Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21365 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21365 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12569/2024 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, rappresentata e difesa in proprio, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC da lei stessa indicato
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimata- avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di BRESCIA n. 384/2024 depositata il 10/04/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE ottenne dal Tribunale di Bergamo un decreto ingiuntivo nei confronti dell’avv. NOME COGNOME per la somma di euro 29.967,23, a titolo di canone d’uso e di
LOCAZIONE.
R.G. 12569/2024
COGNOME
Rep.
C.C. 18/6/2025
C.C. 14/4/2022
godimento di due locali della società creditrice ubicati nel Comune di Bergamo.
A sostegno della richiesta di provvedimento monitorio la società creditrice espose che la professionista aveva utilizzato tali locali fino al 31 maggio 2013 verso il corrispettivo annuale di euro 14.000,00, omettendone però il pagamento per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 ed il 31 maggio 2013. Aggiunse, poi, che l’avv. COGNOME nelle premesse di una scrittura privata sottoscritta in data 24 aprile 2015 unitamente ad un diverso professionista, che occupava altri locali ubicati nella medesima unità immobiliare, aveva riconosciuto il credito fatto valere in sede monitoria dalla società ricorrente.
Avverso il decreto ingiuntivo propose opposizione l’avv. COGNOME la quale, sostenendo che il rapporto intercorso tra le parti fosse un contratto di locazione, ne eccepì la nullità per mancanza della forma scritta e della registrazione, chiedendo la revoca del decreto e proponendo domanda riconvenzionale per la restituzione, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., delle somme in precedenza già versate.
Il Tribunale rigettò l’opposizione e condannò l’opponente al pagamento delle spese di lite.
La sentenza è stata impugnata dalla parte opponente e la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 10 aprile 2024, in parziale accoglimento del gravame, ha revocato il decreto ingiuntivo ma ha condannato l’avv. COGNOME al pagamento della medesima somma, cioè euro 29.967,23, condannando altresì l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale, per quanto di interesse in questa sede, che doveva darsi per pacifico, in assenza di contestazioni sul punto, che l’opponente aveva avuto la disponibilità non esclusiva di una sala riunioni e di una stanza ad uso ufficio all’interno di uno studio commerciale. La professionista, cioè, aveva goduto parzialmente delle due stanze e di alcuni servizi
accessori e aveva anche pagato somme per l’uso della sala riunioni, in relazione ad alcuni spazi facenti parte di un’unità immobiliare che ospitava un altro studio professionale. Tanto portava ad affermare che si trattava di un contratto atipico, che la Corte d’appello ha definitivo come coworking , frequentemente utilizzato proprio per gli studi professionali.
Così inquadrato il contratto, la Corte ha dedotto che la domanda di ripetizione dell’indebito avanzata dall’appellante doveva essere respinta, in quanto si basava sul presupposto (erroneo) della nullità del titolo che avrebbe dato luogo ai pagamenti.
Passando, poi, all’esame dei successivi motivi di appello, la Corte bresciana ha osservato che il riconoscimento di debito compiuto dalla professionista nella scrittura privata dal 24 aprile 2015 non poteva essere posto a fondamento del decreto ingiuntivo, posto che esso era stato inserito in un atto di transazione, il che faceva venire meno la sua idoneità a costituire una confessione. Ciò nondimeno, poiché la società creditrice aveva dimostrato l’esistenza del rapporto contrattuale ed aveva allegato l’inadempimento dell’appellante, quest’ultima avrebbe dovuto dimostrare l’avvenuto adempimento, dal momento che era pacifico che l’avv. COGNOME aveva effettivamente goduto degli spazi e dei servizi dedotti in giudizio anche nel periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2011 ed il 31 maggio 2013, ed era altrettanto incontestato che la stessa non avesse pagato alcunché all’appellata.
In conclusione, quindi, la Corte di merito ha stabilito che i documenti contabili forniti dalla parte creditrice, unitamente alle deposizioni dei testimoni, potessero costituire prova sufficiente a dimostrare l’oggetto del contratto e il mancato pagamento di corrispettivi da parte dell’avv. COGNOME Ne conseguiva che il decreto ingiuntivo doveva sì essere revocato, ma che la parte debitrice
andava condannata al pagamento della medesima somma, attesa la fondatezza della pretesa creditoria.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia propone ricorso l’avv. NOME COGNOME con atto affidato ad un solo motivo.
RAGIONE_SOCIALE non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Il ricorso è stato ritenuto manifestamente inammissibile con una proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., depositata dal Consigliere relatore in data 27 gennaio 2025.
Avverso tale decisione la ricorrente ha chiesto che il ricorso venga collegialmente deciso; la trattazione è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis .1. cod. proc. civ. e il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, della normativa di cui agli artt. 1571 e ss. cod. civ. in tema di qualificazione giuridica del contratto di locazione.
La ricorrente concentra le proprie censure sulla qualificazione giuridica del contratto compiuta dalla Corte di merito, che a suo parere sarebbe erronea. La sentenza ha stabilito che il contratto fosse di coworking , omettendo di valutare risultanze istruttorie decisive e rilevanti ai fini di una corretta applicazione delle norme di diritto in materia di locazione. Dopo aver ricapitolato le differenze tra il contratto di locazione e quello di coworking , la ricorrente osserva che nel corso del giudizio sarebbe emerso che ella aveva la disponibilità di più locali, ovvero due stanze ad uso ufficio, una per sé e un’altra per il collaboratore, una postazione per la segretaria e l’uso della sala riunioni. Tanto doveva bastare
per escludere l’esistenza di un contratto di coworking , in quanto ogni stanza o postazione (utilizzata da soggetti diversi) avrebbe dovuto essere oggetto di specifica contrattazione. La ricorrente aggiunge che la Corte di merito non avrebbe considerato che il godimento dei locali protrattosi per oltre sei anni, da parte sua e dei suoi collaboratori e segretaria, non poteva essere qualificato come coworking , «in quanto la durata per un lungo periodo, non frazionata e l’uso costante da parte di più soggetti facenti capo ad un unico utilizzatore sono tipici del contratto di locazione, che ha per oggetto la disponibilità di un’unità immobiliare composta da più vani per un lungo periodo». La corretta qualificazione, dunque, avrebbe dovuto essere quella della locazione, con conseguente nullità del contratto, stante la mancanza della forma scritta ad substantiam e la mancata registrazione del contratto stesso, e riconoscimento del diritto della ricorrente ad ottenere la ripetizione delle somme ingiustamente versate in precedenza.
Il Collegio osserva che la proposta di definizione anticipata, dopo aver richiamato la diversità esistente tra l’interpretazione e la qualificazione del contratto, ha ricordato che la prima precede logicamente la seconda e «tende alla ricostruzione del significato del contratto in conformità alla comune volontà dei contraenti», mentre la qualificazione «ha la funzione di stabilire quale sia la disciplina in concreto ad esso applicabile». Ciò premesso, la proposta ha messo in luce che le censure proposte dalla ricorrente «impingono nella prima delle due fasi predette ma sono inidonee a palesare evidenti errori nel ragionamento giuridico posto a base dell’attività propriamente qualificatoria svolta dal giudice di merito».
A fronte di tali argomentazioni, la parte ricorrente insiste nell’affermare che la sentenza impugnata avrebbe errato nella qualificazione del contratto intercorso tra le parti come coworking , mentre esso dovrebbe essere qualificato come locazione. Da tale
premessa la ricorrente trae la conclusione, come si è detto, per cui il contratto sarebbe nullo per mancato rispetto della forma scritta ad substantiam e per mancata registrazione, con conseguente suo diritto «ad ottenere la ripetizione delle somme ingiustamente versate».
La Corte osserva che il ricorso è inammissibile per due concorrenti ragioni.
In primo luogo, l’inammissibilità deriva dalla circostanza, evidenziata nella proposta di definizione anticipata, per cui il ricorso tende a sollecitare in questa sede un diverso e non consentito esame del merito, senza considerare che l’attività di interpretazione del contratto è attività tipica del giudice di merito, sicché resta preclusa alla parte la possibilità di chiedere al giudice di legittimità l’accoglimento di una diversa qualificazione giuridica del contratto, a sé più favorevole (v., tra le altre, le ordinanze 15 novembre 2017, n. 27136, e 3 luglio 2024, n. 18214).
In secondo luogo, occorre tenere presente che, ove anche, in ipotesi, il contratto intercorso tra le parti fosse una locazione, la pacifica e non contestata circostanza per cui la ricorrente ha goduto per un certo tempo di alcune parti di un immobile di proprietà della società RAGIONE_SOCIALE non consentirebbe comunque all’avv. COGNOME di non pagare alcun compenso per il godimento, dovendo in ogni caso essere versato il corrispettivo di cui all’art. 1591 cod. civ.; ne deriva che è dubbia anche la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, in capo alla ricorrente, all’accoglimento del ricorso qui in esame.
3. Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile.
Non occorre procedere alla liquidazione delle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.
La ricorrente, però, deve essere condannata, ai sensi degli artt. 380bis , terzo comma, e 96, quarto comma, cod. proc. civ., al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende.
Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento della somma di euro 1.500 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza