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Contributo AGCM e fallimento: quando è dovuto?

Un ente di riscossione si è visto respingere la richiesta di ammissione al passivo fallimentare di una società per il mancato pagamento del contributo AGCM. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, ma non per le ragioni addotte dal tribunale di merito. Sebbene il ricorso sia stato respinto per un difetto di prova, la Suprema Corte ha colto l’occasione per enunciare un importante principio di diritto: l’obbligazione di versare il contributo AGCM ha natura tributaria e sorge nel momento in cui viene generato il fatturato che ne costituisce il presupposto, non quando l’attività d’impresa viene effettivamente svolta. Pertanto, se il fatturato è anteriore alla dichiarazione di fallimento, il credito è di natura concorsuale e va ammesso al passivo.

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Contributo AGCM e Fallimento: La Cassazione Fa Chiarezza sul Momento Impositivo

L’ordinanza in esame offre un’importante delucidazione sulla natura e l’esigibilità del contributo AGCM nel contesto di una procedura fallimentare. La Corte di Cassazione, pur respingendo il ricorso di un ente di riscossione per ragioni procedurali, ha enunciato un principio di diritto fondamentale per stabilire quando un’impresa fallita è tenuta a versare il contributo destinato al funzionamento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

I Fatti di Causa: La Richiesta di Pagamento e il Rifiuto del Tribunale

Un ente di riscossione aveva richiesto l’ammissione al passivo del fallimento di una grande società di servizi per un credito relativo al contributo AGCM per gli anni 2019 e 2020. La società era stata dichiarata fallita nel settembre 2018 e, successivamente, non era stato autorizzato l’esercizio provvisorio, ovvero la continuazione dell’attività d’impresa.

Il giudice delegato aveva inizialmente respinto la domanda. L’ente di riscossione aveva quindi proposto opposizione, ma il Tribunale di merito l’aveva rigettata, condannando l’ente anche per responsabilità aggravata (lite temeraria). Secondo il Tribunale, l’opposizione era infondata per due motivi principali:
1. Difetto di prova: l’ente non aveva prodotto i documenti necessari a dimostrare l’esistenza e l’ammontare del credito, come le delibere annuali dell’Autorità Antitrust e la prova del superamento della soglia di fatturato di cinquanta milioni di euro.
2. Insussistenza dell’obbligo: il fallimento non era tenuto al versamento, poiché il contributo è dovuto dalle “imprese”, e la procedura fallimentare, senza esercizio provvisorio, non svolgeva più attività d’impresa.

La Decisione della Corte di Cassazione: Una Pluralità di Ragioni

La Suprema Corte, investita del caso, ha analizzato i diversi motivi di ricorso presentati dall’ente, giungendo a una decisione complessa che distingue tra l’esito del caso specifico e l’enunciazione di un principio di diritto generale.

Il Difetto di Prova e l’Inammissibilità del Ricorso

Il primo motivo di ricorso, relativo alla presunta mancata contestazione delle prove da parte della curatela, è stato giudicato infondato. La Corte ha evidenziato come la decisione del Tribunale si basasse su una duplice ratio decidendi (motivazione). La prima, appunto, era il difetto di prova. Poiché questa motivazione era di per sé sufficiente a sostenere la decisione di rigetto e le censure dell’ente non erano riuscite a scalfirla, i motivi di ricorso contro la seconda motivazione (quella sull’insussistenza dell’obbligo) sono stati dichiarati inammissibili per carenza di interesse.

Principio di Diritto sul Contributo AGCM: Una Correzione Necessaria

Nonostante l’inammissibilità del secondo motivo, la Cassazione ha ritenuto necessario, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, correggere l’errata interpretazione giuridica del Tribunale di merito. La Corte ha chiarito che il contributo AGCM ha natura di prestazione tributaria. La sua nascita (il presupposto impositivo) non è legata all’esercizio effettivo dell’attività d’impresa in un dato anno, ma al raggiungimento di una determinata soglia di ricavi nell’anno di esercizio precedente.

L’obbligazione tributaria sorge quindi nel momento in cui l’impresa realizza il fatturato che supera la soglia di legge. L’esigibilità del credito, ovvero il momento in cui può essere richiesto il pagamento, è semplicemente differita all’approvazione del bilancio e alla successiva determinazione della misura da parte dell’Autorità. Di conseguenza, se il presupposto (il fatturato) si è verificato prima della dichiarazione di fallimento, il credito che ne deriva ha natura concorsuale e deve essere ammesso al passivo, anche se la società non ha continuato l’attività.

La Responsabilità Aggravata per Lite Temeraria

Anche il terzo motivo di ricorso, con cui l’ente contestava la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., è stato dichiarato inammissibile. La valutazione sulla sussistenza della colpa grave nell’agire in giudizio è un accertamento di fatto che spetta al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità se, come in questo caso, è adeguatamente motivato.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha fondato la sua decisione su una rigorosa distinzione tra aspetti procedurali e sostanziali. Dal punto di vista procedurale, la solidità della prima ratio decidendi del giudice di merito (la mancata prova del credito) ha reso irrilevante la discussione sulla seconda. Questo principio, noto come “assorbimento dei motivi”, impedisce alla Corte di pronunciarsi nel merito quando una delle motivazioni impugnate è già di per sé sufficiente a giustificare la decisione.

Dal punto di vista sostanziale, invece, la Corte ha voluto riaffermare la natura tributaria del contributo AGCM. Tale natura implica che l’obbligazione sorge al verificarsi del presupposto economico (il fatturato) e non dipende dalla continuazione dell’attività imprenditoriale. Il fallimento, quindi, non estingue l’obbligazione sorta in un momento precedente, ma la trasforma in un credito concorsuale da far valere secondo le norme specifiche della procedura fallimentare. Questa precisazione è cruciale per garantire la corretta applicazione della legge in futuro, evitando che le procedure concorsuali possano essere considerate una causa di estinzione di debiti di natura pubblicistica.

Le conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la decisione del Tribunale di non ammettere il credito al passivo fallimentare. Tuttavia, lo ha fatto per ragioni puramente procedurali legate alla carenza di prove. Al contempo, ha stabilito un principio di diritto di grande importanza: un’impresa dichiarata fallita è tenuta al versamento del contributo AGCM se il presupposto (il fatturato rilevante) si è verificato in un esercizio conclusosi prima della dichiarazione di fallimento. Il credito corrispondente ha natura concorsuale e può legittimamente essere insinuato al passivo, a condizione che il creditore fornisca la prova rigorosa della sua esistenza e del suo ammontare.

Una società fallita, che non prosegue l’attività, deve pagare il contributo all’Autorità Garante della Concorrenza?
Sì, se il presupposto per il contributo, ovvero il raggiungimento di una determinata soglia di fatturato, si è verificato in un esercizio precedente alla dichiarazione di fallimento. L’obbligo non dipende dalla continuazione dell’attività d’impresa, ma dal momento in cui è sorto il fatto generatore dell’obbligazione tributaria.

Quando nasce l’obbligazione di versare il contributo AGCM?
L’obbligazione legale tributaria nasce nel momento in cui l’esercizio dell’impresa genera il presupposto da cui essa dipende, cioè il raggiungimento di una specifica soglia di ricavi. L’esigibilità del pagamento è solo posticipata al momento dell’approvazione del bilancio e della determinazione della misura del contributo da parte dell’Autorità.

Cosa deve dimostrare un creditore per insinuare il credito per il contributo AGCM nel passivo fallimentare?
Il creditore deve fornire la prova completa dei presupposti di fatto del suo credito. Nel caso specifico, avrebbe dovuto produrre le delibere con cui l’Autorità determina annualmente la misura del contributo e dimostrare che la società fallita aveva superato la soglia di ricavi prevista dalla legge. La mancata produzione di tali prove rende la domanda infondata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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