Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24465 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 24465 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/09/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 28085/2020 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE difesa dagli avvocati COGNOME
-ricorrente-
contro
NOMECOGNOME difeso da ll’avvocato NOME
-controricorrente-
nonché
COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME, difesi dall’avvocato COGNOME
-controricorrenti-
nonché
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME difesa dall’avvocato COGNOME
nonché
RAGIONE_SOCIALE, COGNOME
-intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 1056/2020 depositata il 30/07/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udite le osservazioni della P.M., la Sostituta P.G. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del sesto e del settimo motivo, l’assorbimento dei restanti motivi.
Uditi gli avvocati NOME COGNOME per la ricorrente; NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per ciascuna delle parti controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
La vicenda sostanziale trae origine da un accordo del 9 settembre 2004 tra RAGIONE_SOCIALE e i fratelli COGNOME (NOME, NOME, NOME e NOME), comproprietari di un immobile a Pescara, già sede dell’Hotel Primo Vere. Con tale scrittura privata e i contestuali contratti preliminari di permuta, l’RAGIONE_SOCIALE si impegnava a demolire e ricostruire il fabbricato per realizzare un complesso residenziale, mentre i fratelli COGNOME s’impegnavano a permutare la loro proprietà con porzioni dell’immobile ricostruito. L’Immobiliare versava € 20.000 a titolo di opzione onerosa della durata di quattro mesi, prorogabile una volta, e s’impegnava ad ottenere le autorizzazioni edilizie entro il 9 maggio 2005, pena la risoluzione automatica del contratto. Inoltre, l’ Immobiliare RAGIONE_SOCIALE s’impegnava a intimare la disdetta del contratto di locazione in corso tra i COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE, stipulato il 30 giugno 2000 per l’installazione di una stazione radio base, con possibilità di disdetta dodici mesi prima della scadenza per evitare il rinnovo automatico per altri sei anni. Il permesso di costruire veniva rilasciato solo il 18 maggio
2005, oltre il termine pattuito del 9 maggio 2005. Il 12 luglio 2005 le parti stipulavano l’atto pubblico di permuta, con il quale i COGNOME trasferivano la proprietà dell’immobile all’Immobiliare Sirena, che a sua volta si impegnava a trasferire entro 30 mesi a ciascuno dei Ricci porzioni del fabbricato ricostruito, con penale di € 2.000 mensili per ogni ritardo e garanzie fideiussorie bancarie presso Bancapulia s.p.a. per un totale di € 1.574.000. Nell’atto le parti dichiaravano che erano state ritualmente inviate le disdette del contratto di locazione alla RAGIONE_SOCIALE. Tuttavia, esse, inviate dai Ricci il 28 giugno 2005 e dall’Immobiliare il 25 giugno 2005, venivano contestate dalla Omnitel come prive di motivazione secondo l’art. 29 della l. 392/1978, determinandosi così il rinnovo automatico del contratto per altri sei anni e l’impossibilità di demolire l’immobile.
L’RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio i fratelli COGNOME e Bancapulia s.p.aRAGIONE_SOCIALE (procedimento n. 1424/2007), chiedendo la sospensione ex art. 1256 co. 2 c.c. dell’obbligazione a suo carico per impossibilità sopravvenuta di eseguire la prestazione e l’accertamento che, non essendo inadempiente, i fratelli COGNOME non potevano escutere la fideiussione bancaria. I fratelli COGNOME chiedevano il rigetto della domanda, la chiamata in causa di NOME e NOME COGNOME che avevano garantito personalmente gli adempimenti, domandavano in riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento danni per inadempimento e al pagamento della penale di euro 2.000 mensili, o in subordine la dichiarazione di risoluzione del contratto con autorizzazione ad escutere le fideiussioni. Bancapulia s.p.a. si costituiva chiedendo la propria estromissione per carenza di legittimazione passiva. I terzi chiamati chiedevano il rigetto delle domande, sostenendo di non aver assunto obbligazioni in proprio e che il contratto preliminare del 9 settembre 2004 era caducato. Nel procedimento n. 3876/2012, poi riunito al primo processo, l’RAGIONE_SOCIALE chiedeva il risarcimento di tutti i danni derivanti dal protrarsi
dell’inadempimento dei convenuti, che il 30 novembre 2011 avevano escusso e incassato le fideiussioni.
Il Tribunale di Pescara con sentenza n. 1932/2015 rigettava tutte le domande proposte dall’RAGIONE_SOCIALE e tutte le domande riconvenzionali. Il primo giudice riteneva che il contratto di locazione tra i COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE doveva ritenersi soggetto alla normativa di cui all’art. 27 l. 392/1978 e che la disdetta doveva essere motivata secondo i casi tassativi dell’art. 29 della medesima legge. Osservava che l’obbligo di intimare la disdetta era stato previsto in capo alla RAGIONE_SOCIALE unica che poteva conseguire il permesso a costruire e addurre un valido motivo di disdetta. La disdetta inviata dai fratelli COGNOME senza motivazione era priva di effetto, e l’impossibilità di ottenere il rilascio dell’immobile derivava dall’inadempimento della Immobiliare Sirena, che non aveva ottenuto il permesso di costruire entro il termine del 9 maggio 2005. previsto nella scrittura del 9 settembre 2004. Il Tribunale riteneva che la mancata stipula dell’atto di permuta entro il 30 giugno 2005, data ultima utile per l’invio di valida disdetta, doveva imputarsi alla RAGIONE_SOCIALE per inadempimento del contratto preliminare. Quanto al rapporto tra garanzia e penale, riteneva che la fideiussione bancaria doveva considerarsi contratto autonomo di garanzia che copriva tutte le obbligazioni assunte con il contratto di permuta, compreso il pagamento della penale, in assenza di un contrario patto espresso; pertanto, avvenuta l’escussione, non poteva essere richiesto anche il pagamento della penale.
La Corte d’Appello di L’Aquila ha confermato la sentenza di primo grado con sentenza n. 1056/2020, qui impugnata. L’Immobiliare COGNOME e NOME COGNOME avevano proposto appello sostenendo la nullità della sentenza per omessa trascrizione delle conclusioni, la violazione del diritto di difesa per mancata pronuncia su domande riconvenzionali, l’erroneità della decisione nella parte in cui riteneva che l’obbligo di disdetta gravasse sulla Immobiliare anziché sui Ricci
proprietari dell’immobile e l’illegittimità dell’escussione delle fideiussioni. La Corte di appello ha rigettato il gravame ritenendo che dall’esame della documentazione appariva evidente come il rinnovo tacito del contratto di locazione doveva ritenersi attribuibile a responsabilità dell’appellante, tenuta contrattualmente ad occuparsi dell’invio di disdetta in base all’accordo del 9 settembre 2004. La Corte ha osservato che per una disdetta valida era necessario che fosse motivata sulla base della necessità di demolizione e ricostruzione; quindi, sulla base di un permesso di costruire che doveva intervenire entro il 9 maggio 2005, mentre era intervenuto solo il 18 maggio 2005. Con riferimento ad un distinto problema di abusività di elementi dell’immobile, h a applicato il principio di secondo cui la nullità prevista dall’art. 46 d.p.r. 380/2001 colpisce solo gli atti privi di dichiarazione degli estremi del titolo abilitativo, mentre in presenza di dichiarazione di titolo reale il contratto è valido a prescindere dalla conformità della costruzione.
Per completare il quadro, è da menzionare, così come hanno ricordato le parti nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza, che esse hanno dibattuto sulle conseguenze giuridiche dell’avvenuta escussione, da parte dei fratelli COGNOME, delle fideiussioni prestate a garanzia degli obblighi assunti dalla società RAGIONE_SOCIALE in un processo distinto, definito con Cass. n. 29281/2024. In quel giudizio, originato da una domanda del 2012 della RAGIONE_SOCIALE, essa chiedeva di accertare che, avendo i COGNOME incassato nel 2011 le somme garantite dalle polizze fideiussorie (per un totale, come già ricordato, di € 1.5 74.000), il loro diritto a ottenere il trasferimento degli immobili promessi in permuta si fosse estinto. Sosteneva la società costruttrice che l’escussione della garanzia avesse una funzione satisfattiva, alternativa all’adempimento, e che una diversa soluzione avrebbe comportato un ingiustificato arricchimento per i permutanti. Il Tribunale di Pescara e la Corte di appello di L’Aquila hanno rigettato la domanda. Entrambi i giudici di merito hanno qualificato
le fideiussioni non come adempimento alternativo, ma come una garanzia generica per qualsiasi ragione di credito, inclusa quella risarcitoria, derivante dall’inadempimento della società costruttrice. Di conseguenza, l’avvenuta riscossione non precludeva ai fratelli COGNOME la facoltà di agire per l’adempimento del contratto di permuta o per la sua risoluzione, fermo restando che le somme incassate avrebbero dovuto essere computate nella determinazione dell’eventuale danno risarcibile. Questa Corte ha rigettato integralmente il ricorso con la pronuncia menzionata n. 29281/2024. La Corte ha in primo luogo disatteso i motivi processuali relativi alla costituzione del giudice d’appello e alla nullità del contratto per vizi urbanistici o per impossibilità dell’oggetto, ritenendoli infondati o inammissibili e confermando sul punto la correttezza della decisione impugnata. Nel merito della questione centrale, la Corte ha statuito che la garanzia prestata, qualificabile come contratto autonomo di garanzia, ha una funzione indennitaria e non satisfattiva. Il suo scopo è trasferire al garante il rischio economico connesso all’inadempimento della prestazione contrattuale, ma non sostituisce la prestazione stessa. Pertanto, l’escussione della garanzia non estingue l’obbligazione principale. Al creditore beneficiario non è precluso, dopo aver incassato l’indennizzo, di agire per l’adempimento del contratto o per la sua risoluzione, oltre che per il risarcimento dell’eventuale danno ulteriore. Le somme ottenute tramite la garanzia dovranno essere considerate nella liquidazione del danno complessivo, al fine di evitare che il creditore ottenga un arricchimento ingiustificato. La Corte ha così confermato che i fratelli COGNOME, pur avendo escusso le fideiussioni, conservavano il diritto di chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto di permuta.
Ricorre l’Immobiliare Sirena con undici motivi, illustrati da memoria. Resiste NOME COGNOME con controricorso e memoria. Resistono NOME e NOME COGNOME con controricorso e memoria. Resiste NOME COGNOME con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Sono da trattare congiuntamente i primi due motivi di ricorso.
Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. per omessa pronuncia. Il secondo motivo denuncia, sotto un primo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1325, 1418, 1421, 1346 c.c., sotto un secondo profilo, denuncia di nuovo la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto un terzo profilo, denuncia la violazione degli artt. 1362, 1363, 1325, 1419, 1421, 1431, 1346 c.c.
In primo luogo, si contesta alla Corte di appello di avere omesso di pronunciarsi sulla domanda di nullità del contratto di permuta, qualificandola erroneamente come una domanda di annullamento per vizio del consenso (derivante da un errore di diritto comune ad entrambe le parti, consistente nell’aver ritenuto valide le disdette). In tal modo, la Corte avrebbe deciso su una domanda diversa da quella proposta, incorrendo nel vizio di ultrapetizione e violando il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. In secondo luogo, si deduce che, al momento della stipula dell’atto di permuta del 12 luglio 2005, il contratto di locazione con la società RAGIONE_SOCIALE si era già tacitamente rinnovato per altri sei anni, essendo spirato il termine ultimo del 30 giugno 2005 per una disdetta efficace. Ciò determinava un’impossibilità giuridica originaria, oggettiva e assoluta della prestazione principale a carico della società costruttrice -ossia la demolizione del fabbricato e la sua ricostruzione entro trenta mesi -che doveva condurre a una declaratoria di nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., e non di semplice annullabilità. Tale nullità per difetto genetico della causa concreta, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe dovuta estendere per nullità derivata anche alle garanzie fideiussorie accessorie, rimaste prive della loro funzione causale. In terzo luogo, si lamenta che la Corte di appello abbia omesso di
pronunciarsi anche sulla domanda subordinata di nullità parziale del contratto, ai sensi dell’art. 1419 c.c. In via gradata, si sostiene che, qualora non si ritenesse la nullità dell’intero contratto, si sarebbe dovuta dichiarare la nullità delle singole clausole divenute ab origine impossibili, quali quelle relative al termine di consegna, alla penale per il ritardo e alla stessa efficacia delle garanzie fideiussorie con le scadenze pattuite.
Nella parte censurata dal motivo, la Corte di appello ha argomentato: «deve ritenersi inammissibile in quanto nuova e quindi tardiva la domanda di nullità dell’atto di permuta articolata dall’appellante RAGIONE_SOCIALE in sede di comparsa conclusionale, laddove si rileva che l’atto del 12 luglio 2005 dovrebbe ritenersi nullo in quanto contenente una dichiarazione di valida disdetta invece nulla, quindi una impossibilità ab origine dell’adempimento delle obbligazioni ivi previste. Al riguardo deve osservarsi come non si ravvisi nel caso di specie alcuna ipotesi di nullità bensì di eventuale impossibilità ad adempiere rilevabile come vizio del consenso, quindi come causa di annullabilità sotto diverso profilo, quindi rilevabile come domanda nuova ed inammissibile in questa sede».
1.2. – I primi due motivi sono rigettati.
L’asse centrale intorno al quale ruota ogni profilo di censura di ciascuno dei due motivi è la pretesa che del contratto di permuta del 12 luglio 2005 sia dichiarata la nullità, assumendo che la già avvenuta rinnovazione del contratto di locazione con la società RAGIONE_SOCIALE al momento della stipula rendesse la prestazione della società costruttrice -la consegna delle nuove unità immobiliari entro il termine pattuito -originariamente impossibile. Tale prospettazione non può essere condivisa. La Corte di appello ha correttamente escluso la sussistenza di un vizio genetico del contratto, rilevando, con una statuizione che resiste alle critiche, non solo che la domanda di nullità fosse stata formulata in modo irrituale e tardivo, ma che, in ogni
caso, la vicenda dedotta non integrasse un’ipotesi di nullità, ma attenesse a profili diversi, quali l’errore o l’inadempimento.
Nel merito della questione, è dirimente osservare che non si versa in ipotesi di impossibilità dell’oggetto ai sensi dell’art. 1346 c.c., che ricorre quando la prestazione dedotta nel contratto è originariamente irrealizzabile, sia dal punto di vista materiale che giuridico, e tale irrealizzabilità è assoluta e oggettiva, ovvero insormontabile. Il caso di specie è diverso e, come correttamente rilevato anche dalla P.M., attiene non alla validità strutturale del sinallagma, ma a una difficoltà sopravvenuta nella fase esecutiva del rapporto, legata al rispetto di una specifica tempistica. La costruzione e la consegna degli immobili permutati non costituivano una prestazione in sé impossibile, ma una prestazione divenuta più onerosa e di difficile esecuzione nei tempi concordati a causa della permanenza del conduttore sull’area. Tale circostanza non incide sulla validità del contratto, ma si colloca sul piano dell’adempimento e della relativa responsabilità.
Del resto, la questione relativa alla pretesa nullità del contratto di permuta per impossibilità dell’oggetto o difetto di causa è stata già scrutinata e rigettata da questa stessa Corte, con la pronuncia n. 29281 del 2024, resa tra le medesime parti nella controversia connessa. In quella sede, si è chiarito che la rinnovazione del contratto di locazione non integrava un’ipotesi di nullità del contratto per anomalia strutturale, ma atteneva alla fase dinamica del rapporto e a una potenziale difficoltà di adempimento. La valutazione compiuta in quel giudizio, pur se relativa a una diversa domanda, si fonda su un presupposto logico-giuridico -la validità del contratto di permuta -che non vi è ragione di disattendere nel presente procedimento.
2.1. -Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 40 l. n. 47 del 1985, dell’art. 46 d.p.r. n. 380 del 2001, della l. n. 662 del 1996, nonché degli artt. 1346, 1418 e 2697 c.c. Si censura la decisione della Corte di appello per aver escluso la nullità del contratto di permuta nonostante le dichiarazioni false rese in atto dai venditori circa
la conformità urbanistica dell’immobile. In particolare, si evidenzia che i venditori avevano taciuto l’esistenza di due domande di condono edilizio, presentate nel 1986 e nel 1995, mai definite, relative ad abusi edilizi presenti sull’immobile. Si sostiene che, ai sensi della normativa richiamata e in particolare della l. n. 662 del 1996, la mancata menzione nell’atto notarile degli estremi di una domanda di condono pendente e del relativo versamento dell’oblazione determina la nullità dell’atto stesso. Inoltre, si contesta la veridicità della dichiarazione di costruzione «ante 1967», sostenendo che una dichiarazione mendace su tale punto equivale alla sua omissione e comporta la nullità del contratto. La Corte territoriale ha quindi errato nel ritenere inammissibile il giuramento decisorio deferito su tali circostanze e nel qualificare la fattispecie come vizio del consenso anziché come nullità per violazione di norme imperative.
Nella parte censurata dal motivo, la Corte di appello ha invece ritenuto che la nullità ex art. 46 d.p.r. 380/2001 opera solo quando manchi la dichiarazione degli estremi del titolo edilizio, non quando essa sia eventualmente non veritiera, e ha escluso che ricorressero i presupposti per u na nullità rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 c.c. Ha ritenuto che la dichiarazione contenuta nell’atto fosse comunque presente e riferibile all’immobile, con indicazione della costruzione ante 1 settembre 1967 e del permesso n. 087/87 del 28 febbraio 1987. Anche ipotizzando la non veridicità delle dichiarazioni, la Corte ha escluso che ciò comportasse la nullità dell’atto. In ogni caso, ha affermato che la domanda di nullità, formulata solo in sede di comparsa conclusionale, doveva considerarsi nuova e inammissibile. In via logicamente necessitata, la Corte ha infine ritenuto che l’esistenza di due istanze di condono pendenti non incidesse sulla validità dell’atto, in assenza di norme che impongano la loro menzione, e che la dichiarazione mendace non equivalga alla totale omissione, se sono comunque presenti dati riferibili a un titolo abilitativo edilizio.
2.2. – Il terzo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Il motivo è inammissibile nella parte in cui censura il mancato accoglimento dell’istanza di giuramento decisorio. Come correttamente rilevato dalla P.M., la Corte di appello ha rigettato tale istanza sulla base di una duplice e autonoma ratio decidendi: da un lato, l’irrilevanza delle circostanze capitolate ai fini del decidere, non essendo idonee a integrare una causa di nullità del contratto; dall’altro, la natura documentale di tali circostanze. La società ricorrente ha mosso critiche soltanto alla prima ratio, omettendo di censurare la seconda. L’omessa impugnazione di una delle ragioni giustificatrici della decisione rende inammissibile la censura relativa all’altra, in quanto quest’ultima, rimasta incontestata, è di per sé sufficiente a sorreggere la statuizione impugnata.
Nel merito, il motivo è comunque infondato. La censura relativa alla nullità del contratto per le asserite false dichiarazioni dei venditori in ordine alla conformità urbanistica dell’immobile si scontra con i principi consolidati espressi da questa Corte. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8230/2019, hanno chiarito che la nullità comminata dall’art. 46 del d.p.r. n. 380/2001 (e dalle norme previgenti) è una nullità testuale e sanziona unicamente la mancata inclusione nell’atto degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile. Di conseguenza, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha correttamente applicato tale principio, rilevando che l’atto di permuta conteneva sia la dichiarazione di costruzione ante 1967, sia gli estremi di un permesso di costruire. Tali menzioni rendono l’atto formalmente valido, relegando la questione della non conformità sostanziale del bene, inclusa l’esistenza di abusi non dichiarati o di domande di condono pendenti, a un piano diverso da quello della validità del negozio. Del resto, Cass. n. 29281/2024, ha già rigettato le censure di nullità mosse
dalla medesima società ricorrente, confermando l’applicazione del principio della nullità testuale alla fattispecie.
Infine, anche la censura relativa al giuramento si rivela infondata nel merito. Come osservato dalla P.M., il mezzo istruttorio non avrebbe avuto carattere propriamente decisorio, poiché, anche in caso di esito favorevole alla ricorrente, l’ammissione dei fatti capitolati non avrebbe determinato l’automatico accoglimento della domanda, ma avrebbe comunque richiesto una successiva e complessa valutazione giuridica da parte del giudice circa le conseguenze di tali fatti sulla validità del contratto, valutazione che, per le ragioni esposte, avrebbe comunque condotto a escludere la nullità del negozio.
3.1. – Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 2697 e 1467 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti e motivazione apparente. Si censura la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda di sospensione delle obbligazioni contrattuali dell’RAGIONE_SOCIALE per sopravvenuta impossibilità, senza esaminare adeguatamente gli elementi istruttori prodotti a sostegno. In particolare, si lamenta che la Corte abbia trascurato le risultanze documentali e testimoniali relative all’impossibilità per l’attrice di adempiere alla prestazione principale (demolizione e ricostruzione del fabbricato) a causa del rinnovo del contratto di locazione con Omnitel e del rifiuto di Vodafone di liberare l’immobile. Si sostiene che la Corte abbia erroneamente attribuito la responsabilità dell’inadempimento all’attrice, omettendo di valutare la condotta dei fratelli COGNOME che avrebbero tardivamente comunicato la disdetta e omesso di collaborare alla liberazione dell’immobile. Ci si duole, inoltre, del fatto che la Corte ha ritenuto sufficiente la generica previsione contrattuale dell’obbligo di disdetta in capo alla società, senza considerare che l’esecuzione del contratto richiedeva anche la cooperazione dei comproprietari, e ch e la mancata disponibilità dell’immobile costituiva evento sopravvenuto e imprevedibile, non imputabile alla società.
Infine, lamentano che la motivazione della sentenza sul punto si limiti ad affermare l’imputabilità soggettiva della mancata disdetta all’attrice, senza valutare le prove offerte e senza un reale confronto con le argomentazioni delle parti, risultando pertanto apparente.
Nella parte censurata dal motivo, la Corte di appello (una volta escluso esplicitamente che vi fosse una sopravvenuta impossibilità oggettiva ad adempiere) ha accertato che l’RAGIONE_SOCIALE era contrattualmente obbligata a ottenere entro il 9 maggio 2005 il permesso di costruire e a inviare una disdetta motivata alla RAGIONE_SOCIALE entro il 30 giugno 2005 ed ha constatato che entrambe queste attività non erano state svolte tempestivamente. Ha rilevato che la disdetta era priva della motivazione imposta dalla l. 392/1978 e che il permesso di costruire fu ottenuto solo il 18 maggio 2005. Di conseguenza, ha ritenuto che il rinnovo della locazione e la conseguente indisponibilità dell’immobile derivassero da un inadempimento riconducibile all’attrice, e non da caus a sopravvenuta estranea alla sua volontà. Anche implicitamente ma in modo logicamente necessitato, la Corte ha dunque escluso l’applicabilità dell’art. 1467 c.c., poiché l’evento impeditivo non era né oggettivamente imprevedibile né indipendente dal comportamento della società.
3.2. – Il quarto motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
La censura di omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., è inammissibile in applicazione dell’art. 348-ter co. 5 c.p.c. La sentenza di primo grado e quella di appello sono giunte alla medesima conclusione, rigettando la domanda della società RAGIONE_SOCIALE sulla base di una identica ricostruzione della situazione di fatto rilevante. Entrambi i giudici di merito hanno infatti individuato la causa del rinnovo della locazione e della conseguente indisponibilità dell’immobile nell’inadempimento della stessa società costruttrice agli obblighi assunti con il contratto preliminare, in particolare quello di ottenere tempestivamente il permesso di
costruire e di inviare una disdetta motivata. In presenza di una cosiddetta doppia conforme sull’accertamento fattuale, la legge preclude la possibilità di denunciare in sede di legittimità un vizio di motivazione per omesso esame.
Anche le censure relative alla violazione di norme di diritto sono da disattendere. Dietro la veste formale della denuncia di violazione degli artt. 2697 e 1467 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., la società ricorrente non prospetta in realtà un errore nell’interpretazione o nell’applicazione delle norme, ma critica direttamente l’apprezzamento delle prove e la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito. La ricorrente, in sostanza, aspira a una rivalutazione della vicenda, proponendo una diversa lettura delle risultanze istruttorie, volta a scaricare sui fratelli COGNOME la responsabilità del mancato rilascio dell’immobile. Questo tipo di operazione è precluso in sede di legittimità. La Corte di appello, con una motivazione logica e coerente, ha esaminato gli obblighi contrattuali delle parti e ha concluso che l’impossibilità di procedere alla demolizione non derivava da un evento sopravvenuto, imprevedibile e non imputabile, come richiesto dall’art. 1467 c.c., ma era la conseguenza diretta e prevedibile della condotta della stessa Immobiliare Sirena. Il motivo è quindi animato dall’intenzione di sovrapporre il proprio apprezzamento ricostruttivo della situazione di fatto rilevante in causa all’accertamento che il giudice di merito ha espresso in una motivazione effettiva, risoluta e coerente, la quale quindi non si espone a censure in sede di giudizio di legittimità.
4.1. Il quinto motivo denuncia violazione degli artt. 112 e 2697 c.p.c. e dell’art. 1362 c.c., anche per erronea qualificazione e interpretazione della domanda. Si censura la sentenza impugnata per aver omesso di pronunciarsi sulle domande, proposte sia dalla società RAGIONE_SOCIALE in via di reconventio reconventionis sia dai terzi chiamati in causa (i signori COGNOME), volte a far accertare il comportamento fraudolento e abusivo dei COGNOME e a far dichiarare
l’annullamento o la nullità delle fideiussioni per vizio del consenso. Si contesta la statuizione della Corte di appello secondo cui il giudice di primo grado avrebbe comunque esaminato tutte le posizioni delle parti, affermando che si tratta di una motivazione apparente, smentita dal fatto che il Tribunale aveva omesso di riportare le conclusioni e aveva espressamente dichiarato inammissibili tali istanze. Si deduce, inoltre, l’erroneità della qualificazione giuridica operata dalla Corte territoriale, la quale ha ritenuto che tali domande non fossero una rituale conseguenza delle domande riconvenzionali dei COGNOME. Al contrario, a fronte della domanda dei COGNOME di accertamento dell’inadempimento della società costruttrice e di pagamento della penale, le domande volte a far valere l’inadempimento degli stessi COGNOME e il loro comportamento abusivo nell’escutere la garanzia costituivano una difesa diretta e pienamente ammissibile.
Nella parte censurata dal motivo, in primo luogo, in relazione alla doglianza sulla mancata trascrizione delle conclusioni e alla conseguente censura di omessa pronuncia, la Corte ha affermato che la mera omissione della trascrizione non è di per sé causa di nullità della sentenza. Ha poi aggiunto che, nel caso di specie, il giudice di primo grado, pur senza trascrivere pedissequamente le conclusioni, risulta aver esaminato tutte le posizioni delle stesse e tutte le richieste avanzate. In secondo luogo, riguardo alla qualificazione delle domande proposte dalla società RAGIONE_SOCIALE e dai signori COGNOME in risposta alle riconvenzionali dei COGNOME, la Corte ha esplicitamente escluso che potessero considerarsi come domande riconvenzionali ammissibili. Ha motivato tale esclusione ritenendo che l’accertamento dell’abusiva escussione della garanzia o l’annullamento della fideiussione per vizio del consenso non fossero una diretta conseguenza delle prospettazioni e richieste di parte convenuta, ma costituissero domande nuove non derivanti dalle difese degli appellati. In terzo luogo, passando al merito di tali domande (così come riproposte dai terzi chiamati), la Corte le ha giudicate «del tutto prive di
fondamento». La ragione di tale infondatezza, secondo la sentenza, risiede nel fatto che esse si basavano sul presupposto di un inadempimento dei fratelli COGNOME in ordine alla mancata valida disdetta. La Corte ha statuito esplicitamente che tale responsabilità non era attribuibile ai COGNOME, ma, in mancanza di prova contraria, solo all’appellante. Infine, la Corte ha esplicitamente affrontato la questione del vizio del consenso, affermando che l’errore sulla validità della disdetta avrebbe potuto, al più, viziare il consenso relativo all’atto di permuta, per il quale non era stata chiesta l’annullabilità. Ha distinto nettamente tale ipotesi da quella relativa alla fideiussione, qualificata come contratto autonomo di garanzia, la cui validità non sarebbe stata inficiata da tale errore.
4.2. – Il quinto motivo è rigettato.
Non sussiste la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché la Corte di appello non ha omesso di pronunciarsi sulle domande e sulle censure dell’odierna ricorrente, ma le ha considerate e disattese con una motivazione articolata su più profili e priva di vizi logici.
La Corte territoriale ha correttamente qualificato come inammissibili le domande proposte dalla società RAGIONE_SOCIALE e dai garanti COGNOME in risposta alle riconvenzionali dei COGNOME. La reconventio reconventionis è ammissibile solo quando la domanda nuova dell’attore sia una conseguenza diretta dell’atteggiamento difensivo del convenuto. Nel caso di specie, la domanda riconvenzionale dei COGNOME aveva ad oggetto l’accertamento dell’inadempimento della società costruttrice al contratto di permuta e la conseguente condanna al pagamento della penale ivi prevista. Le domande proposte dalla società ricorrente, invece, miravano a far dichiarare l’annullamento o la nullità dei contratti di fideiussione per vizio del consenso e l’abusività del comportamento dei COGNOME nell’escutere tali garanzie.
Come correttamente ritenuto dalla Corte di appello e argomentato anche dalla P.M., si tratta di domande nuove, fondate su un titolo giuridico diverso (i contratti di fideiussione) rispetto a quello posto a
fondamento della domanda riconvenzionale avversaria (il contratto di permuta). Le istanze della società ricorrente non costituivano una difesa necessaria rispetto alla pretesa dei COGNOME, ma introducevano un tema di indagine nuovo e autonomo. Pertanto, la loro qualificazione come domande nuove e la conseguente declaratoria di inammissibilità sono immuni da censure.
5. – Il sesto motivo denuncia violazione degli artt. 132 e 112 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1362, 1363, 1366, 1420, 1446 e 2697 c.c., e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Si censura la sentenza impugnata, in primo luogo, per aver violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fondando la propria decisione sull’inadempimento del contratto preliminare del 9 settembre 2004, mentre le domande riconvenzionali dei convenuti COGNOME si basavano unicamente sul contratto definitivo di permuta del 12 luglio 2005. Nel merito, si contesta l ‘ erroneità della decisione della Corte di appello nel ritenere ancora efficace il contratto preliminare del 2004. Si deduce che tale accordo si era automaticamente risolto, secondo una sua stessa clausola, per il mancato ottenimento del permesso di costruire entro il termine di validità massimo del 9 maggio 2005, essendo il titolo stato rilasciato solo in data 18 maggio 2005. A ciò si aggiunge la volontà risolutoria formalmente comunicata da uno dei comproprietari, NOME COGNOME che, trattandosi di parte contrattuale complessa, sarebbe stata di per sé sufficiente a determinare la caducazione dell’intero patto. Si denuncia, inoltre, l’omesso esame di un fatto storico decisivo, risultante dai documenti di causa: il permesso a costruire del 18 maggio 2005 era stato rilasciato nominativamente ai fratelli COGNOME e non alla società RAGIONE_SOCIALE. Tale circostanza, ignorata dalla Corte territoriale, è ritenuta dirimente poiché dimostra che, nel periodo utile per l’invio della disdetta motivata (tra il 18 maggio e il 30 giugno 2005), gli unici soggetti legittimati a far valere il motivo della demolizione erano i COGNOME stessi, in quanto
proprietari e titolari del permesso. Diventa pertanto illogica e incomprensibile, secondo il motivo, l’attribuzione di un inadempimento alla società costruttrice, che non aveva alcun titolo per agire. Infine, si sostiene che, in ogni caso, il contratto definitivo di permuta del 12 luglio 2005 costituisce l’unica fonte di diritti e obblighi tra le parti, superando e sostituendo ogni pattuizione precedente. In tale atto, peraltro, non vi è alcun richiamo al preliminare e, anzi, i Ricci dichiarano esplicitamente di aver provveduto essi stessi all’invio della disdetta, assumendosene la responsabilità e manifestando una volontà negoziale nuova e autonoma rispetto a quella del 2004. La motivazione della Corte di appello, che ignora tali elementi, viene definita «perplessa», illogica e contraddittoria, tale da integrare un vizio di motivazione apparente.
Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1351, 1362, 1363, 2372 e 2697 c.c., nonché violazione dell’art. 112 c.p.c. Si deduce che la Corte di appello ha commesso un errore di diritto nel non applicare il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo cui il contratto definitivo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni tra le parti, assorbendo e superando il contratto preliminare, a meno che non risulti da un accordo scritto e contestuale la volontà dei contraenti di mantenere in vita specifiche obbligazioni del preliminare. Si afferma che, nel silenzio del contratto definitivo, opera una presunzione di conformità del nuovo accordo alla reale e definitiva volontà delle parti.
In relazione al caso di specie, si osserva che non solo l’atto di permuta del 12 luglio 2005 non contiene alcun richiamo alla precedente scrittura del 2004, ma disciplina in modo nuovo e diverso la questione della disdetta. In particolare, all’art. 10 dell’atto pubblico, sono gli stessi fratelli COGNOME a dichiarare di aver provveduto in prima persona all’invio della disdetta e a consegnare contestualmente alla società acquirente le copie delle raccomandate e gli originali degli avvisi di ricevimento. Tale pattuizione e il comportamento tenuto
dalle parti in sede di rogito dimostrerebbero in modo inequivocabile che l’obbligazione di dare la disdetta era stata definitivamente assunta dai venditori, manifestandosi così una volontà nuova che ha superato e sostituito qualsiasi accordo precedente. Di conseguenza, la Corte territoriale avrebbe errato nel fondare la propria decisione sugli obblighi di un contratto preliminare ormai giuridicamente superato, dovendo invece fare esclusivo riferimento alla volontà espressa dalle parti nell’atto pubblico definitivo
Nella parte censurata dai due motivi dal sesto e dal settimo motivo, la Corte territoriale afferma che l’atto di permuta del 12 luglio 2005 deve essere letto in stretta connessione con la precedente scrittura privata del 9 settembre 2004, definita antecedente logico e giuridico del negozio definitivo. Questa premessa è il perno su cui ruota l’intera decisione. La sentenza statuisce esplicitamente che, in base alle clausole della scrittura del 2004, l’obbligo di ottenere il permesso di costruire e, conseguentemente, di provvedere alla disdetta del contratto di locazione con la RAGIONE_SOCIALE gravava sulla società RAGIONE_SOCIALE. La Corte respinge la tesi secondo cui il contratto preliminare si fosse risolto. Adduce due ragioni principali: la dichiarazione di volersi avvalere della risoluzione, provenendo dal solo NOME COGNOME era inefficace, in quanto i comproprietari promittenti venditori costituivano una parte unitaria. Soprattutto, il comportamento successivo di tutte le parti appare alla Corte improntato alla volontà di dare esecuzione spontanea al suddetto accordo del settembre 2004. A riprova di ciò, la Corte territoriale elenca il telegramma della stessa RAGIONE_SOCIALE che richiamava gli obblighi del 2004, l’invio della disdetta da parte dei COGNOME su sollecito della controparte e, infine, la stipula dell’atto definitivo secondo le condizioni già pattuite nel preliminare. Sulla base di tali premesse, la Corte conclude esplicitamente che il rinnovo del contratto di locazione e la conseguente impossibilità di demolire l’immobile sono attribuibili a
responsabilità del l’ Immobiliare, a causa del suo inadempimento agli obblighi assunti con il contratto del 2004.
5.1. – Il sesto e il settimo motivo, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
Entrambi, pur articolati sotto diversi profili, convergono nella critica fondamentale mossa alla sentenza impugnata: aver fondato la responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE su obbligazioni derivanti dal contratto preliminare del 9 settembre 2004, accordo che la ricorrente assume ormai giuridicamente superato dal contratto definitivo di permuta del 12 luglio 2005. Tale impostazione, pur condivisa dalla P.M., non può essere accolta.
È pur vero che, secondo un principio consolidato di questa Corte, « ove alla stipula di un contratto preliminare segua ad opera delle stesse parti la conclusione del contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina, con riguardo alle modalità e condizioni, anche se diversa da quella pattuita con il preliminare, configura un nuovo accordo intervenuto tra le parti e si presume sia l’unica regolamentazione del rapporto da esse voluta » (la citazione è tratta da Cass. n. 12090/2024, una delle meno remote sul punto; nello stesso senso v. Cass. n. 30735/2017, 9063/2012).
Tuttavia, se si rilegge il principio animati dall’inten to di applicarlo al caso di specie, esso indica una soluzione opposta a quella sostenuta dalla ricorrente. Infatti il contratto preliminare costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni con riferimento al particolare negozio voluto (così si spiega anche la necessità della prova scritta per superare tale presunzione, ove il contratto definitivo sia traslativo di beni immobili, come la permuta in questo caso), ma non già con riferimento alla previsione degli obblighi preliminari, funzionali al contratto definitivo, come è, in questo caso, l’obbligo di intimare
tempestivamente la disdetta del contratto di locazione avente ad oggetto una porzione dell’immobile oggetto di permuta.
La previsione di tale obbligo non era una pattuizione meramente accessoria, ma un atto strumentale e prodromico, la cui corretta e tempestiva esecuzione era condizione imprescindibile per la realizzabilità dell’intera operazione economica di permuta, che si fondava sulla demolizione e ricostruzione dell’immobile. L’aver posto tale obbligo in capo alla società costruttrice, soggetto professionalmente qualificato, significava allocare su di essa il rischio imprenditoriale connesso alla liberazione del bene.
In questa prospettiva, la stessa clausola contenuta nell’atto definitivo del 12 luglio 2005, in cui si dà atto che le disdette sono state ritualmente date, costituisce una conferma del carattere prodromico e strumentale dell’ obbligo di intimare la disdetta e quindi attesta la sopravvivenza di quest’ultimo al tempo del contratto definitivo. Evidentemente, tale sopravvivenza è da cogliere sotto il profilo -non più di regola di condotta, bensì di -regola di imputazione della responsabilità (in questo caso all’Immobiliare , stante la previsione contenuta nel contratto preliminare) per il caso di inattuazione dell’obbligo.
Pertanto, la Corte di appello non ha violato il suddetto principio di diritto, ma attraverso un’interpretazione plausibile della relazione tra i due contratti – ne ha fatto corretta applicazione, giungendo, ad un risultato che si sottrae a censure in sede di legittimità. Questa conclusione è stata raggiunta valorizzando il comportamento complessivo delle parti. In particolare, tra l’altro, il fatto che la stessa RAGIONE_SOCIALE, con telegramma del 25 giugno 2005, aveva richiamato espressamente gli obblighi assunti nella scrittura del 2004 per sollecitare la disdetta, e che i COGNOME avevano agito su tale impulso, è stato ritenuto un indice inequivocabile della comune volontà di continuare a dare attuazione a quell’originario accordo (nonostante il termine).
Di conseguenza, cadono le censure di violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché l’esame del preliminare non ha costituito una pronuncia ultra petita, ma uno strumento ermeneutico indispensabile. Parimenti, la censura di omesso esame del fatto che il permesso di costruire fosse intestato ai COGNOME si rivela irrilevante: l’obbligazione contrattuale assunta dalla RAGIONE_SOCIALE era quella di curare che la disdetta fosse efficace, adoperandosi affinché i titolari formali del permesso compissero gli atti necessari in modo corretto. Le censure, pertanto, pur evocando la violazione di norme di diritto, si risolvono in una critica all’interpretazione del contratto e alla valutazione delle prove, sollecitando un riesame del merito che non è consentito in questa sede.
Il sesto ed il settimo motivo sono rigettati.
6.1. – L ‘ ottavo motivo denuncia violazione degli artt. 112, 132, 1362, 1429 e 2697 c.c. La censura si concentra sull ‘applicazione , da parte della Corte di appello, della figura dell’errore comune sulla validità della disdetta, che era stata ipotizzata dal giudice di primo grado. Si contesta, in primo luogo, l’intrinseca contraddittorietà e illogicità del far discendere da un errore ritenuto comune ad entrambe le parti l’inadempimento di una sola di esse. Si argomenta che, se l’errore sulla ritualità della disdetta avesse viziato la volontà di entrambi i contraenti, non si sarebbe potuto legittimamente imputare una responsabilità contrattuale alla sola società costruttrice, che si era limitata a prendere atto delle disdette fornite dai venditori, e consentire all’altra parte -peraltro quella che aveva materialmente inviato le comunicazioni invalide -di avvantaggiarsi di tale situazione escutendo le garanzie. In caso di errore bilaterale, infatti, non trova applicazione il principio dell’affidamento né il requisito della riconoscibilità, poiché ciascun contraente ha dato causa all’invalidità del negozio. In secondo luogo, si censura la motivazione della Corte territoriale per essere perplessa e contraddittoria. Si evidenzia come la Corte, da un lato, abbia affermato, in violazione del
giudicato interno formatosi sulla statuizione di primo grado, che l’errore fosse in realtà imputabile all’appellante e, dall’altro, che comunque tale vizio avrebbe potuto rilevare solo ai fini di un’azione di annullamento del contratto di permuta, mai proposta. Tale argomentare viene ritenuto errato, così come si contesta un’altra affermazione contenuta in sentenza, secondo cui la società RAGIONE_SOCIALE sarebbe stata a conoscenza dell’invalidità della disdetta, statuizione considerata apodittica, priva di motivazione e logicamente incompatibile con la stessa nozione di errore. Infine, si lamenta che la Corte di appello abbia omesso di pronunciarsi sulla domanda di annullamento delle fideiussioni per dolo o errore, ritualmente introdotta in giudizio, rigettandola sulla base delle medesime motivazioni contraddittorie e carenti.
Nella parte censurata dall’ottavo motivo, la Corte di appello argomenta nei termini seguenti: «Deve al riguardo osservarsi che, anche a voler considerare che l’aver considerato tra le parti l’invio di valida disdetta come oggetto di errore comune nel senso di errore di diritto riconoscibile ed essenziale, deve considerarsi che, da una parte si tratterebbe all’evidenza di errore determinato da comportamento imputabile all’appellante; dall’altra un tale errore potrebbe rilevare solo quale vizio del consenso ai fini di una domanda di annullamento del contratto, domanda che non risulta avanzata tempestivamente in primo grado dalle parti in causa. Né può ritenersi che una domanda di annullamento sia stata esercitata in tal senso con le tre comparse di costituzione dell’appellante e di COGNOME NOME e COGNOME NOME, essendo le stesse relative, per come sopra già indicato, ad abuso nell’escussione della garanzia fideiussoria e vizio del consenso nella conclusione del contratto di fideiussione o della clausola che esclude la possibilità di sollevare eccezioni: al riguardo deve osservarsi che non vi è in atti di primo grado alcuna domanda di annullamento dell’atto di permuta, nel quale si fa riferimento all’invio di valide disdette, bensì risulta domanda di annullamento della
fideiussione o di clausole della stessa, per dolo o errore, vizi del consenso che non risultano ricorrenti, per essere la validità o meno della disdetta ben conosciuti dalla RAGIONE_SOCIALE e soprattutto imputabili a comportamento inadempiente dell’appellante, per i motivi già sopra meglio argomentati».
6.2. L’ottavo motivo è inammissibile.
La censura, pur articolata sotto diversi profili, si rivela inammissibile in quanto non coglie l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata. L’intero impianto argomentativo del motivo si concentra sulla pretesa contraddittorietà e illogicità del ragionamento che la Corte di appello svolge in relazione all’ipotesi dell’errore comune sulla validità della disdetta, ma non mostra di avvedersi che tale passaggio motivazionale ha un carattere meramente incidentale e rafforzativo, e non costituisce il fondamento portante della decisione.
Il fulcro della pronuncia della Corte territoriale, che conferma sul punto quella di primo grado, risiede infatti nell’accertamento dell’inadempimento della società RAGIONE_SOCIALE agli obblighi assunti con il contratto preliminare del 9 settembre 2004. È questo inadempimento -e non una successiva situazione di errore -la causa giuridica a cui viene ricondotta la responsabilità per la mancata liberazione dell’immobile nei tempi pattuiti. La Corte ha ritenuto che l’obbligo di curare l’intero procedimento finalizzato a una disdetta valida ed efficace gravasse sulla società costruttrice e che il suo mancato rispetto avesse determinato il rinnovo della locazione.
Le considerazioni svolte dalla Corte di appello in merito alla figura dell’errore comune e alla conseguente astratta esperibilità di un’azione di annullamento del contratto di permuta sono state formulate ad abundantiam. Esse rappresentano un argomento ipotetico, volto a dimostrare che, anche a voler seguire una linea di ragionamento alternativa a quella principale e decisiva, le pretese della società ricorrente sarebbero state comunque infondate per altre ragioni (nella
specie, la mancata proposizione di una tempestiva domanda di annullamento).
Di conseguenza, le critiche mosse dalla ricorrente, incentrate sulle presunte aporie logiche di questo argomento secondario, non sono idonee a scalfire la principale e autonoma ragione giuridica sulla quale si fonda il rigetto dell’appello. Poiché il motivo di ricorso non si confronta con la ratio decidendi effettiva e portante della sentenza impugnata, ma si dirige contro un obiter dictum, esso risulta inammissibile per difetto di decisività.
7.1. – Il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1353, 1362, 1363 e 1467 c.c. Si censura la sentenza impugnata per aver erroneamente escluso l’applicabilità dell’istituto della presupposizione. La critica si articola su due profili. In primo luogo, si contesta alla Corte di appello di aver errato nell’identificare la circostanza presupposta. La Corte ha ritenuto che tale presupposto fosse l’efficacia giuridica delle disdette, concludendo che, essendo tale circostanza regolata da una clausola contrattuale, non potesse configurarsi come presupposizione. Si obietta, invece, che il vero e oggettivo presupposto dell’intero assetto negoziale non era la validità formale della disdetta, ma il suo effetto pratico, ossia l’effettivo rilascio dell’immobile da parte della società conduttrice entro il 30 giugno 2006. Tale evento, comune a entrambe le parti e determinante per l’equilibrio del contratto, costituiva la condizione implicita che rendeva possibile l’adempimento dell’obbligazione principale della società costruttrice: la demolizione e la ricostruzione nei tempi pattuiti. In secondo luogo, si contesta la statuizione della Corte secondo cui l’indisponibilità dell’immobile sarebbe comunque ascrivibile a un comportamento inadempiente della società appellante. Si ribadisce che l’obbligo di dare una valida disdetta e la relativa responsabilità per la sua inefficacia gravavano unicamente sui fratelli COGNOME, quali unici soggetti legittimati a compiere tale atto. Di conseguenza, il mancato avveramento della circostanza presupposta (il rilascio del
bene) non era in alcun modo imputabile alla società costruttrice. Il venir meno di tale presupposto fondamentale, dovuto al rinnovo del contratto di locazione, rendeva la prestazione temporaneamente impossibile e avrebbe dovuto condurre la Corte ad accogliere la domanda di sospensione dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1256 c.c., che era stata invece illegittimamente rigettata.
Nella parte censurata dall’ottavo motivo, la Corte di appello argomenta nei termini seguenti: «Quanto alla presupposizione, deve concordarsi con il primo giudice nel senso che la stessa non ricorre nel caso di specie, essendo la circostanza dell’avvenuta valida disdetta della locazione inclusa quale clausola contrattuale come adempimento a carico di una delle parti e non un fatto non regolamentato contrattualmente ma costituente condizione inespressa, presupposto necessario, indipendente dal comportamento delle parti. Ugualmente deve escludersi che ricorra, nella mancanza di una valida disdetta nei termini, una condizione risolutiva o sospensiva, non essendo da tale circostanza prevista la risoluzione o la sospensione dell’efficacia contrattuale, né potendosi parlare di condizione implicita sottesa alla necessità della disponibilità dell’immobile, sempre per il motivo già trattato che tale indisponibilità deve ritenersi ascrivibile a comportamento inadempiente dell’appellante».
7.2. – Il nono motivo è rigettato.
La censura è infondata in quanto muove da un’errata qualificazione giuridica della fattispecie e si basa su un presupposto -la non imputabilità alla società ricorrente del mancato rilascio della porzione dell’immobile che è stato motivatamente escluso dai giudici di merito con un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede.
« In materia di contratti, si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto – comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere certo e obiettivo – sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo tale da assurgere a fondamento, pur in mancanza di un espresso
riferimento, dell’esistenza ed efficacia del contratto » (così, tra le meno remote , Cass. 1995/2025).
Tuttavia, tale istituto non è invocabile quando la circostanza presupposta sia stata oggetto di una specifica pattuizione contrattuale o, a maggior ragione, quando il suo mancato avveramento sia riconducibile alla condotta colposa o all’inadempimento di una delle parti.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha correttamente escluso l’applicabilità della presupposizione. La liberazione dell’immobile dal vincolo locatizio non era un mero presupposto fattuale esterno al contratto, ma costituiva l’oggetto di una specifica obbligazione che, come accertato dai giudici di merito, gravava sulla società RAGIONE_SOCIALE in forza del contratto preliminare. La Corte territoriale ha infatti statuito, con una motivazione che ha superato il vaglio dei precedenti motivi, che l’indisponibilità dell’immobile era «ascrivibile a comportamento inadempiente dell’appellante».
Una volta accertata l’imputabilità alla società ricorrente della causa che ha impedito la tempestiva demolizione del fabbricato, viene a mancare il requisito fondamentale per l’applicazione sia dell’istituto della presupposizione sia della disciplina sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1256 c.c.).
8.1. – Il decimo motivo si pone in via consequenziale rispetto ai precedenti e censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni, oggetto del giudizio riunito n. 3876/2012. Si contesta la statuizione della Corte di appello, la quale ha respinto la domanda risarcitoria ritenendola assorbita dal rigetto delle domande principali e fondata sul presupposto, giudicato infondato, di un colpevole inadempimento dei fratelli COGNOME. Il motivo argomenta che, qualora la Corte di cassazione accolga uno o più dei precedenti motivi e riformi la decisione sulla questione della responsabilità, individuando i COGNOME quali unici soggetti inadempienti
agli obblighi derivanti dal contratto di permuta, verrebbe meno il fondamento logico-giuridico della decisione di rigetto della domanda risarcitoria. Di conseguenza, dovrebbe essere riconosciuto il diritto della società costruttrice a ottenere il ristoro di tutti i danni, patrimoniali e no, patiti a causa dell’illegittimo operato della controparte. A sostegno della fondatezza della pretesa risarcitoria, si ribadiscono le diverse voci di danno allegate e provate documentalmente sin dal primo grado di giudizio, tra cui: il danno emergente, comprensivo dei notevoli costi sopportati per oneri professionali e bancari, anticipi, preparazione del cantiere e spese per la regolarizzazione degli abusi edilizi taciuti dai venditori; il lucro cessante, derivante sia dal mancato guadagno sulla vendita delle unità immobiliari che sarebbero state realizzate, sia dalla perdita di ulteriori opportunità di investimento a causa del blocco dell’operazione e della compromissione dei rapporti con il sistema bancario; il danno non patrimoniale, per la lesione all’immagine commerciale e imprenditoriale della società, derivante dal prolungato fermo del cantiere. Si insiste, infine, sulla necessità, ai fini della quantificazione dei danni, di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, contabile e estimativa, come richiesto sin dall’inizio del giudizio ma mai ammessa a causa della preliminare e contestata statuizione sull’assenza di un inadempimento dei COGNOME.
8.2. -Il decimo motivo è rigettato.
La censura è formulata in via consequenziale e subordinata all’accoglimento di almeno uno dei motivi precedenti. Essa presuppone, infatti, una riforma della sentenza impugnata sulla questione della responsabilità, con l’individuazione di un inadempimento colpevole in capo ai fratelli COGNOME Poiché tutti i motivi precedenti, volti a contestare la statuizione della Corte di appello che ha imputato la responsabilità del ritardo alla società RAGIONE_SOCIALE, sono stati rigettati, viene a mancare il presupposto logico-giuridico su cui si fonda la domanda risarcitoria.
9.1. – L’undicesimo motivo denuncia violazione dell’art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c. in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c. e si appunta sulla statuizione relativa al governo delle spese di lite, ritenuta illegittima e fondata su una motivazione apparente. In primo luogo, si contesta la decisione di compensare solo parzialmente (nella misura del 25%) le spese tra la società RAGIONE_SOCIALE e i fratelli COGNOME. Si argomenta che, essendo state rigettate integralmente anche tutte le domande riconvenzionali proposte dai COGNOME (richiesta di risoluzione e di pagamento della penale), si era configurata una soccombenza reciproca che avrebbe dovuto condurre a una compensazione integrale delle spese, e non a una condanna, seppur parziale, a carico della società attrice. Le giustificazioni addotte dalla Corte di appello -la numerosità delle domande dell’attrice e il fatto che aveva dato inizio al giudizio -sono censurate come irrilevanti e non idonee a fondare la decisione. In secondo luogo, si lamenta la violazione del principio di soccombenza in relazione alla disposta compensazione integrale delle spese nei confronti dei terzi chiamati in causa, i signori COGNOME Si evidenzia che tutte le domande proposte contro di loro dai chiamanti in causa (i COGNOME) erano state respinte; di conseguenza, i COGNOME, quali parti integralmente soccombenti in tale rapporto processuale, avrebbero dovuto essere condannati a rifondere le spese di lite ai chiamati. Si critica la motivazione della Corte di appello, che ha giustificato la compensazione con la complessità degli istituti normativi applicabili, sostenendo che, secondo la giurisprudenza di legittimità, formule generiche di tale tenore non costituiscono una valida ragione per derogare alla regola della soccombenza e integrano il vizio di motivazione apparente, che rende nulla la statuizione sulle spese. Infine, si contesta la condanna degli appellanti alla rifusione delle spese del grado di appello in favore di Bancapulia, essendo stata quest’ultima evocata in giudizio solo quale mandataria e senza che nei suoi confronti fossero state formulate specifiche domande nel giudizio di gravame.
9.2. – L’undicesimo motivo è rigettato.
Il governo delle spese processuali, ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c., è sorretto in via generale da un significativo margine di apprezzamento del giudice di merito, con limiti ristretti di sindacabilità in sede di giudizio di legittimità.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha fornito una motivazione che, seppur sintetica, sfugge a tale sindacabilità. Quanto alla disposta compensazione parziale delle spese tra la società ricorrente e i fratelli COGNOME, la Corte territoriale ha fondato la propria decisione non solo sulla soccombenza reciproca, derivante dal rigetto sia delle domande principali sia di quelle riconvenzionali, ma anche su una valutazione complessiva dell’esito della lite, tenendo conto della numerosità delle domande proposte dall’attrice e del fatto che essa aveva dato causa al giudizio. Tale apprezzamento pondera in modo plausibile il grado di soccombenza delle parti in relazione all’intera controversia. Analogamente, per quanto riguarda la compensazione integrale delle spese nei confronti dei terzi chiamati, i signori COGNOME la Corte di appello ha giustificato la propria scelta non solo in ragione della elevata complessità delle questioni trattate, ma anche della evidente connessione delle questioni di merito relative alle domande proposte nei loro confronti e a quelle principali. Tale motivazione non può essere considerata meramente apparente. Il riferimento alla complessità e alla connessione delle questioni non è una formula di stile, ma esprime un apprezzamento del giudice di merito circa la particolare difficoltà nell’inquadramento dei rapporti di garanzia e la loro stretta dipendenza dalle vicende del rapporto principale, che non si espone a censure in questa sede.
10. – La Corte rigetta il ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista
per il ricorso a titolo di contributo unificato a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare a ciascuna delle parti controricorrenti le spese del presente giudizio, che liquida per ciascuna in € 8.000, oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 27/06/2025, nella camera di consiglio della