Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12024 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12024 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 07/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 3919-2022 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOMENOMECOGNOME COGNOMENOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, mandataria di RAGIONE_SOCIALE in persona del legale
rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall ‘avv. NOME COGNOME
-controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimata – avverso la sentenza n. 1926/2021 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata in data 26/11/2021
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 14.11.2013 COGNOME NOME, COGNOME Giovanni, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Giovanni e COGNOME NOME evocavano in giudizio RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Palermo, chiedendo l’accertamento della loro proprietà su alcuni box per auto, da ciascuno di essi acquistato dalla RAGIONE_SOCIALE mediante altrettante scritture private, erroneamente qualificate come preliminari di compravendita ma in effetti costituenti atto di acquisto a tutti gli effetti, anche per esser stato interamente versato il corrispettivo in esse indicato, in via principale in base al predetto titolo, ed in subordine comunque per intervenuta usucapione. In estremo subordine, essendo pendente procedura esecutiva immobiliare RGE 725/1995, a carico di COGNOME RAGIONE_SOCIALE formale intestataria dei detti beni, chiedevano che fosse dichiarata l’impignorabilità dei box di cui è causa, in
considerazione del vincolo di destinazione pubblicistico derivante dall’art. 18 della legge n. 765 del 1967.
Si costituivano RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE resistendo alla domanda, mentre rimaneva contumace RAGIONE_SOCIALE
Con sentenza n. 2205/2018 il Tribunale rigettava la domanda.
Con la sentenza impugnata, n. 1926/2021, la Corte di Appello di Palermo rigettava il gravame interposto da COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Giuseppe, COGNOME Angela, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME avverso la pronuncia di prime cure, confermandola.
I predetti soggetti propongono ricorso per la cassazione di detta decisione, affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE rappresentato dalla mandataria RAGIONE_SOCIALE
Le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Prima di esaminare i motivi di ricorso, va dato atto dell’ammissibilità del controricorso spiegato da RAGIONE_SOCIALE che non aveva preso parte al giudizio di secondo grado, ma che ha documentato essere avente causa di RAGIONE_SOCIALE la quale con atto di cessione in blocco del 30.11.2020, stipulato ai sensi della legge n. 130 del 1999 sulla cd. cartolarizzazione dei crediti, ha ceduto all’odierna controricorrente tutti i crediti dei quali la cedente era titolare, incluso quello nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE Va data continuità, sul punto, al principio secondo cui ‘Nel giudizio di cassazione, mancando un’espressa previsione normativa che consenta al terzo di prendervi parte con facoltà di esplicare difese, è inammissibile l’intervento di soggetti che non abbiano partecipato alle pregresse fasi di merito, fatta eccezione per il successore a titolo particolare nel diritto controverso, al quale tale facoltà deve essere riconosciuta ove non vi sia stata precedente costituzione del dante causa’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 25423 del 10/10/2019, Rv. 655272; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6774 del 01/03/2022, Rv. 664106). Poiché nel caso di specie RAGIONE_SOCIALE non si è costituita nel presente giudizio di legittimità, è consentita la notificazione del controricorso ad opera della sua avente causa.
Ciò posto, passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo di essi la parte ricorrente denunzia la violazione, falsa applicazione o errata interpretazione degli artt. 18 della legge n. 765 del 1967, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda con la quale gli odierni ricorrenti avevano invocato la declaratoria di impignorabilità dei box oggetto di causa, stante la loro destinazione a parcheggio, sia perché la stessa avrebbe dovuto, secondo il giudice di merito, essere proposta nelle forme di cui all’art. 615 c.p.c., sia perché, comunque, l’esistenza del vincolo di destinazione a parcheggio dei beni di cui è causa non incide sulla loro commerciabilità. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte distrettuale avrebbe pronunciato in difformità da quanto affermato da questa Corte, poiché dall’esistenza del vincolo di destinazione a parcheggio deriva un automatico diritto reale d’uso in capo all’acquirente della singola unità immobiliare compresa nell’edificio nel quale il box è collocato o rispetto al quale esso costituisce pertinenza.
La censura è infondata.
Questa Corte ha affermato che le norme che prevedono l’obbligo, per le nuove costruzioni, di individuare delle aree di pertinenza da destinare a parcheggio, ‘… in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, configura(no) norma imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 6600 del 17/12/ 1984, Rv. 438145; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6104 del 01/06/1993, Rv. 482611; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12495 del 17/12/1993, Rv. 484766; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13857 del 09/11/2001, Rv. 550115; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6329 del 18/04/2003, Rv. 562340). Ai fini dell’adempimento della disposizione in esame non è sufficiente adibire l’area vincolata a parcheggio ad autorimessa a pagamento, ancorché mettendola anche a disposizione dei proprietari delle unità abitative, poiché in tal modo viene meno la relazione necessaria e permanente tra la cosa principale e quella accessoria e la possibilità di utilizzazione dell’autorimessa da parte dei detti proprietari viene a dipendere da fattori soggettivi e variabili, mentre la finalità della norma si realizza soltanto con il vincolo reale di destinazione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3717 del 19/04/ 1994, Rv. 486276).
In relazione alla commerciabilità degli spazi vincolati a parcheggio, è stato affermato il diritto del costruttore di riservarsene, o di cedere a terzi, la proprietà, inizialmente in relazione ai soli parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dall’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, in quanto non soggetti a vincolo pertinenziale a
favore delle unità immobiliari del fabbricato (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 12793 del 15/06/2005, Rv. 581954; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11402 del 16/05/2006, Rv. 589939; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1664 del 03/02/2012, Rv. 621449) e, più di recente, con riferimento a tutti gli spazi vincolati, sul presupposto che la norma dell’art. 18 sopra richiamato non impone una riserva di proprietà, ma solo un diritto di utilizzazione, a favore del proprietario dell’unità immobiliare. In proposito, va data continuità al principio secondo cui ‘Il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, non impedisce che il proprietario dell’area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull’area, o su parti di essa, fermo restando il diritto di uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato nei limiti delle prescritte proporzioni di cubatura, mentre le aree eccedenti detta misura rimangono nella libera disponibilità del costruttore-venditore, sul quale grava l’onere di dimostrare l’eccedenza dei posti auto rispetto allo spazio minimo richiesto dalla richiamata disciplina’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21859 del 09/10/2020, Rv. 659332).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata afferma chiaramente la permanenza del diritto d’uso, poiché la norma ‘… impone solo l’obbligo di non eliminare il vincolo esistente tra lo spazio destinato a parcheggio e il bene principale, ma non incide sulla commerciabilità del primo né crea l’obbligo di trasferire lo spazio con l’unità immobiliare … D’altra parte la sussistenza ormai pacificamente affermata e ritenuta, di un diritto reale d’uso in favore del proprietario dell’unità immobiliare di riferimento sullo spazio destinato a parcheggio conferma che lo spazio può essere trasferito a terzi, poiché ciò non impedisce (e ferma quindi resta) la destinazione al (e la fruizione a titolo di) diritto reale d’uso del proprietario
della predetta unità immobiliare’ (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). La statuizione, coerente con i principi affermati da questa Corte, evidenzia l’infondatezza della doglianza in esame, poiché non sussiste alcun vincolo di incommerciabilità e/o di impignorabilità sul bene vincolato a parcheggio, posto che il vincolo esprime soltanto la sua destinazione, e dunque il diritto reale d’uso che su di esso vanta il proprietario dell’unità immobiliare cui l’area vincolata accede, ma non priva né il proprietario dell’area stessa del diritto di disporne, fermo quel vincolo, né i suoi creditori di sottoporla ad esecuzione forzata.
Non si configura, infine, alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., poiché ‘In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.’ ( Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01). Mentre, con riferimento alla deduzione relativa alla violazione dell’art. 116 c.p.c., va ribadito che ‘In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa- secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta
ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021, Rv. 661360). Nessuna delle suindicate ipotesi si configura nel caso di specie, avendo la Corte distrettuale deciso la controversia sulla base di una interpretazione della disposizione normativa di riferimento corretta e coerente con l’insegnamento di questa Corte.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., 2697, 1362 e 1363 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che le scritture private sottoscritte tra gli odierni ricorrenti e la RAGIONE_SOCIALE costituissero meri contratti preliminari di compravendita, e non invece trasferimenti a titolo definitivo della proprietà dei box oggetto di causa, nonostante che il corrispettivo pattuito fosse stato pagato per intero.
