Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27211 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 27211 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/10/2025
Oggetto
Responsabilità civile generale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10940/2024 R.G. proposto da NOME NOME, NOME NOME e NOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO, domiciliati digitalmente ex lege ;
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, rappresentati e difesi dall’ AVV_NOTAIO, domiciliati digitalmente ex lege ;
-controricorrenti –
nonché contro
NOME, rappresentato e difeso dall’ AVV_NOTAIO,
domiciliato digitalmente ex lege ;
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste, n. 87/2024, depositata in data 26 febbraio 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1° ottobre 2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME, NOME e NOME COGNOME convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Udine, NOME e RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME chiedendone la condanna, in solido o di ciascuno per quanto di ragione:
─ al la messa in pristino dei terreni di loro proprietà o, in alternativa, al pagamento della somma necessaria per tale intervento (indicata in euro 100.000,00);
─ a l risarcimento del danno da mancato guadagno per la mancata coltivazione dei terreni di loro proprietà, quantificato in euro 44.804,00 o nell’altra somma ritenuta di giustizia.
Premesso di essere proprietari di diversi fondi siti in Trivignano Udinese (UD), per i quali avevano chiesto e ottenuto le concessioni regionali per l’estrazione e la vendita della ghiaia, nonché per il successivo riempimento con inerti, esposero a fondamento della
-controricorrente –
e contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’ AVV_NOTAIO, domiciliato digitalmente ex lege ;
-controricorrente -;
e nei confronti di
domanda che:
─ con contratto del 3/9/2001 avevano concesso in comodato alla RAGIONE_SOCIALE (poi divenuta RAGIONE_SOCIALE) tutti detti terreni ad uso esclusivo di coltivazione della cava , con l’impegno che, terminata l’estrazione della ghiaia, la cava medesima, dalla data del l’ 11/02/2003, avrebbe dovuto essere gestita come discarica di seconda categoria tipo A: avrebbe, cioè, potuto ricevere solo rifiuti inerti, in base alla autorizzazione ottenuta;
─ la società comodataria si era obbligata a non destinare i fondi a scopi differenti, a custodirli con la dovuta diligenza, a non concederne a terzi il godimento senza il consenso dei comodanti e a restituirli entro il 31/12/2007;
─ il progetto prevedeva, inoltre, che, all’esito dello sfruttamento, si sarebbe potuto procedere a successiva stesura di uno strato superficiario di terreno vegetale, onde recuperare l’originaria destinazione agricola dei fondi;
─ era invece accaduto che, conclusa la fase di sfruttamento estrattivo del sito, NOME RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME (in proprio e nella veste di soci della società RAGIONE_SOCIALE), nonché NOME COGNOME (in qualità di responsabile della gestione della discarica) e NOME COGNOME (quest’ultimo nella qualità di gestore di fatto e addetto ai controlli), anziché conferire solo inerti avevano riversato illecitamente nei terreni tonnellate di rifiuti speciali, determinando, nell’ottobre 2004, il sequestro pena le dell’area, l’instaurazione dei relativi procedimenti penali e il conseguente fermo di tutte le attività, compresa la programmata stesura di uno strato superficiale di terreno vegetale, come da progetto iniziale e autorizzazione provinciale;
─ a causa di tali conferimenti illeciti, dell’alterazione dei luoghi, dei sequestri da parte della Procura e del pericolo di inquinamento delle falde acquifere, con decreto regionale n. 1496/ AMB dell’11/04/2018, erano stati disposti la chiusura della discarica nonché un periodo di
sorveglianza e di monitoraggio per escludere la possibilità di inquinamento delle falde sottostanti, della durata di cinque anni, con scadenza alla data del l’ 11/04/2023.
Con sentenza n. 159 del 2022, il Tribunale di Udine rigettò, per intervenuta prescrizione, la domanda risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. proposta dagli attori nei confronti dei convenuti persone fisiche; dichiarata invece la responsabilità contrattuale della RAGIONE_SOCIALE, ordinò la separazione della causa relativa alle domande ad essa riferite, disponendone, con separata ordinanza, l’ ulteriore istruzione.
Pronunciando sui contrapposti gravami la Corte d’appello di Trieste, con sentenza non definitiva n. 206 del 2023, rigettò quello incidentale proposto da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE e dalla RAGIONE_SOCIALE e, in merito alla domanda risarcitoria su base extracontrattuale degli attori/appellanti principali, rigettata l’eccezione di prescrizione, ordinò, con separata ordinanza, la rimessione della causa in istruttoria.
All’esito quindi dell’espletata c.t.u. la Corte friulana ha pronunciato sentenza definitiva n. 87/2024, depositata in data 26 febbraio 2024, con la quale, « in parziale riforma » della sentenza di primo grado, ha rigetta to ─ perché infondate, per difetto di nesso causale tra le condotte denunciate e i danni lamentati ─ le domande proposte da NOME, NOME e NOME COGNOME nei confronti dei convenuti appellati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, confermando la condanna degli attori/appellanti alle spese del primo grado e condannandoli altresì alle spese del giudizio di appello nei confronti del COGNOME e del COGNOME, compensate invece quelle nei confronti degli altri appellati.
Questi, in sintesi, i passaggi salienti della motivazione:
─ i l c.t.u. ha accertato che: lo smaltimento in passato di rifiuti non conformi all’autorizzazione non ha causato danni ambientali e non sono stati rilevati problemi di inquinamento; sul sito non si può (e non si è potuto) svolgere attività agricola per produzioni alimentari, umane e
zootecniche, perché risulta vietato dalle disposizioni vigenti sulle discariche; l’attività agricola non è stata proposta in sede di presentazione dell’ultimo progetto di chiusura e ripristino della discarica, ma è stato proposto ed assentito il solo inerb imento dell’area e la manutenzione dello stesso; non sono necessari ulteriori interventi di messa in pristino; a seguito dell’emanazione del Decreto n. 25692/GRFVG del 01/06/2023, con cui la Regione ha approvato la chiusura della discarica e ha stabilito la fine del periodo di postgestione, è il Comune di Trivignano Udinese che deve stabilire le condizioni di utilizzo del sito, che dovranno essere in linea con quanto disposto dal decreto sopra citato che prevede restrizioni;
─ in particolare, il c.t.u., rispondendo al quinto quesito, ha affermato che, in base a quanto previsto nell’ allegato 2, punto 3.1, del d.lgs. n. 36 del 2003, richiamato anche dai provvedimenti regionali sul sito, indipendentemente dal fatto che il sito risultasse o meno contaminato, « è sempre vietato lo sfruttamento agricolo della superficie di una discarica in post-gestione per produzioni alimentari, umane o zootecniche, come lo è la richiesta di coltivare a cereali il sito; la richiesta degli appellanti fa riferimento alla coltivazione di cereali sul sedime della discarica, e per quanto sopra riportato, ciò non è possibile »; ha quindi ribadito che, nella specie, tanto deve affermarsi non a causa dello smaltimento illecito di rifiuti accertato nel 2004 , bensì per il fatto che « le norme sulle discariche vietano la coltivazione della superficie ripristinata per produzioni agricole alimentari, umane e zootecniche come è ad esempio la coltivazione di cereali, in quanto lo strato di terreno superficiale ha lo scopo di fornire una protezione adeguata contro l’erosione e consentire la protezione degli strati sottostanti dalle escursioni termich e»;
─ non può essere accolta l’obiezione degli appellanti, secondo cui i fondi, se non fossero stati illecitamente utilizzati per la discarica di rifiuti non consentiti, sarebbero stati comunque recuperabili per fini
agricoli, sia pure non per produzione alimentare, ed avrebbero consentito di attuare tutta una serie di colture ‘ no food ‘ perché:
nell’atto di citazione la stessa parte attrice aveva affermato che l’area in questione avrebbe dovuto essere destinata alla coltivazione dei cereali (e non quindi ad altre coltivazioni), senza peraltro specificare nulla, né in ordine al tipo di cereali seminati, né all’uso ;
in ogni caso, risulta tranciante la risposta del c.t.u. che ha escluso tout court , sulla base delle previsioni normative di cui d.lgs. n. 36 del 2003, lo sfruttamento agricolo di un sito di discarica, in quanto, pur essendo l’ultimo strato di copertura realizzato con terreno con caratteristiche tali da poter permettere l’attività agricola, qualsiasi attività diretta ad incidere su tale strato (arature del suolo, piantumazioni di essenze ad alto fusto, etc.) è vietata perché rischia di danneggiare la copertura superficiale, violando così i criteri a cui deve rispondere il predetto strato e ciò indipendentemente dal tipo di rifiuti gestiti in discarica;
le reiterate contestazioni sul punto degli appellanti non sono idonee ad inficiare le conclusioni peritali, atteso che non si confrontano con quanto affermato dal c.t.u. circa il fatto che ogni decisione relativa alla possibilità di trasformare le aree in agricole spetta al Comune di Trivignano e ciò indipendentemente dal tipo di rifiuti gestiti nella discarica.
Avverso tale decisione NOME, NOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resistono NOME e NOME COGNOME, con unico controricorso, nonché NOME COGNOME e NOME COGNOME, con distinti controricorsi.
RAGIONE_SOCIALE è rimasta intimata.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti costituite.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
I ricorrenti e i controricorrenti COGNOME e COGNOME hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano « violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 36 del 2003, allegato 2, punto 3.1 (piano di ripristino ambientale – elementi del piano) e allegato 1, punto 1.2.3 (copertura superficiale finale) e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697 e 1226 cod. civ., 2043, 2055 cod. civ. e 40 cod. pen. ».
Il motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto, sulla base della c.t.u., che fosse impossibile coltivare cereali sui terreni oggetto di causa, sull’assunto che la normativa sulle discariche vieta lo sfruttamento agricolo per produzioni alimentari, umane o zootecniche.
Sostengono al contrario i ricorrenti che la legge vieta solo la destinazione alimentare (umano o zootecnico) delle colture, ma non la coltivazione di cereali per filiere industriali; lamentano che il c.t.u. abbia erroneamente preso in considerazione solo la prima parte dell’allegato 1, punto 1.2.3, d.lgs. cit. dedicato alla « copertura superficiale finale », omettendo di prendere in esame la seconda parte, ove è specificato che tale copertura superficiale finale della discarica deve essere realizzata mediante una struttura multistrato e che lo strato superficiale di copertura può essere realizzato con spessore anche maggiore di uno o due metri, così permettendo la coltivazione superficiale in sicurezza senza che l’aratura vada a toccare gli strati più profondi.
Rilevano che, di conseguenza, se i conferimenti di rifiuti fossero avvenuti nel rispetto delle autorizzazioni, la superficie della discarica si sarebbe presentata uniforme e priva di presidi per la messa in sicurezza permanente delle porzioni inquinate e nel rispetto della normativa sopravvenuta e sarebbe stato allora possibile presentare un piano di ripristino ambientale con destinazione agricola su tutta l’area di
discarica, realizzando una uniforme copertura a struttura multistrato, con uno strato superficiale di spessore idoneo per poter coltivare cereali in superficie, sia pur per produzione non alimentare.
Negano, inoltre, che ─ come ritenuto dai giudici triestini ─ una tale prospettiva argomentativa fosse preclusa dai limiti della domanda, in quanto riferita ad una ipotizzata coltivazione di cereali senza alcun’altra specificazione, dal momento che, per come formulata, la domanda era in realtà riferibile ad entrambe le ipotesi di sfruttamento economico, alimentare o industriale dei cereali.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, secondo la sintesi che ne è anteposta a pag. 3 del ricorso, « omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio, che è stato oggetto di discussione delle parti in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per non avere il Giudice di appello tenuto conto e considerato come sarebbe stata la situazione dei terreni senza il conferimento dei rifiuti illegittimi e quali conseguenti provvedimenti gli enti preposti avrebbero diversamente adottato in luogo di quelli emessi a causa dei rifiuti illegittimi ».
L’illustrazione del motivo, a pag. 24, prosegue con il seguente testuale elenco di ulteriori doglianze:
« Omesso esame circa un ulteriore fatto decisivo del giudizio, che è stato oggetto di discussione delle parti per non avere il Giudice di appello tenuto conto che le previsioni progettuali presentate dai sig.ri COGNOME NOME e COGNOME NOME e approvate dalla Giunta Provinciale interessano solo l’area su cui sono stati smaltiti i rifiuti per una superficie di 29.600 mq e non l’area del fondo della cava su cui si concentra la domanda di messa in pristino dei ricorrenti.
Omesso esame circa un ulteriore fatto decisivo del giudizio ovvero che i terreni sono stati restituiti solo a seguito del dissequestro avvenuto nel 2014, e si trovano in condizioni certamente peggiori rispetto a quelle del momento della stipula del contratto di comodato che prevedeva la restituzione ai proprietari entro il 31.12.2007.
Omesso esame di documenti decisivi in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quali l’allegato 1 della consulenza di parte ricorrente del 04.02.2019; omesso esame del progetto originario di coltivazione della cava che prevede nei suoi programmi la ripresa dell’attività agricola dopo lo sfruttamento come cava ».
Rilevano i ricorrenti che in assenza degli illeciti:
non ci sarebbe stato il lungo sequestro penale dell’area (dal 2004 al 2014);
il Comune avrebbe potuto autorizzare molto prima la conversione agricola del sito, senza limitazioni imposte dai presidi ambientali dovuti ai conferimenti illeciti;
avrebbero potuto presentare quindici anni prima il piano di ripristino agricolo previsto dalla legge, con una struttura multistrato superiore;
sarebbe stato possibile coltivare cereali per la filiera industriale su tutta la superficie, senza decurtazioni o restrizioni, con conseguente mancato guadagno per quindici anni.
