONE_SOCIALE e sulla conseguente impossibilità di opporlo in compensazione al proprio, ma lo fa ripetendo argomenti già visti e non calzanti rispetto alla motivazione resa dalla Corte bresciana.
Ne consegue che anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Dopo una premessa sul terzo e quarto motivo di ricorso, la società ricorrente lamenta, con il terzo motivo di ricorso, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in tema di onere della prova.
Il motivo ha ad oggetto ancora il problema della compensazione.
Sostiene la parte ricorrente di aver sollevato in primo grado la questione dell’impossibilità, per la società RAGIONE_SOCIALE, di far valere in compensazione il controcredito per canoni di locazione degli immobili. Tale difesa non costituiva un’eccezione; avendo la società RAGIONE_SOCIALE affermato di vantare un controcredito per canoni di affitto dei rami d’azienda e per canoni di locazione degli immobili commerciali dove venivano svolte le attività aziendali, e avendo la ricorrente a sua volta opposto di non essere tenuta a versare tutti i canoni degli immobili commerciali, avrebbe dovuto essere la società RAGIONE_SOCIALE a dimostrare i fatti costitutivi del suo controcredito. La sentenza, invece, imputando alla RAGIONE_SOCIALE di non aver provato le proprie deduzioni difensive, avrebbe violato l’art. 2697 cit. in tema di onere della prova.
3.1. Il motivo, quando non inammissibile, è comunque privo di fondamento.
Il Collegio osserva, innanzitutto, che le censure ivi contenute sono in buona misura ripetitive di quelle già esaminate nel primo e secondo motivo di ricorso.
Oltre a ciò, esse, dietro l’apparente prospettazione di una censura di violazione di legge, si risolvono nel palese tentativo di ottenere in questa sede una diversa e non consentita rivalutazione del merito della questione. Il che risulta evidente dai richiami riguardanti il problema del controcredito opposto in compensazione da parte della società RAGIONE_SOCIALE; la quale, nell’assunto della società ricorrente, era gravata dell’onere di provare l’esistenza del proprio credito, onere che non sarebbe stato adempiuto.
La censura – che ha ad oggetto la motivazione resa dalla Corte d’appello per rigettare il secondo motivo di appello (p. 7 della sentenza impugnata) – è stata formulata senza tenere nel dovuto conto le argomentazioni della sentenza impugnata e si presenta, pertanto, generica.
Improprio è, poi, il richiamo all’ordinanza resa dalla Corte d’appello in data 30 ottobre 2019, poi revocata, nella quale si era ritenuto necessario procedere ad una c.t.u. per determinare l’esatto ammontare dei canoni di locazione di immobili di proprietà di terzi. È evidente, infatti, che tale ordinanza, di carattere interlocutorio, ben poteva essere smentita dalla Corte d’appello – come poi è avvenuto – con la sentenza che ha deciso il merito dell’appello; né tale mutamento di opinione del Collegio bresciano è indice di una violazione delle regole sull’onere della prova.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., degli artt. 1406 e 2558 cod. civ. e dell’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392.
La ricorrente rileva che la Corte d’appello avrebbe rilevato d’ufficio, e solo nella decisione, la questione, mai sollevata dalla società RAGIONE_SOCIALE, per cui l’appellante mai aveva allegato e dimostrato in giudizio di aver provveduto a adempiere alle prescrizioni di cui agli artt. 2.6.1. e 2.6.2. del contratto di affitto d’azienda,
necessarie per il suo subingresso nei contratti di locazione. Sarebbe stato dunque violato l’art. 101 cit., perché la Corte d’appello avrebbe omesso di assegnare alle parti un termine per osservazioni sulla rilevata questione. Analogamente, sarebbero stati violati gli artt. 1406 e 2558 cod. civ. e l’art. 36 della legge n. 392 del 1978, perché fatto costitutivo del ‘subingresso nei contratti di locazione’ era il contratto d’affitto, non l’adempimento delle prescrizioni di cui agli artt. 2.6.1, 2.6.2 del medesimo.
4.1. Il motivo è infondato per una serie di ragioni.
Occorre innanzitutto rilevare che esso è formulato in maniera del tutto generica, posto che si limita a riportare nel corpo del ricorso i due articoli suindicati senza dar conto della loro esatta portata nell’ambito della complessa vicenda contrattuale qui in esame.
In secondo luogo, il motivo ha ad oggetto il solo primo periodo della p. 8 della sentenza impugnata, cioè una delle argomentazioni – e non certo l’unica – con le quali la Corte di merito ha rigettato il secondo motivo di appello; per cui la censura finisce col concentrarsi su di un profilo marginale della motivazione della sentenza, senza dare conto della decisività della medesima.
Tanto premesso, la Corte osserva che il richiamo all’art. 101 cod. proc. civ. non è corretto, perché la sentenza impugnata, nel formulare il periodo di cui si è detto, non ha esaminato una ‘questione’ nel senso in cui essa è intesa dall’art. 101 cit., quanto piuttosto ha ricostruito i fatti di causa e le prove addotte dalle parti, pervenendo alla conclusione secondo cui la tesi della società appellante non era supportata da prove adeguate, anche in relazione al profilo dell’adempimento delle prescrizioni di cui alle contestate clausole.
Quanto, poi, all’invocata violazione degli artt. 1406 e 2558 cod. civ. e dell’art. 36 della legge n. 392 del 1978, il Collegio osserva che si tratta di una censura inammissibile, perché esige da
questa Corte un’analisi delle clausole contrattuali e, in definitiva, un’interpretazione delle stesse, attività preclusa in sede di legittimità.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 163, 164, 167, 182, 324 e 329 cod. proc. civ., degli artt. 1325, 1350, 1406, 2558 e 2909 cod. civ., oltre a omessa motivazione.
La censura ha ad oggetto la questione del mancato pagamento dei canoni di leasing. La parte ricorrente, dopo aver trascritto il contenuto del suo atto di appello sul punto, rileva che la motivazione resa dalla Corte d’appello lederebbe tutte le norme suindicate. Ed infatti la sentenza ha rigettato il terzo motivo di appello senza considerare che l’odierna ricorrente aveva dichiarato, costituendosi in giudizio, che l’omesso pagamento dei canoni di leasing era stato ammesso dalla società RAGIONE_SOCIALE e che essa non aveva diritto al corrispettivo d’affitto allegato in compensazione, perché non aveva pagato i canoni di leasing. Tali dichiarazioni costituivano, secondo la ricorrente, esercizio, con l’atto processuale di costituzione in giudizio, del diritto potestativo (potere) di riduzione del canone di affitto; e poiché il Tribunale – pur rilevando che l’esercizio di quel diritto potestativo non aveva ridotto il controcredito – aveva riconosciuto che esso era stato esercitato, sul punto si era formato il giudicato, non essendo stato proposto appello in relazione. La sentenza, quindi, pronunciandosi sull’esercizio del diritto potestativo, già affrontata, avrebbe violato il giudicato interno.
La sentenza impugnata, poi, sarebbe affetta da motivazione apparente là dove ha affermato che la facoltà di riduzione del canone non sarebbe stata mai esercitata dalla società oggi ricorrente. Non è chiaro, secondo la ricorrente, se la sentenza sia incorsa in un errore di percezione, non avvedendosi di quanto
dichiarato da RAGIONE_SOCIALE a pag. 11 della memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, oppure se abbia ritenuto che quel diritto potestativo non potesse essere esercitato con un atto processuale; e in questo secondo caso avrebbe violato il principio della libertà della forma nell’esercizio dei diritti potestativi.
Errata sarebbe, infine, la decisione là dove ha affermato che, non potendo la società ricorrente essere mai chiamata a rispondere del pagamento dei canoni di leasing, non sarebbe applicabile l’altrettanto ‘esplicita previsione contrattuale’ del potere di RAGIONE_SOCIALE di ‘ridurre il corrispettivo per l’affitto dell’Azienda’. L’accordo contrattuale, al contrario, prevedeva proprio che la società RAGIONE_SOCIALE era tenuta a tenere indenne la RAGIONE_SOCIALE del pagamento dei canoni di leasing e che, in caso di inadempimento, quest’ultima aveva interesse a esercitare il potere di ‘ridurre il corrispettivo per l’affitto dell’Azienda’, accantonando la parte del canone del contratto d’affitto destinata a pagare i contratti di leasing.
5.1. La Corte ritiene che questo motivo sia fondato, per le seguenti ragioni.
Nell’esaminare il terzo motivo di appello, la Corte bresciana (pp. 8 -9 della motivazione), dopo aver dato conto di quelle che erano, sul punto, le clausole contrattuali, ha rigettato il motivo con un ragionamento del tutto illogico e incoerente rispetto alle premesse, oltre ad essere errato in diritto.
La sentenza, infatti, ha ammesso che nella clausola 2.4. del contratto di affitto era previsto che il pagamento dei canoni di leasing rimanesse a carico della concedente e che, in caso di mancato pagamento da parte della società RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto ridurre il corrispettivo per l’affitto dell’azienda. Detto questo, ha aggiunto che il diritto dell’odierna ricorrente di avvalersi di tale clausola non era stato esercitato dalla RAGIONE_SOCIALE; e ha concluso il proprio ragionamento
osservando che, non potendo quest’ultima essere chiamata a rispondere del mancato pagamento dei canoni di leasing, la relativa contestazione era pretestuosa e non pertinente.
Tali argomentazioni sono errate in diritto e intrinsecamente contraddittorie.
Ed invero, anche volendo tralasciare la prima parte della censura in esame – nella quale la parte ricorrente sostiene che sull’esercizio, da parte sua, del diritto potestativo di avvalersi di quella clausola si era perfezionato il giudicato interno – è decisivo il fatto che, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’esercizio di un diritto potestativo può avvenire anche con un atto processuale (v., tra le altre, le sentenze 5 gennaio 2005, n. 167, 20 luglio 2016, n. 14827, e l’ordinanza 18 giugno 2018, n. 16087).
Sostenere quindi, come ha fatto la Corte d’appello, che la facoltà di avvalersi di detta clausola non fosse stata mai esercitata dall’appellante è, evidentemente, un’affermazione in palese contrasto con la vicenda processuale e con gli atti indicati dalla parte ricorrente. È evidente, infatti, che quest’ultima si era avvalsa di tale clausola che le dava diritto di compensare il proprio debito per i canoni di affitto con il debito della società RAGIONE_SOCIALE per l’omesso pagamento dei canoni di locazione (in tal senso è decisivo il richiamo, contenuto a p. 39 del ricorso, all’atto di costituzione nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo). E da tale ricostruzione emerge facilmente l’erroneità della conclusione tratta dalla Corte d’appello nel senso dell’irrilevanza del mancato pagamento dei canoni di leasing; se è pacifico, infatti, che la RAGIONE_SOCIALE mai avrebbe potuto essere chiamata a rispondere di quei canoni, è altrettanto pacifico – e la Corte d’appello l’ha espressamente affermato -che tale mancato pagamento avrebbe ridotto il debito dell’odierna ricorrente nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE. Il che dimostra la rilevanza della questione e l’interesse della RAGIONE_SOCIALE a rilevarla.
La fondatezza di questo motivo comporta la cassazione della sentenza in relazione, con obbligo per il giudice di rinvio di riesaminare la questione alla luce dell’inquadramento giuridico e fattuale compiuto nell’odierna pronuncia.
Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa motivazione in ordine alla spettanza degli interessi moratori, sul rilievo che la motivazione resa sul punto dalla Corte d’appello sarebbe apparente.
Con il settimo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., nonché omessa motivazione integrante nullità della sentenza.
La società RAGIONE_SOCIALE censura la motivazione della sentenza impugnata là dove ha confermato la presunta tardività della contestazione dei conteggi relativi al credito opposto in compensazione in quanto formulata per la prima volta in comparsa conclusionale.
Con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. in punto di liquidazione delle spese processuali.
L’accoglimento del quinto motivo di ricorso comporta l’assorbimento dei motivi sesto, settimo e ottavo.
In conclusione, sono rigettati i motivi primo, secondo, terzo e quarto del ricorso, è accolto il quinto e restano assorbiti i motivi sesto, settimo e ottavo.
La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione personale, la quale riesaminerà l’appello in relazione al motivo accolto e a quanto ne consegue.
Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi primo, secondo, terzo e quarto del ricorso, accoglie il quinto, con assorbimento dei motivi sesto, settimo e ottavo, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza