Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 27208 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3   Num. 27208  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/10/2025
Oggetto
Responsabilità civile generale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24343/2023 R.G. proposto da COGNOME  NOME  e  COGNOME  NOME,  in  proprio  e  nella  qualità  di procuratore speciale di NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO , domiciliati digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, domiciliata digitalmente ex lege ;
-controricorrente –
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa NOME COGNOME, domiciliata digitalmente ex lege ;
dall’AVV_NOTAIO
-controricorrente –
e nei confronti di
COGNOME NOME;
-intimata – avverso  la  sentenza  della  Corte  di  Appello  di  Roma,  n.  6124/2023, depositata in data 27 settembre 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1° ottobre 2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME, in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE in fallimento, e NOME COGNOME, in proprio e quale procuratore speciale sia della RAGIONE_SOCIALE che di NOME COGNOME, giusta procura speciale del 21/01/2015 autenticata dal AVV_NOTAIO di Roma, Rep. n. 2505, convennero in giudizio, nel 2015, davanti al Tribunale di Roma, NOME COGNOME, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti dalla RAGIONE_SOCIALE oltre che dallo stesso COGNOME e dal COGNOME in proprio, in conseguenza della mancata erogazione da parte della RAGIONE_SOCIALE dei contributi mutualistici ex lege Melandri e dei contributi per valorizzazione giocatori ex art. 101 cd. N.O.I.F. (Norme Organizzative Interne della F.I.G.C); ciò -in thesi -per fatto ascrivibile al suo p residente dell’epoca, NOME COGNOME , che ne aveva illegittimamente disposto il blocco senza che ne sussistessero i presupposti, allo scopo di favorire la nascita di una nuova RAGIONE_SOCIALE calcistica a scapito della RAGIONE_SOCIALE, e che per tal motivo era stato
condannato dalla giustizia RAGIONE_SOCIALE e sottoposto a procedimento penale con  l’accusa  di  abuso  d’ufficio  (poi  archiviato  per  mancanza  della qualità di pubblico ufficiale).
Dedussero che la tempestiva erogazione di tali contributi avrebbe impedito alla RAGIONE_SOCIALE di soddisfare i principali creditori e, quindi, di evitare il fallimento, dichiarato nel 2012, e con esso anche le conseguenze pregiudizievoli, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, sofferte sia dalla RAGIONE_SOCIALE che dal RAGIONE_SOCIALE in proprio per avere egli perso, per il procedimento disciplinare che da tale fallimento era seguito a suo carico, la possibilità di assolvere l’incarico di consulenza professionale di durata triennale che gli era stato conferito dalla RAGIONE_SOCIALE nel mese di Giugno 2012.
Instaurato il contraddittorio, con sentenza n. 12204 del 2020 il Tribunale negò la legittimazione degli attori rispetto alle domande avanzate quali successori della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, avendo escluso, in base ai principi enunciati da Cass. Sez. U. n. 6070 del 2013 e da Cass. Sez. 1 n. 13921 del 2019, che un tale fenomeno successorio si fosse nella specie determinato, per non avere i soci attori fornito in alcun modo la prova di aver avvertito il curatore del fallimento della pendenza del giudizio relativo al credito vantato, così da consentirgli di effettuare le proprie valutazioni prima della chiusura della procedura concorsuale.
Rigettò,  inoltre,  le  domande  risarcitorie  avanzate iure  proprio , avendo ritenuto difettare la prova del nesso causale tra la mancata erogazione dei contributi mutualistici e il dissesto della RAGIONE_SOCIALE.
Con sentenza n. 6124/2023, resa pubblica il 27 settembre 2023, la Corte d’appello di Roma ha confermato tale decisione, rigettando il gravame  in  via  principale  interposto  dal  COGNOME  e  dal  COGNOME,  in proprio e nelle qualità predette, con il quale gli stessi si dolevano sia della  negata  loro  legittimazione  a  far  valere  i  crediti  riferibili  alla RAGIONE_SOCIALE,  sia  del  rigetto  delle  domande  risarcitorie iure  proprio
avanzate.
3.1. Sotto il primo profilo la Corte ha rilevato che:
─  non  era in  contestazione  che  il  curatore  del  fallimento  della RAGIONE_SOCIALE non fosse stato avvertito, né dalla RAGIONE_SOCIALE, né dai soci ed ex amministratori, della esistenza della pretesa creditoria relativa ai contributi sopra menzionati;
─ t anto meno risultava che egli fosse stato avvertito del giudizio introdotto prima della chiusura della procedura avvenuta con decreto del Tribunale di Cremona il 13/12/2016 e della conseguente cancellazione  della  RAGIONE_SOCIALE  in  data  22/5/2019  dal  registro  delle imprese.
Quindi, richiamati il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 6070 del 2013 ed una serie di successive pronunce della RAGIONE_SOCIALE, ha concluso, conformemente al primo giudice, nel senso che « il comportamento omissivo tenuto dalla RAGIONE_SOCIALE e dai soci prima e durante la procedura concorsuale, a prescindere dalla contestata e non provata inadempienza del Curatore, costituisse la prova della preventiva rinuncia ai crediti, a maggior ragione dovendosi tenere conto della necessità di evitare possibili danni anche nei confronti della massa dei creditori del fallimento »; ha osservato, peraltro, che « in realtà … il comportamento non improntato a buona fede degli attori, era finalizzato proprio a garantirsi una successiva e personale riscossione giudiziale dei crediti da parte del COGNOME quale successore della RAGIONE_SOCIALE proprio a discapito degli altri creditori del fallimento, il cui Curatore è stato del tutto tenuto ignaro della esistenza dei crediti e del giudizio pendente introdotto dagli originari attori (RAGIONE_SOCIALE ed ex amministratori) ».
3.2.  Sotto  il  secondo  profilo  ha  rilevato  che  correttamente  il Tribunale aveva attribuito decisivo rilievo al fatto che il fallimento era stato dichiarato in conseguenza dello stato di dissesto della RAGIONE_SOCIALE e non certamente solo per il credito vantato dai creditori istanti e che, al
contrario, la tesi degli appellanti, secondo cui si sarebbe potuto evitare il  fallimento in caso di erogazione tempestiva delle somme dovute a titolo  di  contributi  vari,  « resta  un  mero  assunto  difensivo … non suffragato da alcuna ulteriore prova, e ciò, senza tenere in debito conto dei  possibili  profili  anche  di  natura  penale  che  ne  sarebbero  potuti derivare dal pagamento di crediti peraltro chirografari a danno di altri creditori in violazione della par condicio creditorum».
 Avverso  tale  sentenza  NOME  COGNOME  e  NOME  COGNOME, quest’ultimo in proprio e nella qualità di procuratore speciale di NOME COGNOME, propongono ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resistono  la  RAGIONE_SOCIALE  e  la  RAGIONE_SOCIALE depositando controricorsi.
NOME COGNOME, che in appello era subentrata al padre NOME COGNOME deceduto nelle more del giudizio, rimane intimata.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti costituite.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
NOME COGNOME e la RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE) hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., « violazione dell’art. 132, n. 4 cod. proc. civ. (violazione del cd. minimo costituzionale di motivazione) nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto provata la rinuncia al credito (restitutorio e risarcitorio del RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei resistenti per oltre euro 5.000.000,00) da parte del socio superstite COGNOME. COGNOME esclusivamente in considerazione del ‘comportamento omissivo tenuto dalla RAGIONE_SOCIALE e dai soci prima e durante la procedura concorsuale’ per aver agito in giudizio all’insaputa del Curatore fallimentare e al fine di ‘garantirsi una successiva e
personale riscossione giudiziale dei crediti da parte del COGNOME quale successore  della  RAGIONE_SOCIALE  proprio  a  discapito  degli  altri  creditori  del fallimento’ » (così in rubrica).
Lamentano  che  l a  Corte  d’ appello  abbia  ritenuto  che  il  socio superstite  NOME  COGNOME  avesse  rinunciato  al  credito  della  RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE basandosi su un comportamento omissivo, senza di ciò fornire una motivazione logica e coerente.
Sostengono che:
─ l a rinuncia al credito non può essere dedotta da comportamenti omissivi,  soprattutto  considerando  che  il  ricorrente  aveva  agito  in giudizio per recuperare il credito;
─  l a  Corte  di  merito  ha  contraddittoriamente  affermato  che  il Curatore non fosse a conoscenza del credito e, allo stesso tempo, che avesse rinunciato ad esso: non si può evidentemente manifestare una volontà inequivoca di rinuncia ad una posizione giuridica di vantaggio che  s’ignora  di  poter  esercitare ;  dalla  sentenza  impugnata  non  si comprende se, secondo la Corte, ad avere rinunciato al credito sia stato il ricorrente oppure la Curatela;
─ l e denunce penali e le azioni intraprese dai ricorrenti dimostravano chiaramente la volontà di recuperare il credito, non di rinunciarvi; sotto tale profilo il dedotto vizio motivazionale emergerebbe anche dal fatto che erano state prodotte in atti, oltre alle denunce penali contro NOME COGNOME, anche la denuncia penale sporta nei confronti del Curatore e un’ istanza di revoca del Curatore per inerzia nell’avvio dell’azione giudiziaria contro gli odierni resistenti per medesimi fatti per i quali oggi è causa (v. ricorso, pagg. 19-21 e ivi note 15 e 16).
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione dell’art. 2697  e  2495  cod.  civ.  nella  parte  in  cui  la  sentenza  impugnata  ha erroneamente posto a carico dei ricorrenti l’onere di ‘dimostrare che la
chiusura  della  procedura  fallimentare  per  insufficienza  dell’attivo,  a fronte dei crediti di cui al presente giudizio (mere pretese invero), non sarebbe  stata  il  frutto  di  una  rinuncia  degli  organi  della  procedura stessa e ancor prima della RAGIONE_SOCIALE, bensì di altra diversa motivazione ‘» .
Lamentano  che  la  Corte  di  merito  abbia  erroneamente  posto  a carico di essi attori/appellanti l’onere di dimostrare che la chiusura della procedura fallimentare non fosse frutto di una rinuncia al credito da parte del curatore.
Si sostiene di contro che, in base ai più recenti approdi giurisprudenziali, regola generale è che i crediti residui o sopravvenuti si trasmettono ai soci, mentre la rinuncia costituisce un’eccezione che deve  essere  provata  da  chi  la  invoca.  La  Corte,  quindi,  avrebbe invertito  l’onere  della  prova,  richiedendo  ai  ricorrenti  di  dimostrare l’assenza di rinuncia, in contrasto con i principi giurisprudenziali .
Il terzo motivo ─ rubricato « motivo di ricorso ex art. 360, n.ro 4 c.p.c.: violazione dell’art. 132, n.ro 4 cpc. (violazione del cd. minimo costituzionale di motivazione); violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. » ─ investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto l’insussistenza di un nesso causale tra il mancato versamento dei contributi suindicati e il fallimento della RAGIONE_SOCIALE e i conseguenti danni subiti iure proprio dal COGNOME.
Sono svolte al suo interno tre distinte censure.
3.1. Con la prima si deduce vizio di motivazione apparente per non avere la Corte dato conferente risposta ai motivi d’appello con i quali si era evidenziato che la pretesa risarcitoria non richiedeva di accertare se lo stato d’insolvenza (e quindi il fallimento) della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE fosse stato causato dal blocco dei pagamenti ad opera della RAGIONE_SOCIALE bensì semplicemente se con il tempestivo pagamento di tali contributi i creditori istanti per il fallimento sarebbero stati tacitati e il fallimento non sarebbe stato dichiarato nemmeno d’ufficio (e il ricorrente non
sarebbe stato inibito d’ufficio dall’ordinamento sportivo).
3.2. Con la seconda si denuncia la v iolazione dell’art.  115 c.p.c. , per  avere la Corte d’appello ignorato prove  decisive,  come  la certificazione del credito di euro 115.000,00 rilasciata dal Presidente COGNOME,  che  dimostrava  la  sufficienza  delle  somme  per  tacitare  i creditori istanti.
3.3. Con la terza si denuncia v iolazione dell’art.  116 c.p.c. per non avere la Corte territoriale apprezzato adeguatamente la certificazione del 5 marzo 2012, firmata dal Presidente COGNOME, la quale costituiva confessione stragiudiziale sull’esistenza del credito verso RAGIONE_SOCIALE .
Il primo motivo è infondato, quando non inammissibile.
4.1. Diversamente da quanto dedotto in ricorso, la ratio decidendi posta a fondamento della decisione ─ al di là del richiamo (alle pagg. 9 e 10) a precedenti giurisprudenziali che, come si dirà, riguardando la diversa ipotesi della cancellazione volontaria della RAGIONE_SOCIALE dal registro delle imprese o comunque conseguente a ipotesi diverse da quella di cui all’art. 118 , comma 1, n. 4, l. fall., non risultavano strettamente pertinenti ─ risulta chiara e univoca alla luce specialmente della conclusione riassuntiva della parte della motivazione dedicata a tale tema di lite (leggibile a pag. 11 della sentenza, secondo e terzo capoverso, e sopra testualmente riportata nei « Fatti di causa », par. 3.1., ultimo cpv.).
In sostanza essa è ricalcata sul principio affermato da Cass., Sez. 1, 22/05/2019, n. 13921, secondo cui « anche in conseguenza della obbligatoria cancellazione dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 118 l.f., n. 4, a seguito di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo, si determina l’estinzione della RAGIONE_SOCIALE ed un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori (ed i conseguenti crediti) facenti capo all’ente, ma che non siano stati realizzati dal curatore fallimentare, si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, salvo che il mancato espletamento
del recupero giudiziale consenta di ritenere che la RAGIONE_SOCIALE vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento liquidatorio. Ove il credito litigioso pendente non sia stato portato, o dai soci o dagli amministratori o dai liquidatori, a conoscenza del curatore del fallimento, il quale non lo abbia perciò incluso tra le voci dell’attivo da realizzare, si deve legittimamente ritenere che esso ab origine sia stato tacitamente rinunciato dalla RAGIONE_SOCIALE e quindi non possa formare oggetto di recupero giudiziale in forza della legittimazione successoria dei soci a seguito della estinzione della RAGIONE_SOCIALE fallita ».
L’accento, in applicazione di tale principio e in particolare della sua seconda parte, è chiaramente posto non sulla condotta del curatore, ma  su  quello  dei  soci  e  amministratori  della  RAGIONE_SOCIALE;  la  rinuncia  al credito è riferita a questi, prima che al curatore, ed è desunta dalla sua mancata comunicazione allo stesso, quale unico organo legittimato a farlo valere nell’interesse della massa.
Nessuna intrinseca contraddittorietà può dunque vedersi nel percorso motivazionale, in particolare là dove (a pag. 9) si distingue tra rinuncia al credito da parte del curatore e mero disinteresse dello stesso (che legittima il fallito a gestire in sua vece il rapporto) essendo evidente dal contesto della motivazione che ciò che si vuol dire è che, in mancanza di alcuna informazione fornita al curatore, non è possibile interpretare l’inerzia del curatore come mero disinteresse ed è piuttosto la mancata comunicazione delle pretese creditorie da parte del socio o del procuratore della RAGIONE_SOCIALE fallita a doversi riguardare come indicativa della rinuncia da parte degli stessi a far valere il credito.
Diverso è il piano della sindacabilità della correttezza in iure di tale ragionamento,  tema  oggetto  del  secondo  motivo  e  che  certo  non interferisce su quello attinto dal motivo in esame ma anzi postula la piena comprensione della motivazione addotta.
4.2. La censura poi diviene inammissibile nella parte in cui pretende
di ricavare il dedotto vizio di motivazione mancante dal fatto che erano state prodotte in atti, oltre alle denunce penali contro NOME COGNOME, anche la denuncia penale sporta nei confronti del Curatore e un’istanza di  revoca  del  Curatore  per  inerzia  nell’avvio  dell’azione  giudiziaria contro gli odierni resistenti per medesimi fatti per i quali oggi è causa (v. ricorso, pagg. 19-21 e ivi note 15 e 16).
Va rammentato in proposito che, secondo costante insegnamento, è denunciabile in cassazione, quale error in procedendo per violazione del dovere di motivare i provvedimenti giurisdizionale ex art. 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ., solo « l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali » (Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 -8054).
4.3. Anche a voler intendere che, con tale riferimento, si intenda in realtà prospettare il diverso vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ .) ─ vizio in realtà non espressamente dedotto ─ se ne dovrebbe comunque rilevare l’inammissibilità per la preclusione che, rispetto a siffatta prospettazione censoria, deriva -ai sensi dell’art. 360, quarto comma, cod. proc. civ. , ripetitivo, peraltro, di quanto già previsto dall’art. 348 -ter , ultimo comma, cod. proc. civ. -dall’avere la Corte d’appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme) (v. Cass. 28/02/2023, n. 5947; 15/03/2022, n. 8320; 06/08/2019, n. 20994; n. 22/12/2016, n. 26774).
5. Il secondo motivo è infondato.
5.1.  La  tesi  censoria  è,  in  sostanza,  che la  Corte  d’appello  non avrebbe potuto trarre la conclusione della rinuncia dei crediti dall’inerzia del curatore, né dalla mera mancata informazione dei soci circa la loro esistenza.
Tanto si sostiene alla luce della più recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema degli effetti dell’estinzione della RAGIONE_SOCIALE conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese rispetto alle « mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi » non iscritti nel bilancio di liquidazione, evoluzione che ha sostanzialmente condotto a rimodulare il principio enunciato dalle Sezioni Unite nel 2013 (sentenza n. 6070 del 2013) secondo cui doveva presumersene la rinuncia, nel senso ora precisato dal nuovo intervento delle Sezioni Unite (sentenza 16/07/2025, n. 19750, evocata in memoria), secondo cui « la mancata iscrizione del credito nel bilancio di liquidazione non giustifica di per sé la presunzione dell’avvenuta rinunzia allo stesso, incombendo al debitore convenuto in giudizio dall’ex-socio, o nei confronti del quale quest’ultimo intenda proseguire un giudizio promosso dalla RAGIONE_SOCIALE, l’onere di allegare e provare la sussistenza dei presupposti necessari per l’estinzione del credito ».
5.2. Un tale argomento di critica è, però, da respingere proprio in ragione  del  fatto  che  qui  non  sono  in  gioco  il  comportamento  del curatore e il significato attribuibile alla sua inerzia, quanto piuttosto il comportamento dei soci che, in pendenza del fallimento, omettono di informare il curatore della pretesa creditoria.
Come  detto,  è  a  tale  comportamento  (non  a  quello  della  mera successiva inerzia del curatore, del tutto neutro proprio a causa della mancata conoscenza di quelle pretese) che la Corte d’appello, sulla scorta del citato arresto di Cass. n. 13921 del 2019, attribuisce il valore di  comportamento  idoneo  a  far  presumere  la  rinuncia  alla  pretesa
creditoria, ostativo alla predicabilità di un fenomeno successorio.
La giustificazione razionale di una siffatta regola di giudizio trova il suo implicito punto di partenza nell’effetto di spossessamento del fallito determinato dalla sentenza che dichiara il fallimento, la quale « priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento » (art. 42 l. fall.) determinando al contempo la perdita della capacità processuale del fallito (art. 43 l. fall.: « nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore »).
Dalla esegesi di tali norme la giurisprudenza di questa Corte ha tratto il principio, costantemente affermato, secondo cui « la perdita della capacità processuale del fallito, conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, salvo che la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto dedotto in lite, nel qual caso il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio » (v. ex multis , Cass. Sez. L n. 13991 del 06/06/2017; Sez. 5 n. 5571 del 09/03/2011); principio questo che si riflette nella speculare affermazione secondo cui « il fallito è privo della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, ad eccezione delle ipotesi in cui egli agisca per la tutela di diritti strettamente personali o l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte con riferimento ai suddetti rapporti patrimoniali, manifestando indifferenza nei confronti del processo » (Cass., Sez. 2, n. 31313 del 04/12/2018; v. anche Cass., Sez. 3, n. 32634 del 23/11/2023, secondo cui « nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito la legittimazione processuale spetta al curatore, competendo al fallito una legittimazione di tipo suppletivo
soltanto nel caso di totale disinteresse degli organi fallimentari, non anche quando detti organi si siano attivati o abbiano ritenuto non conveniente intraprendere o proseguire la controversia; pertanto, il fallito, ferma la possibilità di svolgere attività processuale nella forma dell’intervento ex art. 43, comma 2, l. fall. (circoscritto alle questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico e nei limiti dell’intervento adesivo dipendente), non ha diritto di impugnare la sentenza in maniera autonoma rispetto al curatore, non essendo in tal caso ravvisabile un disinteresse degli organi fallimentari, bensì una valutazione di opportunità circa la proposizione del gravame »).
Perché,  dunque,  sorga  la  legittimazione  processuale  del  fallito  è necessario poter presumere il disinteresse del curatore, ma questo a sua volta presuppone che egli abbia consapevolezza dell’esistenza della pretesa  creditoria;  in  mancanza  di  questa  non  è  predicabile  alcun disinteresse del curatore, né di conseguenza può riconoscersi al fallito la  capacità  processuale,  il  cui  difetto  anzi,  in  tal  caso,  è  assoluto  e rilevabile anche d’ufficio.
Nella specie non si pone però un problema di difetto di capacità processuale.
Questo, in base ai principi sopra esposti, avrebbe potuto riguardare l’azione proposta nel 2015 in quanto riferita ex latere actoris (anche) alla RAGIONE_SOCIALE che, però, è soggetto giuridico ormai estinto per effetto della cancellazione conseguente alla chiusura del fallimento per mancanza di attivo (art. 118, primo comma, n. 4, l. fall.) e non più presente nel giudizio odierno.
Si  pone piuttosto un problema di configurabilità di un fenomeno successorio, ex art. 249 5 cod. civ., a favore dell’ex socio unico della RAGIONE_SOCIALE  ormai  estinta,  con  riferimento  a  quel  credito  che,  proprio  in difetto del presupposto del disinteresse del curatore, la RAGIONE_SOCIALE aveva inammissibilmente inteso far valere in giudizio ex se , in difetto della
relativa legittimazione processuale.
Se si pone mente a tale dato di partenza, il principio affermato da Cass. n. 13921 del 2019, e di cui i giudici a quibus hanno fatto nella specie corretta applicazione, ne appare coerente sviluppo logico.
Se, infatti, pendente il fallimento, la pretesa creditoria della RAGIONE_SOCIALE fallita richiede per potere essere fatta valere in giudizio: a) che ne sia informato il curatore; b) la successiva determinazione di questo: b1) di farla egli stesso valere nell’inter esse della massa o, in alternativa, b2) di non farla valere, legittimando in tal modo l’iniziativa suppletiva del fallito; se, dicevamo, tutto ciò è vero, appare allora del tutto ragionevole attribuire alla mancata informazione del curatore dell’esistenza della pretesa creditoria il significato univoco di rinunciare a farla valere anche successivamente alla chiusura del fallimento per mancanza di attivo. Ad opinare diversamente si perverrebbe alla conseguenza, evidentemente contraria alla ratio che ispira l’intero sistema dell’esecuzione concorsuale , di incentivare condotte tese a nascondere pretese creditorie, anche dotate di apprezzabile valore di realizzo, per sottrarle alla massa dei creditori.
Si tratta dunque di ipotesi assai diversa e di un principio che non affonda le radici nella sentenza del 2013 e non ne costituisce affatto un corollario [come del resto è espressamente avvertito nella ordinanza del 2019: vdns. pagg. 7-8 e poi pag. 11, ove si sottolinea che « Invero, solo in tale ipotesi -quella cioè in cui l’esistenza di un credito o di una pretesa azionabile sia stata portata a conoscenza del curatore, n.d.r. si poteva legittimamente ritenere (richiamando i principi delle Sezioni Unite nel 2013) che il credito – incerto ed illiquido, comunque non incluso, com’è pacifico, dal curatore del fallimento nel progetto di ripartizione finale, chiusosi per insufficienza dell’attivo – fosse stato consapevolmente rinunciato dal curatore della RAGIONE_SOCIALE fallita, non avendo costui coltivato la res litigiosa , e, una volta cancellata la RAGIONE_SOCIALE, si fosse trasferito ai soci quali successori ex lege della
RAGIONE_SOCIALE »].
Ne deriva anche l’irrilevanza dei successivi sviluppi di quel principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2013 che hanno da ultimo portato, come detto, alla successiva rilettura dello stesso ora proposta da Cass. Sez. U. n. 19750 del 2025, la quale non a caso non fa affatto menzione del  caso  della  cancellazione  della  RAGIONE_SOCIALE ex art.  118,  n.  4,  l.  fall. susseguente alla chiusura del fallimento per mancanza di attivo.
Al contrario tali sviluppi ne risultano rispettati dal momento che, in virtù del ragionamento esposto, a ritenersi indicativo della rinuncia a far valere il credito non è un comportamento neutro o di mera inerzia, bensì piuttosto un comportamento omissivo (la mancata comunicazione al curatore della pretesa) nel descritto contesto plausibilmente interpretabile come volto a sottrarre la pretesa alla esecuzione concorsuale e, quindi, per coerenza di sistema, anche a rinunciare alla sua successiva soddisfazione a favore dello stesso fallito o del suo successore.
Il terzo motivo è inammissibile con riferimento a tutte le censure che al suo interno sono svolte.
6.1. La prima lo è perché si pretende, con essa, di dedurre un vizio di motivazione mancante facendo riferimento ad elementi esterni alla motivazione stessa.
È appena il caso di rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, « la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza
impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale  anomalia  si  esaurisce  nella  “mancanza  assoluta  di  motivi  sotto l’aspetto  materiale  e  grafico”,  nella  “motivazione  apparente”,  nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa  ed  obiettivamente  incomprensibile”,  esclusa  qualunque rilevanza  del  semplice  difetto  di  “sufficienza”  della  motivazione » (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830)
In ogni caso anche sul punto la motivazione c’è ed è perfettamente comprensibile.
Non è la Corte d’appello a non intendere correttamente il motivo d’appello ma sono piuttosto i ricorrenti a non cogliere la ratio decidendi sul punto spesa dalla Corte, la quale è espressa in termini pienamente conferenti con la critica che era stata mossa, di cui viene negata la fondatezza sul rilievo che « la tesi per la quale si sarebbe potuto evitare il fallimento in caso di erogazione tempestiva delle somme dovute a titolo di contributi vari, resta un mero assunto difensivo degli appellanti non suffragato da alcuna ulteriore prova. E ciò, senza tenere in debito conto dei possibili profili anche di natura penale che ne sarebbero potuti derivare dal pagamento di crediti peraltro chirografari a danno di altri creditori in violazione della par condicio creditorum».
6.2. La seconda e la terza censura sono parimenti inammissibili.
Entrambe le censure, anzitutto, risultano eccentriche rispetto alla ratio decidendi , che non risiede affatto nella negazione della sussistenza di prova circa la fondatezza del credito relativo ai contributi indicati, ma a monte (quale ragione più liquida) nell’escludere che il versamento di quei contributi avrebbe potuto evitare il fallimento.
L a violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è comunque dedotta al di fuori dei paradigmi al riguardo dettati dalla giurisprudenza di questa Corte [v. ex aliis , Cass. Sez. U. n. 20867 del 30/09/2020: « In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita
con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. »; « In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione »].
Agli argomenti esposti in memoria dal ricorrente COGNOME si è data risposta nello scrutinio dei motivi.
Per le considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido,  alla  rifusione  delle  spese,  liquidate  come  da  dispositivo,  in favore delle controricorrenti.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,  da  parte  dei  predetti  ricorrenti,  ai  sensi  dell’art.  13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La  Corte  rigetta  il  ricorso.  Condanna  i  ricorrenti,  in  solido,  alla rifusione,  in  favore  delle  controricorrenti,  delle  spese  del  giudizio  di legittimità, che liquida:
in favore della RAGIONE_SOCIALE, in euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge;
b) in favore della RAGIONE_SOCIALE, in euro 6.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a  quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1° ottobre 2025.
Il Presidente NOME COGNOME