Lamentano, infine, l’omesso esame di una serie di documenti e memorie da cui trarre queste circostanze, nonché la mancata valutazione delle prove di pregressa coltivazione e del nesso causale fra condotta illecita e danno economico.
3. Il primo motivo è inammissibile.
Viene con esso riproposta una tesi censoria -quella secondo cui il d.lgs. n. 36 del 2003 vieterebbe solo la destinazione alimentare (umano o zootecnico) delle colture, ma non la coltivazione di cereali per filiere industriali ─ già posta a base dell’appello ed esaminata dalla Corte di merito che l’ha respinta sulla scorta d ei seguenti tre autonomi rilievi:
non si ricava dalla domanda alcun riferimento della pretesa risarcitoria al possibile sfruttamento dei terreni per la coltivazione di cereali per filiere industriali;
b) il c.t.u. ha smentito la tesi degli appellanti evidenziando che, sulla base del citato decreto legislativo, è da considerarsi preclusa qualsiasi attività diretta a incidere sul l’ultimo strato di copertura ;
comunque, ogni decisione relativa alla possibilità di trasformare le aree in agricole spetta al Comune di Trivignano.
Ebbene, il motivo prospetta argomenti diretti a contestare la correttezza del primo e del secondo argomento, ma nessuna critica si rinviene che sia diretta a censurare, tanto meno secondo alcuno dei vizi cassatori tipizzati dall’art. 360 cod. proc. civ., la terza di per sé autosufficiente ratio decidendi .
Tale lacuna rende inammissibili le altre considerazioni critiche e il motivo nel suo complesso.
Occorre rammentare al riguardo che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, quando la sentenza assoggettata ad impugnazione sia fondata su diverse rationes decidendi , ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro alcuna di esse determina l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata, piuttosto che per carenza di interesse (v. ex multis Cass. n. 24409 del 02/09/2025; n. 20767 del 22/07/2025; n. 15756 del 12/06/2025; n. 2174 del 24/01/2023; n. 13880 del 6/07/2020; n. 14740 del 13/07/2005)
Il secondo motivo è altresì inammissibile.
Secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, oggetto del vizio di cui al novellato art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. è l’omesso esame circa un « fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti », dove per « fatto », secondo pacifica acquisizione, deve intendersi non una « questione » o un « punto », ma: i ) un vero e proprio « fatto », in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un « fatto » costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario , vale a dire un fatto
dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii ) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass. Sez. U. n. 5745 del 2015); iii ) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv ) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014); il « fatto » il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, aver carattere « decisivo », vale a dire tale che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia; non costituiscono, viceversa, « fatti », il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: a) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014); c) una moltitudine di fatti e circostanze, o il « vario insieme dei materiali di causa » (cfr. Cass. n. 21439 del 2015).
In manifesta violazione di tale paradigma il vizio viene nella specie riferito all’insieme delle argomentazioni e tesi censorie dedotte in tutti i precedenti motivi, vertenti in ordine alla vicenda nel suo complesso considerata: vicenda che, come tale, peraltro, è stata certamente posta ad oggetto dell’esame condotto dal giudice a quo .
In buona sostanza il motivo è un vero e proprio raggruppamento di argomenti e tesi censorie inestricabilmente mescolate l’una con l’altra, dalle quali è pressoché impossibile trarre una specifica e univoca impostazione censoria, tanto meno riconducibile al vizio indicato nell’intestazione.
La promiscuità della formulazione delle censure avviluppa gli
asseriti vizi strutturali della motivazione, ma anche l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale.
Si tratta, dunque, di mezzi d’impugnazione difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto argomentativo che sorregge la sentenza impugnata.
Né è consentito il riesame funditus del merito della vertenza (Cass. n. 9760 del 2017), non operando la Cassazione quale giudice di terza istanza (Cass. Sez. U. n. 14430 del 2017).
È preclusa, infatti, al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. Sez. U. n. 11708 del 2016), indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché gli è estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass. Sez. U. n. 16990 del 2017).
Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese, liquidate come da dispositivo, in favore dei controricorrenti.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti , ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida:
in favore di COGNOME NOME e COGNOME NOME, per ciascuno, in euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del
15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge;
b) in favore di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, in solido tra di essi, in euro 4.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1° ottobre 2025.
Il Presidente NOME COGNOME