Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 27139 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 27139 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 30674/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso come da procura speciale rilasciata in calce al ricorso, dall’AVV_NOTAIO, che richiede di ricevere le comunicazioni e le notificazioni all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del presidente del l’Amministratore Delegato legale rappresentante pro tempore, AVV_NOTAIO. NOME COGNOME, rappresentata e difesa, tanto congiuntamente quanto disgiuntamente tra loro, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO , in virtù di procura speciale
alle liti rilasciata il 17 novembre 2020, allegata, in copia informatica autenticata con firma digitale dal nominato difensore AVV_NOTAIO, alla busta contenente il presente atto ed inviata telematicamente ex art. 83, comma 3, c.p.c., elettivamente domiciliata in Roma presso RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO
-controricorrente –
E
RAGIONE_SOCIALE, società bancaria capogruppo del RAGIONE_SOCIALE, nella quale si è fusa per incorporazione la RAGIONE_SOCIALE, già conferitaria del ramo d’azienda bancario di RAGIONE_SOCIALE, in forza di atto di conferimento del AVV_NOTAIO del 15/11/2018 n. NUMERO_DOCUMENTO, già conferitaria del ramo d’azienda bancario di RAGIONE_SOCIALE in forza di atto di conferimento del AVV_NOTAIO del 13/12/2016, in persona del procuratore AVV_NOTAIO, nominata e costituita per procura dal Presidente del Consiglio di Amministrazione, autenticata in data 24/11/2020 dal AVV_NOTAIO Cilione di Verona con atto n. NUMERO_DOCUMENTO rep. e con i poteri con essa conferiti, rappresentata e difesa dall’ AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, anche disgiuntamente tra loro, per delega in data 2/12/2020, rilasciata su documento cartaceo separato, acquisito telematicamente e sottoscritto con firma digitale del difensore, da considerarsi apposta in calce al presente atto ex art. 83, 3º comma, c.p.c. ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio della seconda
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Torino n. 741/2020, depositata in data 23 luglio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/5/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME deduceva di essersi recato a marzo del 2010 presso la Cassa di Risparmio di Alessandria, oggi RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, per ottenere un finanziamento di euro 5000,00 e la banca gli aveva suggerito, stante la modestia dell’importo richiesto e la modalità di restituzione mediante cessione del quinto della pensione, di rivolgersi al personale della società RAGIONE_SOCIALE presente nella filiale.
In data 26/3/2010 aveva sottoscritto un «impegno a contrarre per l’ottenimento di un finanziamento» per la somma di euro 5.500,00, a fronte della cessione del quinto della retribuzione con n. 60 rate mensili per euro 130,00 mensili ciascuna.
Era stato poi programmato un ulteriore incontro «finalizzato a formalizzare definitivamente l’accordo di cui al pre-contratto» dinanzi all’agente finanziario NOME COGNOME, sottoscrivendo un finanziamento di euro 12.966,22, con restituzione dell’importo di euro 25.380,00.
Il contratto di finanziamento era stato stipulato il 2/4/2010.
Deduceva ancora che non gli era stata consegnata copia del contratto sottoscritto e che, al momento della ricezione da parte dell’RAGIONE_SOCIALE Alessandria del primo bollettino con cui gli veniva accreditata la pensione, al netto della rata di euro 214,00, ceduta a favore della RAGIONE_SOCIALE, l’attore si era reso conto «di avere concluso un contratto assolutamente squilibrato e sconveniente e di natura
usuraria, distantissimo dalle sue reali esigenze e quindi di essersi pertanto fidato ingenuamente dei suoi interlocutori».
Nell’atto di citazione, dunque, il COGNOME precisava le seguenti conclusioni: «in via principale dichiarare la natura usuraria del mutuo e che di conseguenza il sig. COGNOME NOME non è tenuto a corrispondere nessuna somma a titolo di interesse; in via subordinata dichiarare la nullità del contratto o l’annullamento del contratto in questione perché viziato da tutti i profili di illegittimità evidenziati in narrativa».
Successivamente, in sede di memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c., delle 13/10/2014, come pure nell’atto di citazione in appello, l’attore chiedeva «in via principale dichiarare il raggiro di cui è stato vittima il sig. COGNOME NOME e/o la natura usuraria del mutuo e che di conseguenza il sig. COGNOME NOME non è tenuto a corrispondere nessuna somma a titolo di interesse alla ditta RAGIONE_SOCIALE e inoltre dichiarare tenuta e per l’effetto condannare la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE s.p.a., in persona del legale rappresentante al risarcimento, insieme alla RAGIONE_SOCIALE, dei danni tutti patiti dal sig. COGNOME nella vicenda di cui è causa. In via subordinata dichiarare – ai sensi dell’art. 1440 c.p.c. – la malafede delle convenute, condannandole al risarcimento dei danni a favore dell’attore nella misura che il tribunale riterrà congrua, anche in via equitativa».
Il tribunale di Alessandria non ammetteva la CTU e rigettava le domande.
La Corte d’appello di Torino rigettava l’appello.
In particolare, con riferimento alla mancata ammissione dell’interrogatorio formale del legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, la Corte territoriale rilevava che, in realtà, l’attore non intendeva provocare la confessione del legale rappresentante della società, ma solo ottenere «da lui l’indicazione del nominativo del
dipendente in presenza del quale egli attore aveva sottoscritto l’impegno a contrarre atteso che NOME COGNOME era risultato estraneo alla vicenda».
Inoltre, non vi era alcun capitolo di prova che conteneva la formulazione di tale circostanza, «sicché anche se il legale rappresentante della società finanziaria rispondesse all’interpello non gli verrebbe chiesto chi fosse l’addetto che contrattò con il COGNOME in quell’occasione».
Tra l’altro, la linea difensiva del COGNOME era incentrata sulla invalidità del contratto di finanziamento definitivo, che sarebbe stato difforme sia all’impegno a contrarre sia alle reali esigenze della parte, in ordine al quale però «è nota l’identità dell’incaricato di NOME in quanto sottoscrittore del contratto». Dai documenti emergeva che per la NOME aveva operato NOME COGNOME.
Oltretutto, il giudice di merito poteva non ammettere l’interrogatorio formale, quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valutasse il medesimo come «meramente dilatorio e defatigatorio».
La Corte d’appello rigettava anche il motivo di gravame in ordine alla mancata ammissione della CTU contabile.
Con riferimento all’anatocismo, evidenziava che tale aspetto del contratto non era stato mai allegato in primo grado né risultava sviluppato nel gravame. Quanto poi al superamento del tasso soglia di usura per effetto dell’operatività della commissione di estinzione anticipata, tale commissione non poteva essere utilizzata ai fini del calcolo del superamento della soglia usuraria.
Non era stata dimostrata l’usura soggettiva e, quanto all’usura, il tasso praticato era pari al 16,73%, quindi inferiore al tasso soglia pari al 17,82%, seppure superiore ai tassi medi del trimestre di riferimento pari all’11,88%.
Con riferimento al terzo motivo di appello, con cui si lamentava la violazione del dovere di correttezza, come pure l’erronea esclusione della violazione della normativa in tema di usura, la commissione di estinzione anticipata di cui all’art. 9 del contratto di finanziamento non rappresentava un costo collegato all’erogazione del credito e non era rilevante in tema di usura. Trattavasi di una penale, di fatto, che sostituiva dal punto di vista economico gli interessi compensativi che, a seguito del recesso, non dovevano più essere corrisposti alla banca. Si trattava dunque di un compenso corrispettivo della rinuncia da parte del creditore al potere consentitogli dell’art. 1815 c.c.
Quanto poi alla pretesa violazione della disciplina del codice del consumo, la stessa non era connessa alle domande formulate dall’attore. Anche ove fosse stato dimostrato che le clausole vessatorie unilateralmente predisposte dalla RAGIONE_SOCIALE non erano state oggetto di specifica trattativa, ne sarebbe derivata la nullità delle clausole stesse, mentre il contratto sarebbe rimasto valido per il resto.
Non vi era poi alcuna prova del raggiro o del dolo a seguito della mera constatazione della differenza di importi condizioni tra il contratto di finanziamento stipulato il 2/4/2010 e l’impegno a contrarre del 26/3/2010.
Veniva rigettato anche il quarto motivo di appello, relativo all’usura soggettiva, in quanto l’appellante sosteneva che dal confronto tra l’importo indicato nel suo impegno a contrarre del 26/3/2010 e quello pattuito nel contratto di finanziamento del 2/4/2010 si sarebbe dovuto desumere che vi era stato non solo un raggiro ordito in suo danno, «ma anche un approfittamento delle sue condizioni economiche precarie, che sarebbero state note quantomeno alla banca».
In realtà, per la Corte territoriale il confronto tra i due atti non provava quanto sostenuto dall’appellante, il quale «non ha offerto dimostrazione dei suoi assunti neppure in punto usura soggettiva, come correttamente rilevato dal tribunale».
Era assorbita, a seguito del rigetto dei precedenti motivi d’appello, la questione sulla ritenuta responsabilità della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE a titolo di contatto sociale.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME.
Hanno resistito con controricorso sia la RAGIONE_SOCIALE sia la RAGIONE_SOCIALE, quale società bancaria capogruppo del gruppo bancario RAGIONE_SOCIALE BPM, nella quale si è fusa per incorporazione della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALEp.aRAGIONE_SOCIALE
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto: articoli 2,4,5, 3º comma, 20,21,22,23,25,33,34 e 36 del codice del consumo, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In particolare, la Corte d’appello si sarebbe limitata ad affermare che, anche ove fosse stato corretto l’argomentare dell’attore, e dunque che le clausole vessatorie non erano state oggetto di specifica trattativa, ne sarebbe derivata esclusivamente la nullità delle clausole «mentre il contratto rimane valido per il resto».
Per il ricorrente, però, la domanda era stata promossa sia per la violazione delle norme fondamentali poste a tutela del consumatore, sia della normativa antiusura.
La vessatorietà delle clausole sarebbe stata sottolineata «come ulteriore e grave indice della complessiva operazione illegittima e scorretta posta ai danni del sig. COGNOME».
Per il ricorrente, dunque, la vicenda in esame, che andava valutata «nella sua complessità e totalità», era caratterizzata da: a) pratica commerciale scorretta consistita «nell’accaparraggio» di un cliente: b) proposta di contratto di finanziamento presentata dalla società RAGIONE_SOCIALE, estranea al consumatore; c) perfezionamento del contratto definitivo, avvenuto in altro locale commerciale, con «stravolgimento in esso di quanto originariamente previsto nella proposta di contratto», passando da un prestito di euro 5500,00, con costo complessivo di euro 7800,00, della durata di 5 anni, ad un prestito di euro 12.966,22, con un costo complessivo di euro 25.380,00 della durata di 10 anni; d) contratto definitivo predisposto, precompilato e prestampato caratterizzato da usura soggettiva; e) contratto definitivo caratterizzato dalla clausola n. 9 (commissione di anticipata estinzione), non solo di carattere vessatorio, ma implicante un tasso di usura oggettiva; f) contratto definitivo caratterizzato dalla predisposizione di numerose clausole vessatorie e, quindi, illecite perché mai oggetto di specifica trattazione e accettazione.
La Corte d’appello non avrebbe tenuto conto di principi generali «quali l’equità, la buona fede, e da ultimo dagli enunciati costituzionali ».
Tra l’altro, la nullità parziale che inficiavano le clausole vessatorie nn. 7,8 e 9 del contratto, avrebbe determinato la nullità dell’intero contratto, ex art. 1419 c.c.
Il motivo è inammissibile.
2.1. Invero, il ricorrente si limita ad indicare le norme del codice del consumo, di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che sarebbero state asseritamente violate, ma non riporta, neppure per stralcio, il contenuto dei due contratti stipulati dall’attore, quello del 26/3/2010
e quello definitivo del 2/4/2010, incorrendo, dunque, nel vizio di difetto di autosufficienza.
2.2. Inoltre, il ricorrente, pur ammantando il motivo di ricorso come vizio di violazione di legge, attraverso l’invocazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in realtà richiede una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, già compiutamente effettuata dal giudice di merito, non consentita in questa sede.
Non sono stati indicati neppure i fatti storici decisivi, il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di appello e neppure sono individuate le fasi processuali in cui i singoli documenti sono stati prodotti.
2.3. Il motivo, peraltro, presenta aspetti di novità, che non risultano trattati nella motivazione della sentenza della Corte d’appello, come con riferimento alla pretesa violazione «dei principi generali quali l’equità, buona fede, e da ultimo enunciati costituzionali».
2.4. Infine, il motivo di ricorso non si confronta con la specifica ratio della motivazione della Corte d’appello, che, in relazione alla pretesa violazione delle norme che governano la disciplina del consumatore ha affermato che «l’invocata disciplina del codice del consumo non risulta connessa alle domande formulate dalla parte appellante».
La Corte territoriale ha spiegato che «anche ove fosse corretto l’argomentare delle COGNOME in punto mancata dimostrazione che le clausole vessatorie unilateralmente predisposte dalla RAGIONE_SOCIALE siano state oggetto di specifica trattativa, non se ne comprende la rilevanza rispetto alla domanda diretta all’accertamento della gratuità del finanziamento e/o della sua nullità e/o annullabilità, atteso che – al più – ne discenderebbero gli effetti di cui all’art. 36
del codice del consumo e quindi la nullità delle clausole mentre il contratto rimane valido per il resto».
A tale espressa statuizione, che costituisce un’autonoma ratio decidendi , il motivo di ricorso dell’attore non ha dato alcuna risposta.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della «violazione o falsa applicazione di norme di diritto relative al giusto processo e all’impedimento dell’esercizio dei diritti di difesa (mancata ammissione dell’interrogatorio del legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE), in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente l’affermazione della Corte d’appello per cui l’interrogatorio formale era esclusivamente diretto ad accertare il nominativo dell’ignoto dipendente che aveva illustrato al COGNOME la prima bozza contrattuale era falsa o, comunque, inesatta.
L’attore, infatti, aveva articolato l’interrogatorio formale nella seconda memoria ex art. 183 c.p.c. sottolineando che tale prova era diretta ad «illustrare lo svolgimento dei fatti che avevano indotto il sig. COGNOME dapprima alla sottoscrizione di un ‘impegno a contrarre’ e successivamente alla stipula di un finanziamento completamente disancorato dalle esigenze che lui aveva manifestato nel precedente colloquio».
3.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte fondato.
3.2. È inammissibile nella parte in cui ci si limita ad una superficiale critica dell’affermazione della Corte d’appello, senza indicare le ragioni di decisività dei capitoli di prova per interrogatorio formale articolati dall’attore, peraltro in alcun modo trascritti nel corpo del motivo di impugnazione, con conseguente difetto di autosufficienza del motivo.
È infondato in quanto, per questa Corte, il giudice del merito, che non è tenuto ad ammettere e valutare tutti i mezzi di prova dedotti
dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo, ben può, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali insindacabili in cassazione, non ammettere il dedotto interrogatorio formale, quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valuti il medesimo come meramente dilatorio e defatigatorio (Cass., sez. 3, 16 novembre 2006, n. 24370).
Tra l’altro, dalla stessa motivazione della sentenza della Corte d’appello emerge che erano perfettamente conosciuti i nominativi degli operatori che avevano sottoscritto i due contratti, il primo del 26/3/2010, ed il secondo del 2 aprile 2010.
Si legge, infatti, nella motivazione della sentenza della Corte d’appello che «dalla documentazione prodotta emerge che già il 26/3/2010 (ossia in occasione della sottoscrizione dell’impegno a contrarre) al COGNOME erano stati consegnati sia il foglio informativo sui ‘Principali diritti del cliente ‘ sia il ‘ Foglio informativo n. 36 redatto ai sensi delle disposizioni di cui alla delibera CICR 4/3/2003 e successivo provvedimento della RAGIONE_SOCIALE d’Italia del 29/7/2009′ nel quale era indicato con timbra e firma il nome dell’agente finanziario della RAGIONE_SOCIALE (COGNOME NOME) ed erano elencate le principali clausole e condizioni del finanziamento Tale foglio informativo risultava consegnato al COGNOME il 26/3/2010 ed è analogo a quello poi consegnatogli il 2/4/2010 in occasione della stipulazione del contratto di finanziamento in quella data risulta consegnata alla COGNOME copia del ‘foglio informativo n. 37’ dall’agente finanziario sig. COGNOME NOME (che firmava il contratto di finanziamento per la RAGIONE_SOCIALE) compilato sul medesimo modulo del precedente, con le condizioni valide per il periodo appunto successivo al 31/3/2010».
Trova applicazione dunque qui il principio di giurisprudenza di legittimità per cui qualora con il ricorso per cassazione siano
denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonché di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass., sez. 6-1, 4 ottobre 2017, n. 23194).
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto relative al giusto processo con conseguente impedimento dell’esercizio dei diritti di difesa (mancata ammissione di CTU, per manifesta erroneità della motivazione, circa le contestate fattispecie di usura) e violazione e falsa applicazione della normativa antiusura, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Con riferimento alla sussistenza della usura soggettiva la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che non vi era prova di quanto sostenuto dall’appellante.
In realtà, per il ricorrente era insostenibile che il consumatore «debba anche ulteriormente sobbarcarsi l’onere di una perizia contabile atta a dimostrare ciò che gli stessi elementi di fatto portati a conoscenza del giudice inducono a ritenere come sussistenti».
Per il COGNOME la sussistenza dei requisiti dell’usura soggettiva emergeva già dalla distanza tra il tasso medio praticato e quello del caso concreto, in quanto vi era uno scostamento di circa 5%, tra il tasso medio delle operazioni similari pari all’11,88% ed il tasso applicato pari al 16,73%, mentre il tasso soglia era del 17,82%.
La Corte d’appello sul punto avrebbe reso una motivazione meramente apparente.
Sarebbe stato poi evidente che il COGNOME si trovava in condizioni di difficoltà economica, trattandosi di pensionato, anziano, con la sola licenza elementare, che necessitava di un piccolo prestito di euro 5000,00.
RAGIONE_SOCIALE, invece, si sarebbe approfittata del consumatore attraverso la stipulazione di un contratto dalla misura del tutto sproporzionata rispetto a quella richiesta e voluta dal COGNOME.
E’ sufficiente sul punto porre attenzione al contenuto della clausola n. 9, che, ove attivata, avrebbe implicato un costo esorbitante e caratterizzato da quella che viene definita, come «usura di strada».
4.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Anzitutto, si rileva che il giudizio sulla necessità e utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, la cui decisione è censurabile per cassazione unicamente ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., soggiacendo la relativa impugnazione alla preclusione derivante dalla regola della cd. “doppia conforme” di cui all’art. 348ter , comma 5, c.p.c., ratione temporis vigente (Cass., sez. L, 25 agosto 2023, n. 25281).
Nella specie, sia il giudice di prime cure che la Corte d’appello hanno ritenuto superflua la CTU chiesta dall’attore, in quanto questi aveva indicato prospetti matematici inidonei a rappresentare la fattispecie concreta (motivazione Corte d’appello «ugualmente è inammissibile finalizzata all’accertamento dell’anatocismo e degli altri profili genericamente indicati: il primo aspetto non è stato mai allegato in primo grado né risulta sviluppato
nel gravame e gli altri profili sono generici. L’unico tema sul qualein astratto – un approfondimento tecnico contabile sarebbe rilevante nella presente controversia è quello relativo al superamento del tasso soglia usura per effetto dell’operatività della commissione di estinzione anticipata, sul quale tuttavia la CTU non è necessaria »).
Il giudice d’appello ha anche sottolineato che la CTU era inammissibile «nella parte in cui vorrebbe delegare al consulente d’ufficio la valutazione della difformità tra le clausole previste nell’impegno a contrarre e quelle sottoscritte finanziamento».
Pertanto, nell’ipotesi di «doppia conforme», prevista dall’art. 348ter , comma 5, c.p.c., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 3, 28 febbraio 2023, n. 5947). Tale adempimento non è stato posto in essere dal ricorrente.
4.2. Il motivo è anche infondato.
Va, infatti, confermato l’orientamento di legittimità per cui la c.t.u. costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti; essa, tuttavia può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito. Ne consegue che, qualora la c.t.u. sia richiesta per acquisire documentazione che la parte avrebbe potuto produrre, l’ammissione da parte del giudice comporterebbe lo snaturamento della funzione assegnata dal codice a tale istituto e la violazione del gi s’usto processo, presidiato dall’art.
111 Cost., sotto il profilo della posizione paritaria delle parti e della ragionevole durata (Cass., sez. 1, 15 settembre 2017, n. 21487).
Va, allora, data continuità al principio giurisprudenziale per cui la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato (Cass., sez. 6-1, 13 gennaio 2020, n. 326).
5.1. Resta fermo che la CTU, per questa Corte, è solo un «atto processuale» che svolge funzioni di ausilio del giudice, sicché, il vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. deve riferirsi all’omesso esame di un «fatto storico» (Cass., 24 giugno 2020, n. 12387).
5.2. Il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità; tuttavia, giusta la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è consentito denunciare in Cassazione, oltre all’anomalia motivazionale, solo il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo. Ne consegue che il ricorrente non può limitarsi a denunciare l’omesso esame di elementi istruttori, ma deve indicare l’esistenza di uno o più fatti specifici, il cui esame è stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui essi risultino,
il ‘come’ ed il ‘quando’ tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività (Cass., sez. 1, 23 marzo 2017, n. 7472).
Tra l’altro, con riferimento alla richiesta di CTU in relazione al dedotto superamento della soglia del tasso usurario, per la presenza della clausola n. 9 del contratto che prevedeva la commissione per la anticipata estinzione, per questa Corte , ai fini del superamento del «tasso soglia» previsto dalla disciplina antiusura, non è possibile procedere alla sommatoria degli interessi moratori con la commissione di estinzione anticipata del finanziamento, non costituendo quest’ultima una remunerazione, a favore della banca, dipendente dalla durata dell’effettiva utilizzazione del denaro da parte del cliente, bensì un corrispettivo previsto per lo scioglimento anticipato degli impegni a quella connessi (Cass., sez. 3, 7 marzo 2022, n. 7352).
Risulta corretta, dunque, allora, l’affermazione della Corte d’appello laddove ha reputato che «la commissione per l’estinzione anticipata del mutuo non rappresenta un costo collegato all’erogazione del credito e non è pertanto rilevante in tema di usura».
Con il quarto motivo di impugnazione ricorrente deduce la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto in materia di responsabilità da contatto sociale, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello di Torino dopo aver inquadrato correttamente la responsabilità da contatto sociale, è giunto erroneamente ad escluderla sulla scorta dell’ulteriore erroneo e falso presupposto dell’assenza di responsabilità in capo alla RAGIONE_SOCIALE
in realtà, la NOME era materialmente responsabile di plurimi illeciti contrattuali, sicché la banca, per la responsabilità da contatto
sociale, in quanto si era giovata del rapporto fiduciario con il COGNOME, aveva «passato» il cliente alla RAGIONE_SOCIALE, ospitata nei locali della sede principale dell’istituto di credito.
6.1. Il motivo è inammissibile.
6.2. In realtà, non v’è stata alcuna pronuncia della Corte territoriale sulla questione della responsabilità da contatto sociale della banca, in quanto è stato dichiarato l’assorbimento del motivo, in assenza di condotte illegittime da parte dei dipendenti della RAGIONE_SOCIALE.
Afferma la Corte d’appello sul punto che «il rigetto dei precedenti motivi di appello comporta l’assorbimento di quello relativo alla ritenuta responsabilità della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE BPM) a titolo di contatto sociale, ossia per avere indirizzato il proprio cliente alla finanziaria inducendolo a fare affidamento alla serietà professionale della stessa. La responsabilità della banca presuppone, infatti, l’accertamento di quella della RAGIONE_SOCIALE o la violazione della normativa antiusura o la sussistenza di un dolo incidente».
In tema di assorbimento cd. improprio, nel caso di rigetto di una domanda in base alla soluzione di una questione di carattere esaustivo che rende vano esaminare le altre, sul soccombente non grava l’onere di formulare sulla questione assorbita alcun motivo di impugnazione, ma è sufficiente, per evitare il giudicato interno, che censuri o la sola decisione sulla questione giudicata di carattere assorbente o la stessa statuizione di assorbimento, contestando i presupposti applicativi e la ricaduta sulla effettiva decisione della causa (Cass., sez. 1, 4 gennaio 2022, n. 48).
Nella specie, una volta che è stata esclusa ogni responsabilità nella condotta dei dipendenti della RAGIONE_SOCIALE, non v’è più alcuno spazio per la responsabilità della banca da contatto sociale.
7. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della RAGIONE_SOCIALE le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 1.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore del RAGIONE_SOCIALE le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 1.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 22 maggio