Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33004 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33004 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18487/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE DI NOME RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel COGNOME, avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che lo rappresenta e difende ex lege; -controricorrente- avverso il DECRETO di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 297/2022 depositato il 31/01/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/06/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE di NOME RAGIONE_SOCIALE chiese alla Corte d’appello di Venezia la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per l’irragionevole durata di un giudizio civile promosso innanzi al Tribunale di Verona nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita nel corso del giudizio.
La Corte d’appello di Venezia, con decreto del 31.1.2022, accolse la domanda, limitatamente al danno non patrimoniale e la rigettò in relazione al danno patrimoniale.
La Corte distrettuale ritenne che mancasse la prova del rapporto di causalità tra l’eccessiva protrazione del giudizio presupposto ed il danno patrimoniale, rilevando come la RAGIONE_SOCIALE non avesse assunto alcuna iniziativa per cautelarsi dal rischio dell’insolvenza, nonostante la capienza della società debitrice; aveva omesso di insinuarsi al passivo ed i debiti ipotecari della società fallita erano di entità tale da non consentire il soddisfacimento della pretesa tanto che un altro credito della società ricorrente era rimasto insoddisfatto. Non aveva valore certificativo la stampa della banca dati Wolter Kluwers, da cui non risultavano protesti perché richiesta nel 2021 mentre il fallimento era stato chiuso nel 2016.
La RAGIONE_SOCIALE NOME RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte d’appello di Venezia sulla base di sette motivi.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità della camera di consiglio, parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt.115 c.c. e 116 c.p.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che non sussistesse la prova del nesso di causalità tra la durata del giudizio ed il danno patrimoniale, sulla base dell’erronea valutazione delle risultanze istruttorie, da cui emergerebbe in modo inconfutabile il pregiudizio economico arrecato alla società ricorrente.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art.360, comma 1, n.5 c.p.c., con riferimento ai documenti prodotti, che dimostrerebbero come l’eccessiva durata del processo non avrebbe consentito alla società ricorrente di recuperare le somme liquidate in sentenza.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.2 bis della L. n. 89/2001, degli artt. 2056 c.c., 1223 c.c., 1226 c.c., 1227 c.c., degli artt. 2423 c.c.. 2423 ter c.c., 2424, 2424 bis, 2425, 2425 bis c.c. e del D. L. n. 185/2008, dell’art. 2740 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n.3 c.p.c., perché la Corte d’appello, pur avendo ritenuto sussistente il danno economico subito dalla società, avrebbe rigettato la domanda per carenza di prova. In particolare la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto del patrimonio netto della società, erroneamente ritenendo che si trattasse di un valore meramente contabile mentre, invece, si tratterebbe di un valore reale, incorrendo, in tal modo, nella violazione delle norme sull’interpretazione del bilancio, che deve essere rappresentativo della capacità patrimoniale della società. Inoltre, l’immobile ipotecato a garanzia di un ingente debito nei confronti della BNL non sarebbe l’unico bene aggredibile, potendo la
società creditrice intraprendere azioni esecutive presso terzi ed azioni mobiliari sui macchinari industriali. Inoltre, la Corte d’appello avrebbe erroneamente tenuto conto del fatturato, senza esaminare il costo della produzione e gli utili della società fallita, dai quali emergerebbe che la società aveva prodotto ricchezza.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, degli artt. 2043 c.c., 2056 c.c., 1223 c.c., 1226 c.c., 1227 c.c., art. 2740 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c.; si contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui l’intervento del fallimento nelle more del giudizio presupposto non era da solo sufficiente a cagionare un pregiudizio al creditore senza, però, esaminare il contenuto del bilancio della società fallita e senza svolgere un giudizio controfattuale per stabilire se il fallimento costituisse un fattore eccezionale ed atipico rispetto alla possibilità di recupero del credito. Nell’ambito del motivo, la società ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 bis della L. n. 89/2001, degli artt. 2043 c.c., 2056 c.c., 1223 c.c., 1226 c.c., 1227 c.c., art. 2740 c.c. perché in contrasto con gli artt. 1, 3, 41, 42 e 111 Cost.
Con il quinto motivo di ricorso si censura il decreto impugnato per violazione e falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, degli artt. 2043 c.c., 2056 c.c., 1223 c.c., 1226 c.c., 1227 c.c., 2740 c.c., in relazione all’art.360, comma 1 n.3 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che lo stato di insolvenza della società non avesse consentito alla ricorrente di recuperare la più modesta somma di € 1.268,57 relativa ad altro titolo mente tale comportamento processuale sarebbe stato determinato dalla scelta di aspettare il conseguimento di un titolo rilevante, pari ad oltre € 270.000,00 per portare entrambi i titoli in esecuzione
Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 della Legge Fallimentare, dell’art.671 c.p.c., degli artt. 1 bis, 1 ter, 2 e 86 L. n. 89/2001, degli artt. 2043 c.c., 2056 c.c., 1223 c.c.; si contesta l’affermazione della Corte di merito che ha valorizzato, al fine di rigettare la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, l’inerzia della società ricorrente nell’assumere l’iniziativa per far fronte al rischio di insolvenza mentre, invece, in più occasioni, avrebbe chiesto la definizione della causa in tempi rapidi, quando aveva percepito il rischio di insolvenza della RAGIONE_SOCIALE secondo quanto risultava dai bilanci.
Con il settimo motivo di ricorso, si deduce la violazione del D.M. 9 agosto 2000, n. 316, per non avere la Corte d’appello attribuito valore certificativo alla risposta di RAGIONE_SOCIALE che aveva attestato l’assenza di protesti nei confronti della società fallita, nonostante il valore certificativo attribuito dalla legge a tale attestazione.
I motivi, che per la loro connessione possono essere tratti congiuntamente, sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, il danno patrimoniale deve essere conseguenza diretta e immediata della irragionevole durata del giudizio presupposto. Pertanto, sono risarcibili non tutti i danni che si pretendono relazionati al ritardo nella definizione del processo, ma solo quelli per i quali si dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e pregiudizio sofferto.
In quest’ottica, l’equa riparazione a titolo di danno patrimoniale non può essere corrisposta quando le perdite e i mancati guadagni allegati non siano conseguenza diretta ed immediata del perdurare del processo.
In definitiva, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n.89, art.2, il danno risarcibile nel caso di violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU è diverso da quello connesso al giudizio irragionevolmente lungo, in quanto non è rappresentato dalla lesione del bene della vita ivi dedotta, identificandosi, invece, nel danno arrecato come conseguenza immediata e diretta, e sulla base di una normale sequenza causale, esclusivamente dall’eccessivo prolungarsi della causa oltre il termine ragionevole.
In ogni caso, nel novero del danno patrimoniale da violazione del termine di durata ragionevole del processo non rientrano le poste che costituiscono oggetto del giudizio, pendente o concluso, protrattosi eccessivamente (Cass., Sez. VI-2, 30.7.2020 n.16237; Cass., Sez. 1, n. 8603 del 26/04/2005; Cass., Sez. 1, n. 11858 del 19/05/2006).
In caso di fallimento della società creditrice, è stato affermato che il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove lo stato di incapienza o il fallimento del debitore, sopravvenuti nel corso del procedimento rivolto all’accertamento del diritto del creditore, con la conseguente difficoltà di quest’ultimo di ottenere il soddisfacimento, interrompono detta sequenza solo se hanno rilevanza esclusiva ed assorbente nella causazione del danno lamentato, trattandosi di fatti autonomi, eccezionali ed atipici rispetto alla serie causale già in atto, che comportano la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni (Cass., Sez. II, 2.10.2017 n.22973).
Di tali principi di diritto ha fatto corretta applicazione la sentenza impugnata.
La Corte d’appello, con ampia motivazione, ha accertato che il danno patrimoniale subito dalla società non era conseguenza immediata e diretta dell’irragionevole durata del giudizio.
Con apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, alla luce degli elementi istruttori unitariamente considerati, la Corte distrettuale ha considerato una serie di elementi probatori dai quali ha tratto la conclusione che il danno patrimoniale non fosse conseguenza dell’irragionevole durata del giudizio e che il fallimento non era da solo idoneo a cagionare il danno.
A tale conclusione, la Corte d’appello è giunta sulla base della situazione patrimoniale della società e degli ingenti debiti contratti prima del fallimento, con particolare riferimento ad un debito nei confronti della BNL fondato su un mutuo ipotecario di un milione di e uro, che aveva portato alla vendita dell’unico immobile di cui la società debitrice era proprietaria ad un prezzo notevolmente inferiore, pari ad € 863.000,00. A ciò si aggiungeva la consistente diminuzione del fatturato, come risultante dai bilanci, unita alla constatazione che la società ricorrente, proprio a causa dell’insolvenza della RAGIONE_SOCIALE , non era riuscita a soddisfare un credito di importo minore.
A tali elementi, che, secondo il giudizio della Corte distrettuale erano decisivi per escludere la prova, incombente sul creditore in ordine al rapporto di causalità tra l’eccessiva protrazione del giudizio ed il pregiudizio patrimoniale, si era aggiunta l’inerzia della RAGIONE_SOCIALE nell’assumere alcuna iniziativa per cautelarsi dal rischio dell’insolvenza tanto che aveva omesso di insinuarsi al passivo, considerando che i debiti ipotecari erano di rilevante entità tale da non consentire il soddisfacimento del credito richiesto nel giudizio presupposto.
Come rilevato dalla Corte d’appello, non aveva valore certificativo la stampa della banca dati RAGIONE_SOCIALE da cui non risultavano protesti perché detta certificazione era stata richiesta nel 2021 mentre il fallimento era stato chiuso nel 2016.
Il ricorso, sotto lo schermo della violazione di legge, contesta la valutazione degli elementi istruttori posti a fondamento del giudice di merito per accertare l’insussistenza del danno patrimoniale sotto il profilo del nesso causale tra ritardo medesimo ed il pregiudizio sofferto.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
La condanna al pagamento delle spese del giudizio in favore di un’amministrazione dello Stato deve essere limitata, riguardo alle spese vive, al rimborso delle somme prenotate a debito (Cass., sez. II, 11/09/2018 n. 22014; Cass. n. 5859 del 2002).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in € 2 .000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione