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Danno reputazionale: quando la prova è insufficiente

Due società del settore giocattoli hanno citato in giudizio un’emittente televisiva per danno reputazionale, a seguito della pubblicazione di una notizia relativa a un’altra azienda con un marchio simile coinvolta in un’indagine penale. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando le decisioni dei gradi precedenti. La Corte ha ribadito che, per ottenere un risarcimento, è indispensabile fornire la prova rigorosa del nesso causale tra la notizia diffusa e il danno patrimoniale o d’immagine lamentato, prova che nel caso di specie è mancata.

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Danno Reputazionale: la Prova del Nesso Causale è Decisiva

In un mondo digitale dove le notizie viaggiano veloci, il rischio di un danno reputazionale per un’azienda è sempre dietro l’angolo. Ma cosa succede quando una notizia negativa riguarda un’altra entità con un nome simile? È sufficiente questa somiglianza per ottenere un risarcimento? Con l’ordinanza n. 4144/2024, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali, sottolineando l’importanza di un elemento chiave: la prova del nesso causale tra la notizia e il danno subito.

I Fatti di Causa: La Controversia su Notizie e Marchi Simili

Due società operanti nel settore dei giocattoli citavano in giudizio una nota emittente televisiva nazionale e il direttore del suo telegiornale. Il motivo? La pubblicazione, sul sito web e sulla pagina Facebook del notiziario, di una notizia relativa all’arresto dei titolari di un’altra azienda di giocattoli, situata in una diversa area geografica, per presunti reati fiscali.

Il problema nasceva dal fatto che quest’ultima azienda utilizzava un marchio molto simile a quello delle società ricorrenti. Queste ultime sostenevano di aver subito un grave danno all’immagine e un calo delle vendite a causa della potenziale confusione generata nei consumatori, chiedendo quindi un cospicuo risarcimento.

La Decisione della Corte d’Appello

Sia in primo grado che in appello, le domande delle due società venivano respinte. La Corte territoriale, in particolare, aveva confermato la decisione del primo giudice, evidenziando come le società attrici non fossero riuscite a dimostrare l’esistenza di un danno concreto e direttamente collegabile alla notizia diffusa.

Secondo i giudici di merito, la notizia era sufficientemente specifica: indicava i nomi degli arrestati e la localizzazione geografica dell’azienda indagata (Caserta), elementi che rendevano improbabile una confusione oggettiva e inequivocabile con le attività delle società ricorrenti, operanti invece a Taranto.

Il Ricorso in Cassazione e il Danno Reputazionale

Insoddisfatte, le due società proponevano ricorso per cassazione, lamentando, tra i vari motivi, l’errata applicazione delle norme in materia di responsabilità civile (art. 2043 c.c.) e la violazione delle tutele previste per il nome e i segni distintivi. Sostenevano che la Corte d’Appello avesse errato nel non riconoscere il danno derivante dalla diffusione della notizia.

Le Motivazioni della Suprema Corte: L’Onere della Prova

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la linea dei giudici di merito. Il punto centrale della decisione risiede nella distinzione tra la denuncia di un errore di diritto e la richiesta di una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità.

Gli Ermellini hanno chiarito che le ricorrenti, pur lamentando una violazione di legge, stavano in realtà contestando l’apprezzamento delle prove operato dalla Corte d’Appello. Quest’ultima aveva concluso, con una motivazione logica e coerente, che non vi era prova sufficiente di un nesso causale tra la pubblicazione della notizia e il presunto danno. L’onere di dimostrare che il calo delle vendite o la lesione della reputazione fossero una conseguenza diretta della notizia spettava alle società danneggiate, e tale onere non era stato assolto.

La Corte ha inoltre smontato la censura di motivazione contraddittoria. La Corte d’Appello aveva correttamente basato la sua decisione (la ratio decidendi) sull’assenza di confusione. L’argomentazione aggiuntiva, secondo cui anche se ci fosse stata confusione sarebbe stato impossibile distinguerne la causa (se la notizia o l’uso da parte delle ricorrenti di un marchio altrui), era solo un rafforzativo logico (ad colorandum) e non una contraddizione.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale in materia di responsabilità civile e danno reputazionale: non basta lamentare un pregiudizio, ma è necessario provarlo in modo rigoroso. Chi agisce per il risarcimento deve dimostrare, con elementi concreti, tre aspetti fondamentali:
1. L’esistenza di un comportamento illecito (la diffusione di una notizia lesiva).
2. L’esistenza di un danno effettivo (patrimoniale o non patrimoniale).
3. Il nesso causale, ovvero che il danno sia una conseguenza diretta e immediata del comportamento illecito.

In assenza di questa catena probatoria, la domanda di risarcimento non può essere accolta. Questa pronuncia serve da monito per le imprese: prima di intraprendere un’azione legale per diffamazione o danno all’immagine, è essenziale raccogliere prove solide e inequivocabili che colleghino l’evento lesivo alle sue conseguenze negative.

È sufficiente che una notizia negativa riguardi un’azienda con un nome simile per ottenere un risarcimento per danno reputazionale?
No. Secondo la Corte, non è sufficiente la somiglianza del nome. È necessario dimostrare che la notizia, per come è stata diffusa, abbia generato una confusione concreta e che da questa confusione sia derivato un danno effettivo.

Chi ha l’onere di provare il nesso causale tra la notizia diffusa e il danno subito?
L’onere della prova spetta interamente alla parte che si ritiene danneggiata. Essa deve fornire elementi concreti che dimostrino in modo inequivocabile che il danno lamentato (es. calo di fatturato, perdita di clienti) è una conseguenza diretta della diffusione della notizia e non di altri fattori.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove e i fatti già valutati dai giudici di merito?
No, la Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito non è rivalutare le prove o ricostruire i fatti, ma verificare che i giudici dei gradi precedenti abbiano correttamente applicato le norme di diritto e che la loro motivazione sia logica e non contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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