La censura è inammissibile.
Va innanzitutto ribadito che l’interpretazione del dato negoziale costituisce appannaggio del giudice di merito e che il motivo di ricorso non può risolversi ‘… nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva
proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649; conf. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018, Rv. 649677; in precedenza, nello stesso senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013, Rv. 628585).
Nella specie, quella offerta dalla Corte di Appello è una opzione interpretativa non implausibile, fondata sulla valorizzazione del dato testuale emergente dai contratti di cui si discute, nei quali le parti avevano fatto ricorso ad espressioni verbali quali ‘si obbliga a trasferire’ e ‘si obbliga ad acquistare’ oggettivamente idonee ad evidenziare l’intento di assumere un mero impegno di trasferimento della proprietà dei box di cui è causa (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata). Costituisce, al riguardo, principio consolidato quello secondo cui il riferimento al criterio interpretativo fondato sulla ricostruzione della volontà delle parti è consentito soltanto laddove il contenuto letterale dell’atto negoziale sia insufficiente a chiarire quali siano le obbligazioni rispettivamente assunte dalle stesse (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17063 del 20/06/2024, Rv. 671707; nonché, conformi, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 33451 del 11/11/2021, Rv. 662753; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5595 del 11/03/2014, Rv. 630563; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9786 del 23/04/2010, Rv. 612651). Dove quindi, come nel caso di specie, l’elemento letterale sia ritenuto di per sé inequivoco, la censura che si risolve nella mancata applicazione degli ulteriori criteri ermeneutici previsti dal codice civile non è ammissibile.
Altrettanto consolidato è l’ulteriore principio secondo cui l’integrale versamento del corrispettivo pattuito prima della stipula del contratto definitivo di compravendita e la consegna anticipata della cosa compravenduta non privano il preliminare dei suoi effetti tipicamente
obbligatori, poiché ‘… la previsione della traditio del bene e/o del pagamento, anche totale, del prezzo convenuto non sono vicende assolutamente incompatibili con l’intento di stipulare un semplice preliminare di vendita, potendo le parti, con tali pattuizioni, manifestare null’altro che l’intento di anticipare le prestazioni del futuro contratto definitivo’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5132 del 19/04/2000, Rv. 535880; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5963 del 24/04/2002, Rv. 553977). In tal senso, non può peraltro neppure sostenersi -come sembrerebbe ipotizzare la parte ricorrente- che la consegna della res ed il versamento del corrispettivo costituiscano integrale adempimento delle obbligazioni sussunte nel preliminare di compravendita; quest’ultimo, infatti, non è un contratto reale, ma consensuale, e di conseguenza l’obbligazione contenuta nel contratto preliminare non si riferisce alla consegna o al saldo prezzo, ma alla prestazione del consenso alla compravendita, rispetto alla quale i due eventi sopra richiamati costituiscono mera conseguenza.
Inoltre, non sussiste alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., potendosi, al riguardo, richiamare le argomentazioni già esposte in relazione allo scrutinio della prima doglianza proposta dagli odierni ricorrenti.
Con il terzo ed ultimo motivo, i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione degli artt. 1140, 1158, 2697 c.c., 111 Cost., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dell’usucapione, in loro favore, del diritto di proprietà dei box oggetto di causa.
La censura è infondata.
La Corte di Appello, dopo aver confermato la statuizione di prime cure, secondo cui le scritture private intercorse tra gli odierni ricorrenti e RAGIONE_SOCIALE costituivano contratti preliminari di compravendita, ha affermato che, ove l’accordo preliminare contenga, come nel caso di specie, una specifica pattuizione anticipatoria degli effetti del contratto definitivo, si configura ‘… un rapporto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare (produttivo, si ripete, di soli effetti obbligatori) e inidoneo a costituire una situazione di possesso utile ad usucapionem, sul rilievo della mancanza, nella concreta fattispecie, di atti di interversione ex art. 1141 c.c.’ (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
La statuizione è coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui ‘Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori. Pertanto la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem, salvo la dimostrazione di un’intervenuta interversio possessionis nei modi previsti dall’art. 1141 c.c.’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1296 del 25/01/2010, Rv. 611222; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9896 del 26/04/2010, Rv. 612577; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016, Rv. 639209).
