Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14265 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14265 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20519/2021 R.G. proposto da
NOME RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ;
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ; entrambe elettivamente domiciliate in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME, rappresentate e difese dagli avvocati COGNOME e COGNOME NOME COGNOME
-ricorrenti –
Oggetto: Responsabilità organi sociali -Società di revisione -Azione del creditore ex art. 2395 c.c. -Danno risarcibile -Ambito
R.G.N. 20519/2021
Ud. 07/05/2025 CC
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore ed elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME che l a rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOMECOGNOME NOME
-controricorrente – contro
NOME COGNOME KG RAGIONE_SOCIALE
-intimata – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 2017/2021 depositata il 02/08/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 07/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 2017/2021, pubblicata in data 31 maggio 2021, la Corte di Appello di Napoli, decidendo sull’appello principale di COGNOME RAGIONE_SOCIALE; MS ‘RAGIONE_SOCIALE; RAGIONE_SOCIALE e sull’appello incidentale di RAGIONE_SOCIALE entrambi proposti avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 4709/2019, depositata in data 8 maggio 2019, ha confermato il rigetto delle domande delle società attrici.
Le tre società avevano convenuto in giudizio la RAGIONE_SOCIALE nella sua veste di società incaricata della revisione dei conti della società RAGIONE_SOCIALE – dichiarata fallita dal Tribunale di Torre Annunziata nel 2012 -deducendo di essere state
indotte nel 2007 a stipulare con quest’ultima società un contratto di noleggio a tempo “time charter” di due navi “RAGIONE_SOCIALE” – eseguito nel 2011 ma poi risolto nel 2012 a causa per dell’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE – facendo affidamento sulla certificazione dei bilanci, poi rivelatasi infedele, da parte della convenuta.
Le società attrici – dopo aver premesso di avere ottenuto in sede arbitrale lodo, passato in giudicato, che aveva dichiarato la legittimità della risoluzione del contratto e del ritiro delle navi, accertando un credito delle istanti nell’importo di $ 33.66 7.488,19, pari ad € 25.639.698,56 oltre interessi e di essere state ammesse al passivo del Fallimento RAGIONE_SOCIALE per l’importo di € 25.905.875,98, in chirografo, inclusivo degli interessi avevano quindi chiesto, in via principale, di accertare la responsabilità per colpa ex art. 2043 c.c. della KPMG S.P.ARAGIONE_SOCIALE nella produzione del danno patito dalle società attrici e di condannarla al risarcimento del danno subito e, in via subordinata, di accertare la lesione del diritto di credito da esse vantato, per avere RAGIONE_SOCIALE cooperato all’inadempimento della RAGIONE_SOCIALE s.p.a., e, per l’effetto, di condannare la medesima RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni.
Costituitasi regolarmente la RAGIONE_SOCIALE contestando la fondatezza delle domande ed eccependo, preliminarmente, il difetto di legittimazione attiva delle attrici e la prescrizione delle pretese azionate in giudizio, il Tribunale di Napoli aveva respinto la domanda, disattendendo le eccezioni preliminari, ma ritenendo la infondatezza nel merito della domanda stessa.
La Corte d’appello di Napoli ha esaminato preliminarmente il motivo di ricorso incidentale col quale RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato la decisione di prime cure nella parte in cui non aveva accolto
l’eccezione di carenza di legittimazione attiva, esaminandolo prioritariamente in quanto concernente il profilo della titolarità del diritto ad agire per il risarcimento del danno.
Dopo aver ricostruito i termini generali della responsabilità del soggetto incaricato della revisione di conti – concludendo che il creditore sociale può agire verso il revisore, dopo il fallimento della società, solo per far valere il danno che incida direttamente sul suo patrimonio ex art. 2395, spettando invece esclusivamente al curatore fallimentare, ai sensi dell’art. 146, comma 2, l. fall. l’esercizio delle diverse azioni previste dagli artt. 2392, 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali -la Corte territoriale, dopo aver escluso in linea generale che l’inadempimento contrattuale di una società di capitali implichi di per sé la responsabilità risarcitoria di amministratori, sindaci e revisori nei confronti dell’altro contraente, secondo la previsione dell’art. 2395 c.c., ha concluso che, nella specie, la domanda formulata in relazione alla lesione dei diritti di credito attribuita alla condotta illecita dell’amministratore nello specifico la sottrazione di risorse sia mediante la raccolta abusiva del risparmio tramite l’emissione di obbligazioni c.d. ‘irregolari’ sia mediante operazioni straordinarie con parti ‘correlate’, modificative del core business del gruppo e incoerenti col piano strategico -non poteva essere ricondotta all’art. 2395 c.c. in quanto il danno dedotto aveva interessato in primo luogo il patrimonio della società fallita e solo indirettamente quello dei creditori insoddisfatti della stessa, con la conseguenza che, intervenuto il fallimento, solo il curatore poteva dedurre tale responsabilità ex artt. 2394-bis c.c. e 146 l. fall.
La Corte partenopea ha escluso che nella specie non vi fosse un danno diretto al patrimonio della fallita, per essersi quest’ultima avvantaggiata del comportamento degli amministratori, in quanto ha
osservato che a rilevare era la circostanza che le condotte denunciate avevano depauperato il patrimonio sociale, arrecando un danno alla massa dei creditori.
È stata parimenti esclusa la sussistenza di un danno da dolo negoziale, avendo la Corte d’appello rilevato sia che il pregiudizio dedotto dalle appellanti -l’aver stipulato il contratto di noleggio, risultato dannoso non in sé, ma solo per effetto del successivo inadempimento della società rivelatasi insolvente – consisteva pur sempre nel danno derivante dall’insolvenza della fallita, al punto che il danno era quantificato proprio nell’ammontare del credito rimasto insoluto ed insinuato al passivo del fallimento, sia che, pur deducendo tale danno da dolo negoziale, le appellanti non avevano impugnato ex art. 1439 c.c. il contratto di noleggio, avendone solo chiesto ed ottenuto la risoluzione del contratto per inadempimento.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Napoli ricorrono le sole due società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c.
Le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è affidato a tre motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2395 c.c.
Si censura la decisione impugnata nella parte in cui la stessa ha affermato la natura indiretta del danno di cui si chiede il risarcimento.
Il ricorso, nella consapevole esistenza di un’interpretazione di cui propone una radicale revisione, critica in primo luogo la distinzione -fatta propria dalla decisione impugnata -tra danni diretti -i quali sarebbero risarcibili ex art. 2395 c.c. – ed i danni meramente riflessi che da tale fattispecie risarcitoria risulterebbero invece esclusi argomentando l’incongruenza tra tale tesi ed una corretta esegesi sistematica con gli artt. 1223 e 2056 c.c.
In secondo luogo, il ricorso deduce la contraddittorietà della decisone impugnata nella parte in cui la stessa ha qualificato il carattere ‘diretto’ del danno come fondamento della legittimazione attiva, e quindi come requisito di ammissibilità dell’azione.
Evidenziano le ricorrenti che la valutazione di tale profilo attiene invece al merito della vicenda, non potendo escludersi la sussistenza del profilo medesimo -e quindi la legittimazione attiva -senza valutare invece nel merito della pretesa azionata.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2395 e 2407 c.c. e dell’art. 14 delle Preleggi.
Si censura la decisione impugnata nella parte in cui la stessa ha ritenuto attratta nella fattispecie di cui all’art. 2395 c.c. per tramite dell’art. 15, D. Lgs. n. 39/2010 e dell’art. 2407 c.c. la responsabilità delle società di revisione.
Come sintetizzato in ricorso, la critica a tale ricostruzione si basa ‘su due ragioni: a) l’impossibilità di ritenere suscettibile di estensione analogica una norma che deve definirsi ‘eccezionale’ e non meramente ‘speciale’; b) l’impossibilità di equiparare al fine dell’estensione analogica della norma in parola -il Revisore al Collegio sindacale (al quale invece la norma sopra indicata si applica per l’esplicito richiamo della relativa disciplina ai sindaci ai sensi dell’art. 2407 c.c.).’
Argomenta, in particolare, il ricorso che:
-l’art. 2395 c.c. costituisce norma ‘inserita in un sistema che disciplina la responsabilità dell’amministratore di società ispirato ai principi generali che regolano la responsabilità contrattuale (art. 1223 c.c.) o extracontrattuale (art. 2043 c.c.); e tra i principi generali del sistema di cui la disciplina in questione è un subsistema, non è previsto alcun requisito di ammissibilità dell’azione, sì che quello qui (eventualmente) contemplato non può non essere considerato eccezionale, perché in contrasto con le regole generali’ ;
-anche a volersi ipotizzare il carattere speciale -e non eccezionale -della previsione, non sussisterebbero in ogni caso i presupposti per procedere ad un’applicazione analogica in virtù della differenza tra la figura dei Sindaci e quella dei Revisori, essendo la previsione dettata per limitare la responsabilità dei soli organi interni della società e non anche quella degli organi esterni.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Si deduce il carattere ‘implausibile’ e ‘irrazionale’ della motivazione della Corte d’appello, in quanto la stessa avrebbe travisato il fatto indicato come produttivo del danno.
Quest’ultimo non sarebbe costituito dalla mala gestio degli amministratori, determinativa dell’incapienza generale, bensì dalla ‘alterazione della volontà negoziale a causa della mendacità delle scritture e dei bilanci della società subita dall’appellante che ha instaurato con questa rapporti obbligatori, tratto in inganno dai dati e
dalle risultanze di quelle, raffiguranti una falsa immagine della situazione economico -patrimoniale della società’ .
Si argomenta, conseguentemente, che il dolo contrattuale posto a fondamento della domanda delle odierne ricorrenti non avrebbe determinato un semplice danno da inadempimento conseguente all’insolvenza, bensì ‘un danno diverso e precedente all’inadempimento, rappresentato dal rischio di insolvenza, addossato all’incolpevole contraente e quindi ad un singolo, ben individuato creditore -che ha fatto affidamento sulla reputazione della controparte (come risultante dalle positive relazioni del Revisore), nello stesso momento della conclusione di un contratto con una parte già tecnicamente in decozione, dissimulata dall’amministratore col concorso colposo del negligente Revisore’ .
Si contesta che il contratto di noleggio sia stato dannoso non di per sé ma soltanto per effetto del successivo inadempimento della società successivamente fallita -come affermato dalla Corte territoriale -e si deduce che già al momento della conclusione del contratto in questione la società era in stato di decozione, con la conseguenza che le ricorrenti non avrebbero concluso il contratto se avessero conosciuto le reali vicende patrimoniali della società.
1.4. Lo stesso ricorso sintetizza efficacemente nella propria parte conclusiva i temi sollevati.
‘a) Si è innanzitutto detto che l’art. 2395 c.c. non presuppone l’esistenza di un danno diretto distinguibile da quello riflesso, astrattamente risarcibile se non vi fosse stata la limitazione voluta dal legislatore del 1942;
a1) né che lo stesso possa rappresentare un requisito di ammissibilità dell’azione risarcitoria; del resto, se così fosse,
a2) la sua eccezionalità sarebbe vieppiù evidente, così da rendere impossibile una sua interpretazione analogica.
Anche a non voler condividere nessuno di questi motivi, la sentenza impugnata non sarebbe perciò stesso immune da altri vizi: infatti, pur schierandosi con l’idea sostenuta dalla Corte napoletana della necessità di individuare l’esistenza di un danno di retto nel patrimonio del danneggiato -nel senso voluto dal Collegio di Napoli -quale requisito di ammissibilità dell’azione, resterebbe da verificare se la mancata previsione legislativa dell’applicazione dell’art. 2395 c.c. al Revisore possa essere superata mediante una estensione analogica della stessa.
Invero, in tale direzione, risulterebbe, a nostro avviso, dirimente sia la natura eccezionale della norma, nella interpretazione che ne viene fornita; sia -ancorché si preferisse parlare di specialità e non di sua eccezionalità -la circostanza che la ratio della disposizione, identificabile alla luce della sua genesi storica, non corrisponde agli elementi comuni tra Revisore e Collegio sindacale, e cioè alla funzione di controllo contabile in senso ampio affidata a costoro, risultando piuttosto ispirata a lla natura ‘organica’, (o no), del rapporto con l’Ente.
Infine, anche a voler tutto concedere, resterebbe comunque da valutare la costatazione che il giudice di merito del secondo grado (diversamente da quello del primo) ha motivato la sua decisione sulla base di una errata individuazione del fatto storico costitutivo della invocata responsabilità e, perciò, la stessa motivazione risulta censurabile, in questa sede per le ragioni sopra indicate.’ .
Il primo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Il motivo non può dirsi inammissibile ex art. 360bis , n. 1), c.p.c., in quanto, pur essendosi la decisione impugnata sostanzialmente conformata alla giurisprudenza di questa Corte, il
motivo mira ad offrire elementi che, tuttavia, valgono a confermare -e non mutare, come auspicato dalla ricorrente -l’orientamento espresso da questa Corte.
2.2. Appare opportuno esaminare il motivo prendendo le mosse dalla critica che viene formulata nella sezione conclusiva dello stesso, laddove le ricorrenti censurano la decisione impugnata nella parte in cui la stessa avrebbe individuato il carattere diretto del danno ex art. 2395 c.c. quale requisito di vera a propria ammissibilità della domanda, giungendo ad affermare il difetto di legittimazione attiva delle ricorrenti medesime.
Le deduzioni debbono essere disattese.
Si deve notare, infatti, che la decisione impugnata – al di là dell’affermazione, contenuta in motivazione, in ordine alla fondatezza dell’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dall’odierna controricorrente – non solo ha comunque premesso in motivazione che ‘ il primo motivo concerne , comunque, una questione logicamente prioritaria (quella della titolarità, in capo al creditore, del diritto ad agire per il risarcimento del danno) ‘ e quindi una profilo che riguardava non la legittimazione attiva ma il merito vero e proprio (Cass. civ. SS.UU. 16 febbraio 2016, n. 2951; Cass. civ. 15 maggio 2018, n. 11744; Cass. civ. 17 giugno 2024, n. 16814) ma anche ha poi adottato un dispositivo di rigetto dell’appello e quindi della domanda -sempre nel merito.
Ed allora, tenuto anche conto del principio -enunciato da questa Corte in tema di giudicato -per cui l’esatto contenuto della sentenza va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice, dovendosi considerare prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire
una giustificazione del dictum giudiziale (Cass. Sez. 2 – , Ordinanza n. 24867 del 21/08/2023; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 24600 del 18/10/2017; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17910 del 10/09/2015), l’esame del tenore complessivo della motivazione della decisione impugnata vale ad evidenziare che la stessa -pur con alcune oscillazioni si è sostanziata nell’affermazione della infondatezza nel merito della domanda per assenza di un danno risarcibile e non nell’affermazione del difetto di legittimazione ad ag ire delle odierne ricorrenti.
Si deve osservare, del resto, che, ipotizzando che effettivamente la statuizione impugnata si sia tradotta in una declaratoria di inammissibilità della domanda delle ricorrenti per carenza di legittimazione attiva delle stesse, dovrebbe dedursi che una statuizione di tal fatta avrebbe dovuto essere fatta oggetto di specifica impugnazione mediante la deduzione di un error in procedendo (Cass. Sez. 1 – , Sentenza n. 7776 del 27/03/2017), per aver il giudice di merito erroneamente qualificato, appunto, come difetto di legittimazione attiva quello che avrebbe dovuto essere qualificato -come, in realtà, in effetti è stato -come difetto di titolarità della pretesa risarcitoria nel merito, di talché dovrebbe pervenirsi alla declaratoria di radicale inammissibilità del ricorso per non aver impugnato la (ipotetica) statuizione e correlata ratio fondamentale.
2.3. Il nucleo del motivo di ricorso si impernia su un ‘articolata critica dell’interpretazione dell’art. 2395 c.c. adottata da questa Corte nonché – conviene rammentare – dalla predominante dottrina, come peraltro apertamente ammesso dalla difesa delle ricorrenti.
Questa Corte, infatti, ha costantemente valorizzato la presenza dell’avverbio ‘direttamente’ contenuto nell’art. 2395 c.c. per affermare il principio per cui l’azione individuale di responsabilità, ai sensi del
medesimo art. 2395 c.c., esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore, posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, abbia determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 9206 del 20/05/2020), risultando il terzo (o il socio) legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo quando il nocumento riguardi direttamente la sua sfera patrimoniale e non sia un mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente – ovvero il ceto creditorio – per effetto della cattiva gestione (Cass. Sez. 1 – , Ordinanza n. 11223 del 28/04/2021; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8458 del 10/04/2014; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4548 del 22/03/2012; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6558 del 22/03/2011; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9295 del 19/04/2010; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6870 del 22/03/2010; Cass. Sez. U, Sentenza n. 27346 del 24/12/2009; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8359 del 03/04/2007; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10271 del 2004).
Questo orientamento viene messo in discussione dalle ricorrenti, le quali censurano in modo particolare la distinzione -operata in sede di interpretazione dell’art. 2395 c.c. tra danni ‘diretti’ e danni ‘riflessi’ .
Si deve infatti rammentare che -sempre secondo l’interpretazione fatta propria anche da questa Corte -mentre i danni ‘diretti’ risultano risarcibili ex art. 2395 c.c., i danni ‘riflessi’ sono esclusi dal risarcimento ( e.g. Cass. Sez. 1 – , Ordinanza n. 11223 del 28/04/2021) in virtù di una delimitazione che sarebbe volutamente imposta dalla stessa previsione del codice, la quale, del resto, viene considerata ipotesi speciale (non mette conto esaminare, né in questa sede né in quelle successive, se addirittura ‘eccezionale’, come dedotto dalle
ricorrenti) di responsabilità extracontrattuale (cfr. le già citate Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8458 del 10/04/2014 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8359 del 03/04/2007).
Secondo le ricorrenti, invero, tale distinzione non avrebbe ragion d’essere, non essendo configurabili danni ‘riflessi’ risarcibili , ‘considerato che appare assai arduo immaginare ‘danni riflessi’ in grado di superare lo scrutinio del nesso eziologico comunque necessario ex artt. 1223 c.c. e 2056 c.c., sì che del tutto evanescente diviene tale categoria di danni da aggiungere a quelli ‘diretti” (pag. 22 del ricorso), così come sarebbe -conseguentemente -censurabile la tesi che intende l’art. 2395 c.c. co me ipotesi di limitazione della responsabilità degli amministratori, risultando tale tesi smentita sulla base di una mera operazione di ricostruzione logica delle espressioni impiegate dalla giurisprudenza alla luce del disposto di cui all’art. 1223 c.c.
Proprio il richiamo all’art. 1223 c.c., tuttavia, costituisce l’element o di fallacia nell’argomentazione delle ricorrenti, dal momento che la ricostruzione interpretativa delle ricorrenti viene a confondere due profili ben distinti, e cioè il danno-evento ed il danno-conseguenza.
Si vuol dire , cioè, che l’avverbio ‘direttamente’ contenuto nell’art. 2395 c.c. non svolge la funzione di stabilire che il risarcimento dei danni spettante al singolo socio o terzo è da riferirsi ai danni che siano ‘ conseguenza immediata e diretta ‘ della condotta degli amministratori, con un esito interpretativo che si tradurrebbe -come sostengono le ricorrenti -in una superflua ridondanza della regola di cui al l’art. 1223 c.c.
Funzione dell’avverbio in questione , invece, è quella di operare una selezione all’interno dell’insieme delle posizioni soggettive che possono essere lese dalla condotta degli amministratori -condotta idonea a
determinare, sulla base del nesso di causalità c.d. ‘ materiale ‘ (artt. 40 e 41 c.p.), una lesione di tali posizioni comunque qualificabile in tutti i casi come ‘dann oevento’ riconoscendo al singolo socio o al terzo la possibilità di agire per il danno(-evento) che si sia autonomamente prodotto nella sua specifica sfera patrimoniale e non anche il danno(evento) che invece, interessando il patrimonio della società, presenta, rispetto alla posizione del singolo socio o terzo, conseguenze patrimoniali negative solamente mediate, in quanto dipendenti, appunto, dalla compromissione del patrimonio sociale.
Il danno prodottosi ‘direttamente’ nel patrimonio del socio del terzo, quindi, è – e rimane – un danno-evento che si qualifica per essere frutto, sì, della condotta degli organi sociali ma che si colloca integralmente al di fuori della lesione all’integrità del patrimoni sociale .
Pertanto l’avverbio ‘direttamente’ non vuol costituire , come opinano le ricorrenti, un richiamo all’art. 1223 c.c. , considerato che detto richiamo oltre che ridondante verrebbe anzi a determinare il concreto rischio di riconoscere il risarcimento del medesimo danno sia alla società sia ai singoli soci o terzi , essendo il canone di cui all’art. 1223 c.c. idoneo ad operare una selezione non delle posizioni soggettive oggetto di lesione bensì unicamente dell’ambito dei danni concretamente risarcibili, una volta, tuttavia, individuato il soggetto danneggiato avente diritto al risarcimento.
