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Danni da cose in custodia: la prova del nesso causale

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha rigettato il ricorso di un proprietario immobiliare condannato per danni da infiltrazioni. Il caso verteva sulla responsabilità per danni da cose in custodia (art. 2051 c.c.). La Corte ha stabilito che le censure relative a presunte omissioni o errori nella consulenza tecnica d’ufficio (CTU) sono inammissibili se non viene dimostrata la loro decisività ai fini del giudizio. Inoltre, ha ribadito che l’accertamento del nesso causale, basato sul criterio del “più probabile che non” e adeguatamente motivato dai giudici di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, confermando la condanna basata su una ripartizione di responsabilità tra le parti.

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Danni da cose in custodia: la prova del nesso causale secondo la Cassazione

L’argomento dei danni da cose in custodia è uno dei più frequenti nelle aule di tribunale, specialmente in ambito condominiale e immobiliare. Le infiltrazioni d’acqua provenienti dalla proprietà del vicino sono un classico esempio che genera contenziosi. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti su come viene valutata la prova del nesso causale e sull’irrilevanza di certi vizi procedurali quando non sono decisivi. Analizziamo insieme questo caso per capire quali sono i principi affermati dalla Suprema Corte.

I Fatti di Causa: una disputa per infiltrazioni

La vicenda trae origine dalla richiesta di risarcimento danni avanzata da due comproprietari a causa di infiltrazioni d’acqua provenienti da un immobile contiguo. Il Giudice di Pace, in primo grado, aveva riconosciuto un concorso di responsabilità tra le parti, condannando la proprietaria dell’immobile da cui provenivano le infiltrazioni a pagare una somma pari al 50% dei danni complessivi.

La decisione veniva confermata in appello dal Tribunale. Insoddisfatta, la proprietaria condannata decideva di ricorrere alla Corte di Cassazione, lamentando una serie di errori procedurali e di valutazione da parte dei giudici di merito.

I motivi del ricorso e la questione dei vizi procedurali

La ricorrente basava il suo ricorso su quattro motivi principali:
1. Omessa pronuncia: sosteneva che il giudice d’appello non si fosse pronunciato su una specifica censura relativa a presunte irregolarità nella consulenza tecnica d’ufficio (CTU), in particolare il mancato resoconto di alcuni saggi tecnici.
2. Violazione dell’onere della prova: denunciava un’errata applicazione delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) in materia di danni da cose in custodia.
3. Nullità della CTU: affermava la nullità della consulenza per violazione del diritto al contraddittorio e di altre norme procedurali.
4. Vizio di motivazione: lamentava una motivazione carente e acritica da parte dei giudici, che si sarebbero limitati a recepire le conclusioni del consulente tecnico senza una valutazione autonoma.

Sostanzialmente, la difesa si concentrava sul tentativo di invalidare la perizia tecnica, elemento chiave su cui si fondava la condanna.

La Decisione della Corte: la responsabilità per danni da cose in custodia

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Gli Ermellini hanno ritenuto tutti i motivi di ricorso inammissibili o infondati, fornendo una chiara lezione sulla gestione processuale dei danni da cose in custodia e sulle modalità con cui si può contestare una CTU.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni della ricorrente con un ragionamento logico-giuridico stringente.

Innanzitutto, riguardo all’omessa pronuncia su un’eccezione processuale, la Cassazione ha ricordato un principio consolidato: il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo per questioni di merito, non per eccezioni di rito. Inoltre, la Corte ha sottolineato un aspetto cruciale: la ricorrente non aveva spiegato in modo specifico per quali ragioni la mancanza di quel dato tecnico (il risultato dei saggi non completati per motivi tecnici) avrebbe portato a una decisione diversa. In assenza di una dimostrazione della “decisività” dell’errore, la censura è irrilevante.

Sul tema dell’onere della prova, la Corte ha chiarito che il Tribunale aveva correttamente applicato i principi vigenti. I giudici di merito avevano ritenuto, sulla base della CTU e delle altre prove, che fosse “più probabile che non” che le infiltrazioni provenissero, almeno in parte, dalla proprietà della ricorrente. Questo standard probatorio, tipico della responsabilità civile, era stato correttamente applicato. Le critiche della ricorrente, secondo la Corte, si risolvevano in una richiesta di riesame dei fatti, inammissibile in sede di legittimità.

Anche i motivi relativi alla nullità della CTU e al vizio di motivazione sono stati respinti. La Corte ha ribadito che le censure erano una mera riproposizione delle stesse argomentazioni sotto altre vesti. La motivazione della sentenza d’appello, sebbene sintetica e basata sulle conclusioni del CTU, è stata giudicata adeguata, non meramente apparente e logicamente coerente. I giudici di merito hanno il potere di fare proprie le conclusioni del perito, purché la loro decisione sia supportata da un percorso argomentativo logico, come avvenuto nel caso di specie.

Conclusioni: implicazioni pratiche

Questa ordinanza offre spunti pratici di grande importanza:

1. Contestare una CTU: Per contestare efficacemente una consulenza tecnica non basta lamentare un’omissione o un errore. È necessario dimostrare che quell’errore è stato decisivo, cioè che, se non fosse stato commesso, la decisione finale sarebbe stata diversa.
2. Il giudizio di Cassazione non è un terzo grado di merito: La Suprema Corte non può riesaminare i fatti e le prove. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione. Tentare di ottenere una nuova valutazione delle prove in Cassazione è una strategia destinata al fallimento.
3. Lo standard del “più probabile che non”: Nei casi di responsabilità civile, come i danni da cose in custodia, non è richiesta la certezza assoluta del nesso causale. È sufficiente che, sulla base delle prove disponibili, la causa del danno sia attribuibile a un determinato soggetto con un grado di probabilità prevalente.

Quando un errore nella Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) può rendere nulla una sentenza?
Un errore o un’omissione nella CTU può portare alla nullità solo se la parte che lo eccepisce dimostra in modo specifico e argomentato che tale vizio è stato decisivo, ovvero che senza di esso la decisione del giudice sul merito della controversia sarebbe stata diversa.

Qual è il criterio utilizzato per provare il nesso di causa nei casi di danni da cose in custodia?
Nei giudizi civili di responsabilità, come quelli per danni da cose in custodia, si applica il criterio del “più probabile che non”. Non è richiesta la certezza assoluta, ma è sufficiente che la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno sia più probabile della sua insussistenza, sulla base delle prove raccolte.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove e gli accertamenti di fatto dei giudici di primo e secondo grado?
No, la Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Non può effettuare una nuova e diversa valutazione delle prove o contestare gli accertamenti di fatto operati dai giudici dei gradi inferiori, a meno che non vi sia un vizio di motivazione gravissimo, come una motivazione del tutto assente, meramente apparente o insanabilmente contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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