E’ pacifico, in tema di comodato, che ‘ La presunzione di possesso utile ad usucapionem di cui all’art. 1141 c.c. non opera quando la relazione con il bene derivi non da un atto materiale di apprensione della
res, ma da un atto o da un fatto del proprietario a beneficio del detentore, nella specie un contratto di comodato, poiché in tal caso l’attività del soggetto che dispone della cosa non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario. Ne consegue che la detenzione di un bene immobile a titolo di comodato precario può mutare in possesso solamente all’esito di un atto d’interversione idoneo a provare con il compimento di idonee attività materiali il possesso utile ad usucapionem in opposizione al proprietario concedente’ (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21690 del 14/10/2014, Rv. 632753).
Secondo i ricorrenti, l’anticipata disponibilità del bene, il saldo dell’intero corrispettivo e l’uso del box per anni costituirebbero elementi idonei a comprovarne il possesso uti dominus (cfr. la seconda pagina del ricorso dedicata all’illustrazione della doglianza in esame), ma l’affermazione si pone in aperto ed insanabile contrasto con i principi affermati, in materia, da questa Corte, secondo cui per potersi configurare la trasformazione dell’originaria detenzione in possesso occorre un atto di interversione che, nel caso concreto, gli odierni ricorrenti non hanno dimostrato di aver mai compiuto, non essendo pacificamente idoneo a tal fine il mero uso del cespite, ancorché prolungato, proprio in quanto tale facoltà corrisponde all’estrinsecazione dei diritti di godimento attribuiti dal proprietario del cespite al comodatario.
In relazione alla censura concernente la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., possono ancora una volta richiamarsi gli argomenti già espressi in relazione al primo motivo del ricorso. Mentre, per altro verso, il fatto che -come sostengono gli odierni ricorrenti- il possesso possa essere dimostrato anche soltanto mediante la prova testimoniale non esclude che, quando la relazione con la res sia iniziata a titolo di comodato, occorre dimostrare una interversione, che nel caso specifico
non è stata provata e che certamente non può essere rappresentata dal mero utilizzo, anche se prolungato, del bene.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Deve altresì evidenziarsi che la notificazione del ricorso è stata richiesta il 28.1.2022, data di scadenza del termine per l’impugnazione della sentenza di seconda istanza. La notificazione, eseguita in die nei confronti di RAGIONE_SOCIALE non è invece andata a buon fine in relazione a RAGIONE_SOCIALE ed è stata rinnovata con richiesta in data 30.3.2022, a seguito della quale la copia dell’atto è stata consegnata il successivo 5.4.2022. Poiché nel ricorso si dà atto che la sentenza della Corte di Appello era stata notificata a mezzo posta elettronica certificata in data 29.11.2021, a cura di RAGIONE_SOCIALE il procedimento di notificazione avrebbe dovuto essere riattivato dal ricorrente nel termine di trenta giorni dal primo tentativo andato a vuoto, corrispondente alla metà di quello previsto per l’incombente originario, e dunque entro e non oltre la data del 27.2.2022. In tal senso, va ribadito il principio secondo cui ‘In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere -anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio- di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie’ (Cass. Sez. U,
Sentenza n. 17352 del 24/07/2009, Rv. 609264). Le Sezioni Unite di questa Corte sono successivamente tornate sul tema chiarendo che il termine ragionevole per la riattivazione del procedimento notificatorio è al massimo ‘pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa’ (Cass. Sez. U, Sez. U, Sentenza n. 14594 del 15/07/2016, Rv. 640441). Nella specie, il termine suindicato non è stato rispettato, onde la notificazione del ricorso a RAGIONE_SOCIALE non può essere ritenuta tempestiva, né validamente eseguita.
Tuttavia, in considerazione dell’esito del ricorso, può prescindersi dall’integrazione del contraddittorio nei confronti di RAGIONE_SOCIALE in funzione del principio della ragionevole durata del processo, dovendosi ritenere la fissazione di un termine per procedere ai relativi incombenti, ai sensi dell’art.331 c.p.c., del tutto ininfluente sull’esito del giudizio, in considerazione dell’infondatezza del ricorso (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 21670 del 23/09/2013, Rv. 627449; negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4917 del 27/02/2017, Rv. 644315).
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 5.800, di cui € 200 per
esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda