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Contratto di coworking: quando non è locazione

Una professionista si oppone a un decreto ingiuntivo per canoni non pagati, sostenendo la nullità del contratto di locazione per vizi di forma. La Corte di Cassazione, confermando le decisioni dei giudici di merito, qualifica il rapporto come un contratto di coworking, un accordo atipico che non richiede la forma scritta. Di conseguenza, il ricorso viene dichiarato inammissibile, obbligando la professionista al pagamento della somma dovuta per l’effettivo godimento degli spazi e dei servizi.

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Contratto di coworking o locazione? La Cassazione chiarisce i confini

La distinzione tra un contratto di coworking e un tradizionale contratto di locazione può avere conseguenze legali ed economiche significative. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta proprio questo tema, stabilendo principi importanti sulla qualificazione giuridica del rapporto e sull’inammissibilità di ricorsi che mirano a una rivalutazione dei fatti di causa. La decisione offre spunti cruciali per professionisti e aziende che utilizzano spazi di lavoro condivisi, chiarendo quando l’obbligo di pagamento sussiste anche in assenza di un contratto scritto.

I Fatti di Causa: la controversia sull’uso degli spazi professionali

Una società immobiliare otteneva un decreto ingiuntivo contro una professionista per il mancato pagamento di oltre 29.000 euro, a titolo di corrispettivo per l’utilizzo di alcuni locali ad uso ufficio per un periodo di circa due anni e mezzo. La professionista si opponeva al decreto, sostenendo che il rapporto fosse in realtà un contratto di locazione, nullo per mancanza di forma scritta e di registrazione. Chiedeva quindi non solo la revoca del decreto, ma anche la restituzione delle somme già versate in passato.

Il Tribunale di primo grado rigettava l’opposizione, condannando la professionista al pagamento. La sentenza veniva impugnata davanti alla Corte d’Appello.

La Qualificazione del Contratto di Coworking in Appello

La Corte d’Appello di Brescia, pur revocando il decreto ingiuntivo per ragioni procedurali, condannava ugualmente la professionista a pagare la stessa somma. Il punto cruciale della decisione era la qualificazione del contratto. Secondo i giudici, il rapporto non era una locazione, bensì un contratto di coworking. Questa conclusione derivava da elementi pacifici emersi in giudizio: la professionista aveva avuto la disponibilità non esclusiva di una sala riunioni e di una stanza ad uso ufficio, oltre all’accesso a servizi accessori, all’interno di uno studio professionale più ampio.

Questa configurazione, tipica degli spazi di coworking, è stata considerata un contratto atipico, per il quale non è richiesta la forma scritta ai fini della validità. Di conseguenza, la richiesta di restituzione delle somme versate (ripetizione dell’indebito), basata sulla presunta nullità del contratto, veniva respinta.

Il Ricorso in Cassazione e i motivi dell’inammissibilità

La professionista proponeva ricorso in Cassazione, insistendo sulla qualificazione del rapporto come locazione. Sosteneva che l’utilizzo prolungato (oltre sei anni) di più locali (due stanze, postazione per segretaria e sala riunioni) da parte sua e dei suoi collaboratori fosse tipico di un contratto di locazione, e non di un contratto di coworking. Da questa premessa, deduceva la nullità del contratto per vizio di forma e il suo diritto a non pagare e a ottenere la restituzione del pregresso.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente inammissibile per due ragioni fondamentali.

In primo luogo, ha ribadito un principio consolidato: l’interpretazione e la qualificazione giuridica di un contratto sono attività riservate al giudice di merito. Il ricorso in Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio per riesaminare le prove e i fatti. La ricorrente, contestando la qualificazione come contratto di coworking, stava in realtà chiedendo una nuova valutazione del merito della causa, operazione preclusa in sede di legittimità.

In secondo luogo, la Corte ha evidenziato la mancanza di un interesse giuridicamente rilevante a sostegno del ricorso. Anche se, in via ipotetica, il contratto fosse stato qualificato come locazione, la circostanza pacifica che la professionista avesse goduto per anni degli spazi avrebbe comunque fatto sorgere l’obbligo di pagare un corrispettivo, come previsto dall’articolo 1591 del Codice Civile per il godimento di un immobile. Pertanto, l’eventuale accoglimento del ricorso non le avrebbe comunque consentito di sottrarsi al pagamento.

Le Conclusioni: implicazioni pratiche della decisione

La decisione della Cassazione consolida la distinzione tra locazione e contratto di coworking. Quest’ultimo viene riconosciuto come un contratto atipico complesso, dove la fornitura di servizi (reception, utenze, uso di aree comuni) assume un ruolo centrale al pari della concessione degli spazi. La sua validità non è subordinata alla forma scritta, a differenza della locazione di immobili.

La sentenza sottolinea inoltre che l’effettivo godimento di un bene o di un servizio genera sempre l’obbligo di un corrispettivo. Non è possibile utilizzare un vizio formale per sottrarsi a un pagamento dovuto, soprattutto quando la prestazione è stata regolarmente ricevuta. Infine, viene ribadito il limite del sindacato della Corte di Cassazione, che non può sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei fatti contrattuali.

Quando un accordo per l’uso di uno spazio ufficio può essere qualificato come contratto di coworking anziché locazione?
Quando la disponibilità degli spazi non è esclusiva e include l’uso di servizi accessori (come una sala riunioni) e postazioni condivise, configurando un contratto atipico in cui la fornitura di servizi è prevalente rispetto al semplice godimento dell’immobile.

È possibile evitare il pagamento per l’uso di un ufficio sostenendo che il contratto di locazione è nullo per mancanza di forma scritta?
No, se il rapporto viene qualificato come contratto di coworking, che non richiede la forma scritta per essere valido. Inoltre, la Corte specifica che anche in caso di locazione, l’effettivo godimento dell’immobile obbliga comunque l’utilizzatore a versare un corrispettivo.

Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della professionista?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per due ragioni principali: primo, perché chiedeva una nuova valutazione dei fatti per qualificare il contratto, attività riservata ai giudici di merito; secondo, perché mancava un interesse giuridico concreto, dato che la professionista avrebbe comunque dovuto pagare per l’utilizzo degli spazi, indipendentemente dalla qualificazione del contratto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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