L’avverbio ‘direttamente’, quindi, costituisce uno specifico (e -si ripete – voluto) criterio di selezione che, nell’ambito dell’insieme dei danni-evento che possono colpire la sfera patrimoniale del socio o del terzo, viene a limitare la risarcibilità ai soli danni che abbiano attinto direttamente ed autonomamente il patrimonio del danneggiato, escludendo invece i danni che hanno invece interessato direttamente il patrimonio sociale e solo in seconda battuta quello di soci o terzi,
costituendo in questo caso un riflesso de lla lesione all’integrità del patrimonio sociale.
Risulta poi evidente che lo specifico danno-evento ‘diretto’ di cui all’art. 2395 c.c. fonderà la pretesa risarcitoria del socio o terzo in presenza di uno o più concreti riflessi patrimoniali lesivi che siano ‘conseguenza immediata e diretta’ (danno -conseguenza) del dannoevento, ma che -si ripete -in tanto potranno essere valutati -in quanto scaturiscano da un danno-evento che abbia interessato ‘direttamente’ il socio o il terzo , operando la regola di cui all’art. 1223 c.c. sul piano della mera determinazione quantitativa dei danni.
In conclusione, quindi, ritenuta l’infondatezza delle deduzioni delle ricorrenti, deve essere ribadito il principio per cui l’azione individuale di responsabilità, ai sensi dell’ art. 2395 c.c. esige che il comportamento doloso o colposo dell’amministratore -posto in essere tanto nell’esercizio dell’ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze abbia determinato un danno diretto ed autonomo sul patrimonio del socio o del terzo, risultando conseguentemente questi ultimi legittimati, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione di natura aquiliana per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera patrimoniale solo quando il nocumento riguardi direttamente detta sfera e non quando lo stesso costituisca un mero riflesso del pregiudizio che abbia invece interessato il patrimonio sociale.
Il secondo motivo di ricorso è, parimenti, infondato.
Si deve infatti rilevare che -come dedotto dalla controricorrente -poiché i contratti conclusi dalle due ricorrenti con la RAGIONE_SOCIALE risalgono al 5 aprile 2007 e poiché ad essere contestata all’odierna controricorrente è l’attività di revisione svolta sui bilanci dal 2004 -data in cui la stessa RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE avrebbe posto in essere le operazioni all’origine del successivo dissesto -al 2006 -non risultando il bilancio 2007 ancora disponibile alla data di stipula dei contratti -la responsabilità della società di revisione trovava la propria disciplina ratione temporis non nel D. Lgs. n. 39/2010 ma nel previgente D. Lgs. n. 58/1998, il cui art. 164 -non a caso richiamato dalla decisione impugnata – operava un espresso richiamo all’art. 2407 c.c. ( ‘ 1. Alla società di revisione si applicano le disposizioni dell’articolo 2407, (( . . . )), del codice civile. 2. I responsabili della revisione e i dipendenti che hanno effettuato l’attività di revisione contabile sono responsabili, in solido con la società di revisione, per i danni conseguenti da propri inadempimenti o da fatti illeciti nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati ‘ ) e quindi all’ultimo comma di tale ultima previsione ( ‘ All’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395 ‘ ).
Risulta, in tal modo, superata ogni deduzione delle ricorrenti in ordine all’inapplicabilità dell’art. 2395 c.c. in quanto norma eccezionale o comunque a carattere speciale, e come tale, non applicabile al Revisore, in quanto ancorata ad una disciplina in concreto non applicabile ratione temporis .
Il terzo motivo è inammissibile per una duplice ragione.
La prima è costituta dalla preclusione ex art. 348ter c.p.c., in quanto, come già illustrato in relazione al primo motivo, la decisione della Corte d’appello pur apparentemente affermando il contrario -ha nella sostanza adottato una motivazione conforme a quella del giudice di prime cure.
La seconda, invece, deriva dal fatto che il motivo, pur invocando l’ipotesi di cui all’art. 360, n. 5), c.p.c., si sostanzia in una censura del
merito della decisione e della motivazione che è alla base di quest’ultima, dovendo quindi trovare applicazione il principio reiteratamente enunciato da questa Corte per cui è inammissibile il ricorso per cassazione che, dietro l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U – Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017), atteso che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013).
Il motivo, invero – pur nella espressa consapevolezza (pag. 31) dell’orientamento di questa Corte per cui, a seguito della riformulazione dell’art. 360, n. 5), c.p.c., il controllo di legittimità sulla motivazione risulta limitato al ‘minimo costituzionale’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 e, da ultimo, Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022) -viene a sostenere in primo luogo la tesi della possibilità di operare una verifica della motivazione ‘quando essa presenti evidenti profili di implausibilità, derivanti dalle modalità con le quali p stato ricostruito il ‘fatto storico” posto a fondamento della domanda (…)’ .
È agevole osservare che, ove con ‘implausibilità’ le ricorrenti intendessero riferirsi all’ipotesi di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, risulterebbe effettivamente ancora
ammissibile il sindacato di legittimità sulla motivazione, essendosi l’anomalia motivazionale tradotta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, così come persisterebbe -evidentemente -la possibilità di censurare la decisione di merito che abbia omesso di esaminare un fatto storico che presenti carattere di decisività.
Il ricorso, tuttavia, non viene concretamente a dedurre in modo specifico né l’una né l’altra ipotesi, denunciando, semmai, un travisamento dei fatti che sono stati individuati dalle ricorrenti medesime come produttivi del danno, e desumendo da tale travisamento il carattere ‘irrazionale’ (pag. 35) della decisione .
In tal modo, tuttavia, le ricorrenti cercano di conseguire un sindacato sulla motivazione del giudice di merito tramite la sommatoria o crasi di ipotesi ben distinte, peraltro rappresentate in concreto in modo spurio, considerato che la ‘irrazionalità’ della motivazione non può derivare semplicemente dal merito delle asserzioni in essa contenute ma unicamente dall’incompatibilità logica che emerga tra le asserzioni medesime, o dalla loro irrimediabile incomprensibilità, mentre nell’ambito dell’omesso esame di fatto decisivo non può farsi rientrare l’inadeguata valutazione di argomentazioni (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 14802 del 14/06/2017).
Quello che le ricorrenti sembrano voler attribuire -anche infondatamente, come si vedrà – alla decisione di merito sarebbe, in ipotesi, un errore di interpretazione del contenuto della domanda il quale, tuttavia, avrebbe dovuto essere dedotto ex art. 360, n. 4), c.p.c. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12909 del 13/07/2004; Cass. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007; Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020; Cass. Sez. 5 – Ordinanza n. 30770 del 06/11/2023), a condizione, comunque, che tale vizio condizionasse la sola sentenza
d’appello e non anche quella di primo grado, dal momento che in tale seconda ipotesi si sarebbe dovuto invece proporre appello.
Anche volendo -per via di mera ipotesi -riqualificare in tal modo il ricorso, permarrebbe, tuttavia, il carattere di inammissibilità dello stesso, dal momento che proprio l’assenza di indicazioni in ordine al profilo appena evidenziato e proprio , in particolare, l’omessa indicazione dei fatti originariamente indicati come costitutivi della domanda, varrebbero ad evidenziare il mancato rispetto del canone di specificità di cui all’art. 366, n. 6), c.p.c.
Vi è, del resto, da osservare, in conclusione, che il mero esame della motivazione della decisione impugnata (si vedano le pagg. 21-22 della sentenza: ‘Il discorso non muta anche a voler valorizzare l’ulteriore prospettazione, secondo cui sarebbe configurabile in capo a parte attrice un danno diretto, consistente nella lesione della libertà contrattuale del fornitore, indotto a noleggiare le navi avendo fatto affidamento sulle risultanze di bilanci falsi, ma regolarmente certificati dal revisore.’ ) vale ad evidenziare che la stessa ha ben considerato e valutato gli elementi addotti dalle ricorrenti, operando una ricostruzione ipotetica alternativa ma negando che anche in tale ipotetico scenario la domanda delle ricorrenti potesse trovare accoglimento, in tal modo evidenziandosi in modo definitivo che quella abilmente confezionata dalle ricorrenti si sostanzia in una mera -ed inammissibile -censura di merito.
Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna delle ricorrenti alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte, rigetta il ricorso, condanna le ricorrenti in solido a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 12.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima