Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3526 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 3526 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/02/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14221/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-ricorrente-
contro
COGNOME proprietaria dell’RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di LECCE, SEZ. DIST. DI TARANTO, n. 130/2019, depositata il 28/02/2019.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il Pubblico Ministero, la sostituta procuratrice generale NOME COGNOME che ha chiesto alla Corte di respingere il ricorso.
Sentito il difensore della ricorrente, avvocato NOME COGNOME che ha chiesto alla Corte di accogliere il ricorso.
FATTI DELLA CAUSA
1. L’azienda agricola COGNOME ha stipulato con la società RAGIONE_SOCIALE un contratto di vendita di ‘tutte le partite di uva esistenti sull’intero fondo’, a peso; sulla base della stima della quantità di uva che sarebbe stata prodotta, l’acquirente ha consegnato alla venditrice sei assegni ciascuno di euro 100.000, dei quali 100.000 a titolo di caparra confirmatoria e i restanti da incassare in parte a vista e in parte a successive scadenze, salvo conguaglio finale da effettuarsi dopo avere verificato l’effettiva quantità di uva prodotta e raccolta; la raccolta del prodotto era posta ‘a cura e spese’ dell’acquirente e doveva iniziare entro il 20 luglio 2006 e terminare per tutte le varietà entro il 30 agosto 2006 (con l’eccezione della varietà Italia, da raccogliere entro il 20 settembre 2006); termini qualificati ‘termini essenziali’.
RAGIONE_SOCIALE ha terminato la raccolta in data 23 ottobre 2006, raccogliendo solo in parte il prodotto; in data 30 agosto 2006 ha domandato la restituzione degli ultimi due assegni di euro 100.000 ciascuno, assegni che sono stati oggetto di sequestro penale.
2. L’azienda agricola COGNOME ha convenuto RAGIONE_SOCIALE davanti al Tribunale di Taranto, chiedendo di accertarne la responsabilità per inadempimento: alla data del 5 settembre 2006 la società RAGIONE_SOCIALEnon aveva ancora esattamente adempiuto le obbligazioni a suo carico e in particolare aveva tagliato solo in parte l’uva acquistata dall’azienda COGNOMERAGIONE_SOCIALE e di condannarla a pagare la somma di euro 466.463 a titolo di risarcimento del danno (risarcimento
quantificato in euro 200.000 per il mancato pagamento degli importi dovuti ed euro 264.905 per il prodotto ulteriore rispetto alle stime di produttività effettuate nel contratto, nonché euro 1.558 quale rimborso delle spese del procedimento di accertamento tecnico preventivo). RAGIONE_SOCIALE, costituendosi, ha eccepito che l’uva era divenuta, a causa delle avverse condizioni climatiche, incommerciabile; ha poi proposto domanda riconvenzionale, chiedendo la restituzione di euro 60.571 e la condanna di controparte a risarcire il danno, pari a euro 75.000. Il Tribunale ha nominato un consulente tecnico d’ufficio, che ha stimato il danno subito dall’azienda agricola in euro 466.941.
Con sentenza n. 2883/2015, il Tribunale di Taranto ha rigettato l’eccezione di vizi del prodotto, ritenendo tardiva la denuncia dei medesimi effettuata il 5 settembre 2006 da RAGIONE_SOCIALE; ha ritenuto quest’ultima inadempiente e, respinte le domande riconvenzionali da essa proposte, ha accolto la domanda dell’attrice, condannando la convenuta a pagarle la somma complessiva di euro 468.499 (euro 466.941 a titolo di risarcimento del danno causato dall’inadempimento ed euro 1.558 a titolo di rimborso delle spese del procedimento di accertamento tecnico preventivo).
La sentenza di primo grado è stata impugnata da Orchidea. Con la sentenza n. 130/2019, la Corte d’appello di Lecce ha rigettato il gravame.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ricorre per cassazione. Resiste con controricorso NOME COGNOME titolare dell’azienda agricola COGNOME.
La ricorrente ha depositato memoria in prossimità della pubblica udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in otto motivi.
1. Il primo motivo lamenta ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1490 ss. e 1495 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c.; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c.’: la Corte di merito è incorsa in un ‘macroscopico errore quando ha affermato che dalla missiva del 5 settembre 2006 risulterebbe in modo inequivoco che Orchidea aveva contezza dell’esistenza e della gravità dei vizi sin dalla seconda metà del mese di agosto’; data anche l’importanza della transazione commerciale, era necessario ricorrere a una perizia – che è stata depositata il 31 agosto 2006 e solo all’esito di questa è stato possibile muovere contestazioni dettagliate, così che è stata tempestiva la denuncia dei vizi effettuata con la missiva del 5 settembre 2006.
Il motivo non può essere accolto. La ricorrente invoca il parametro della falsa applicazione dell’art. 1495 c.c. e quello dell’omesso esame di fatti decisivi. Quanto a quest’ultimo, va anzitutto sottolineato che la censura ex art. 360, n. 5 c.c. è inammissibile, poiché ricorre l’ipotesi della c.d. doppia conforme di cui all’art. 348 -ter ultimo comma c.p.c., applicabile ratione temporis in quanto il giudizio di appello è stato introdotto nel 2015 (e non avendo la ricorrente indicato nel motivo le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, cfr. al riguardo Cass. n. 5947/2023, né valendo al riguardo quanto osservato nella memoria ex art. 378 c.p.c.). Quello che poi la ricorrente contesta alla Corte d’appello invocando la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1490 ss. c.c. è in realtà la valutazione che questa ha offerto di un documento prodotto in giudizio, in particolare la lettera della ricorrente del 5 settembre 2006. Da tale lettera (trascritta alle pagg. 9 e 10 del ricorso) risulta -ad avviso della Corte d’appello che la società ricorrente aveva acquisito compiuta conoscenza dei vizi dalla seconda settimana del
mese di agosto. Si tratta di una valutazione di merito che alla Corte d’appello spettava compiere (va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di garanzia per vizi della cosa venduta, incombe sul compratore l’onere della prova in ordine alla tempestività della denuncia dei vizi della cosa e l’accertamento del giudice di merito circa tale tempestività è incensurabile in sede di legittimità, cfr. in tal senso, ad esempio, Cass. n. 24348/2019). D’altro canto non si ravvisa il ‘macroscopico errore’ della Corte d’appello: nella lettera della ricorrente (trascritta alle pagg. 9 e 10 del ricorso) infatti si legge che ‘le forti e frequenti piogge occorse durante la seconda settimana del mese di agosto ultimo scorso avevano determinato spacchi sulla superficie degli acini e favorito l’insorgenza di muffe e marciumi come da perizia; inoltre, la situazione climatica avversa, probabilmente accompagnata da una non oculata gestione nutrizionale e idrica dell’impianto di vostra proprietà, ha favorito l’insorgenza dei diffusi imbrunimenti sugli acini di alcune varietà, come specificatamente e tecnicamente descritto nella perizia giurata effettuata il 25 agosto 2006’. La Corte ha quindi ritenuto, sulla base delle affermazioni contenute nella suddetta lettera della ricorrente, che il 23 agosto la ricorrente aveva interrotto la raccolta dell’uva appunto perché il prodotto sarebbe stato affetto da vizi e che la denuncia dei vizi avvenuta il 5 settembre 2006 è quindi stata tardiva, anche alla luce del fatto che la lettera del 30 agosto 2006 non contiene una denuncia per vizi (si veda la trascrizione dell’atto alle pagg. 8 e 9 del ricorso) e la perizia giurata è stata ‘effettuata’ (secondo l’affermazione della stessa ricorrente, supra riportata) il 25 agosto 2006.
Il secondo, il terzo e il quarto motivo sono, per affermazione della stessa ricorrente (pag. 1 del ricorso), strettamente connessi, ruotando intorno alla medesima questione:
il secondo motivo lamenta la ‘nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n.
4 c.p.c.’, per avere la Corte, nella sostanza, omesso di pronunciare in relazione al quarto motivo di appello, con il quale si contestava la mancata considerazione da parte del Tribunale del fatto che il giorno prima della data fissata per l’accesso del consulente tecnico d’ufficio nominato nel procedimento di accertamento tecnico preventivo fosse stato alterato lo stato dei luoghi e che per questo atto era stato condannato con decreto penale di condanna COGNOME il procuratore generale dell’azienda agricola COGNOME
il terzo motivo deduce, in subordine al secondo motivo, la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo, ossia ‘l’intervenuta alterazione dello stato dei luoghi accertata nel giudizio penale sull’operato dell’Andrisano’;
il quarto motivo lamenta la ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 1227, comma 2 c.c.’, avendo la Corte d’appello ritenuto erroneamente applicabile la disposizione in presenza di un comportamento sanzionato penalmente, ossia l’alterazione dello stato dei luoghi effettuata in pendenza di un accertamento tecnico preventivo.
I motivi non possono essere accolti.
Il secondo motivo è infondato, in quanto la Corte ha esaminato espressamente la doglianza di ‘alterazione dello stato dei luoghi tramite il taglio di una parte del prodotto nelle more dell’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo da parte dell’Andrisano, asseritamente con lo scopo di impedire la valutazione della qualità dell’uva’, ritenendola infondata (cfr. le pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata). Quanto al terzo motivo, va affermata l’inammissibilità già affermata in relazione al primo motivo -della censura ex art. 360, n. 5 c.c. poiché ricorre l’ipotesi della c.d. doppia conforme di cui all’art. 348 -ter ultimo comma c.p.c. Inammissibile è pure il quarto motivo: la Corte d’appello sostiene sì la legittimità dell’operato dell’azienda agricola sulla base del secondo comma dell’art. 1227, comma 2 c.c., stante
l’inadempimento della ricorrente; sostiene però poi, con autonoma ratio decidendi che non è stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso, che, sulla base dei chiarimenti offerti dal consulente tecnico d’ufficio, il taglio dell’uva è irrilevante sotto il profilo probatorio e che di tale operazione il consulente d’ufficio ha tenuto conto nella determinazione del danno risarcibile (cfr. ancora le pagg. 8 e 9 della sentenza impugnata).
Il quinto, il sesto e il settimo motivo, sono anch’essi esaminabili congiuntamente, proponendo la medesima questione (v. il ricorso, pag. 2):
con il quinto motivo la ricorrente eccepisce la nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla sua domanda riconvenzionale oggetto di uno specifico motivo di appello e con il sesto motivo, in subordine, per violazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c., sotto il profilo della mancanza della motivazione al riguardo; b) con il settimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2033, 1218 ss. e 1223 ss. c.c., per avere la Corte d’appello erroneamente confermato il rigetto della domanda riconvenzionale proposta in primo grado e riproposta in appello, con la quale si chiedeva la restituzione o quantomeno il computo delle somme pagate in eccesso rispetto al prodotto effettivamente raccolto.
I motivi sono infondati. Ad avviso della ricorrente la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sulla domanda riconvenzionale, proposta in primo grado e riproposta in appello, con cui aveva chiesto di condannare controparte alla restituzione di euro 60.571. Il vizio di omessa pronuncia denunciato con il primo motivo non sussiste: la Corte d’appello (v. pag. 6 della sentenza impugnata) ha confermato il rigetto della domanda riconvenzionale quale conseguenza del rigetto della eccezione di inadempimento proposta dalla ricorrente, eccezione di inadempimento fondata sui vizi dell’uva oggetto del contratto. Secondo la ricorrente, se la ritenuta decadenza dalla garanzia per vizi comporta il rigetto della domanda
riconvenzionale con cui aveva chiesto il risarcimento del danno, pari a euro 75.000, non comporta invece il rigetto della domanda di restituzione: avendo pagato euro 400.000, somma corrispondente ai quattro assegni da euro 100.000 incassati dall’azienda COGNOME, e avendo raccolto uva per un valore di euro 339.429,08, ad essa spettava comunque la restituzione della differenza.
Il ragionamento della ricorrente non può essere seguito: la premessa di tale ragionamento è infatti la legittimità della raccolta parziale dell’uva. I giudici di merito, rigettata l’eccezione di inadempimento della ricorrente, hanno invece accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dall’azienda agricola basata sull’inadempimento della ricorrente, che non ha proceduto alla raccolta di tutta l’uva (il c.d. taglio dell’uva nella forma dello spogliaceppo), e tale risarcimento hanno determinato, sulla base delle conclusioni cui sono giunti i consulenti tecnici d’ufficio (una prima consulenza è stata espletata in sede di accertamento tecnico preventivo e una seconda è stata espletata nel giudizio di primo grado), in base alla quantità e al valore dell’uva prodotta.
Escluso il vizio di omessa pronuncia e di motivazione assente (sui limiti del sindacato di questa Corte sulla motivazione del giudice di merito si veda, per tutte, la pronuncia delle sezioni unite n. 8038/2018), va escluso il vizio di violazione delle disposizioni invocate, sostanziandosi il settimo motivo in una inammissibile richiesta a questa Corte di rivalutare i conteggi effettuati dal consulente tecnico d’ufficio e condivisi dalla Corte d’appello con apprezzamento in fatto incensurabile in sede di legittimità (v. le pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata).
3. Con l’ottavo motivo, la ricorrente lamenta la ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 ss., 1223 e 1224 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., per avere la Corte di merito confermato la debenza della rivalutazione monetaria’: a fronte della censura della ricorrente, che nell’atto di appello aveva fatto notare che le somme
riconosciute dal Tribunale in favore della azienda COGNOME costituivano un debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione, la Corte d’appello ‘ha liquidato la questione in poche righe, limitandosi ad affermare che nella specie si è di fronte a una obbligazione risarcitoria, come tale costituente un debito di valore’; l’azienda COGNOME, invece, non ha chiesto altro che il pagamento del prezzo dell’uva che Orchidea doveva raccogliere e non ha raccolto, quindi anche se ha parlato impropriamente di risarcimento del danno ha in realtà sempre chiesto l’adempimento e, comunque, anche a volere parlare di risarcimento del danno l’obbligazione inadempiuta era indiscutibilmente pecuniaria.
Il motivo è infondato. A fronte della censura della ricorrente che denunciava ‘l’illegittimità della condanna al pagamento della rivalutazione monetaria’ in quanto ‘il debito riconosciuto nella fattispecie è un debito di valuta e non di valore e come tale produttivo di soli interessi legali’ (pag. 39 dell’atto di appello), la Corte d’appello ha in primo luogo affermato che si è formato il giudicato sulla statuizione di primo grado relativa alla natura risarcitoria e non di adempimento del contratto della pretesa dell’attrice, non essendo avverso tale capo della sentenza stata proposta alcuna censura; trattandosi di risarcimento del danno la relativa obbligazione, ha concluso la Corte, costituisce debito di valore. Secondo la ricorrente, anche a volere considerare la domanda dell’azienda COGNOME quale domanda di risarcimento del danno, la relativa obbligazione costituisce debito di valuta in quanto controparte ‘non ha fatto altro che chiedere (e ottenere) il pagamento del prezzo dell’uva’, così che ha sempre ‘chiesto null’altro che l’adempimento’ e d’altro canto il Tribunale non ha fatto altro che condannare la ricorrente ‘a pagare il prezzo dovuto secondo le tariffe contrattuali’ e, d’altro canto, il mero riconoscimento della natura risarcitoria di una condanna ‘non basta a escludere la presenza di un debito di valuta’. Al riguardo la
ricorrente ricorda l’orientamento di questa Corte secondo cui la distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore ha riguardo ‘all’oggetto diretto e originario della prestazione, che nelle obbligazioni di valore consiste in una cosa diversa dal denaro’ (Cass. 22 giugno 2007, n. 14573, cfr. pure Cass. 30 aprile 2010, n. 10600) e che l’obbligazione inadempiuta fosse ‘indiscutibilmente pecuniaria’ sarebbe dimostrato, secondo la ricorrente, dal fatto che i giudici di merito ‘hanno determinato il quantum facendo riferimento al prezzo’ che essa ‘avrebbe dovuto pagare per l’uva raccoglibile e non raccolta’.
La ricorrente, così ragionando, confonde il piano dell’obbligazione rimasta inadempiuta, ossia la mancata totale raccolta del prodotto a cui essa era obbligata e che è fatto costitutivo della domanda accolta (cfr. la pag. 4 dell’atto di citazione di primo grado ove l’azienda COGNOME contesta l’inadempimento dell’obbligazione ‘del taglio dell’uva nella forma dello spogliaceppo’) con il piano della liquidazione del ristoro patrimoniale consequenziale al danno subito, che è stato commisurato al prezzo pattuito dalle parti nel contratto da esse concluso.
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente, che liquida in euro 8.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio seguita alla pubblica