Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31126 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31126 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20774/2024 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME, rappresentata e difesa da ll’AVV_NOTAIO NOME COGNOME e con indicazione di elezione di domicilio digitale;
-controricorrente-
e
COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-controricorrenti- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di PERUGIA n. 525/2024, pubblicata l’ 1/08/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/11/2025 dal Consigliere NOME COGNOME NOME.
PREMESSO CHE
NOME COGNOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Spoleto il fratello NOME COGNOME e la madre NOME COGNOME.
Gli attori deducevano che il fratello NOME poco prima della morte del padre NOME COGNOME aveva ritirato dal conto cointestato con il medesimo, ma alimentato unicamente da proventi del padre, la somma di euro 579.203,84; che tali somme dovevano essere riconferite alla massa ereditaria; che costituiva donazione indiretta la concessione in godimento esclusivo alla madre di un immobile. Gli attori chiedevano, quindi, la divisione del compendio ereditario e la condanna del fratello ai conferimenti dovuti.
Si costituiva NOME COGNOME, rappresentando che due immobili dovevano essere espunti dalla massa ereditaria e, in relazione a questi, formulava domanda riconvenzionale di acquisto della proprietà per usucapione.
Si costituiva, altresì, COGNOME aderendo alla domanda di scioglimento della comunione e chiedendo l’assegnazione della propria quota di comproprietà, tenuto conto del proprio diritto di abitazione sulla casa coniugale.
Con sentenza non definitiva n. 474/2022 il Tribunale di Spoleto rigettava la domanda riconvenzionale di NOME COGNOME, accertava la consistenza della massa ereditaria e condannava il medesimo a riconferire alla massa euro 579.203,84, oltre interessi legali dalla domanda.
La causa veniva poi rimessa a ruolo per la decisione in merito alle altre domande.
La citata sentenza non definitiva veniva impugnata da NOME COGNOME e, con sentenza n. 525/2024, la Corte d’appello di Perugia respingeva il gravame.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME.
Hanno resistito con separati atti di controricorso, da un lato, NOME e NOME COGNOME e, dall’altro , lato NOME COGNOME.
Il Consigliere delegato dal Presidente della sezione seconda ha ritenuto che il ricorso fosse manifestamente infondato e ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis , comma 1 c.p.c.
Il ricorrente ha chiesto, ai sensi del comma 2 dell’art. 380 -bis c.p.c., la decisione del ricorso da parte del Collegio.
Memoria è stata depositata dal ricorrente e dai controricorrenti, che tra l’altro hanno chiesto la liquidazione delle spese del procedimento di sospensione della sentenza di primo grado e l’applicazione nei confronti del ricorrente delle sanzioni di cui all’art. 96, commi 3 e 4, c.p.c.
CONSIDERATO CHE
Il ricorso è articolato in otto motivi.
Il primo e il secondo motivo sono tra loro strettamente connessi:
il primo denuncia omesso esame degli atti di causa e dei motivi specifici del gravame, come illustrati peraltro anche nella comparsa conclusionale del 6/3/2024 e nella memoria di replica del 27/3/2024, ciò costituendo un error in procedendo comportante nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; si sostiene che il giudice d’appello si è limitato a considerare in maniera epidermica, senza alcun necessario approfondimento, i soli atti introduttivi, ossia l’atto d’appello e la comparsa di costituzione, quando invece aveva il dovere di un esame integrale degli atti di causa; ciò è avvenuto, in particolare, per il primo motivo d’appello che aveva evidenziato l’erroneità della decisione di primo grado, laddove aveva disposto la condanna dell’appellante al pagamento della somma asseritamente prelevata dal conto cointestato in maniera
illegittima; la Corte d’appello non ha considerato che i prelievi erano avvenuti prima della morte del de cuius , cosicché avevano avuto luogo in maniera lecita ed erano estranei alla massa ereditaria, come si era sviluppato nella comparsa conclusionale;
b) il secondo deduce violazione degli artt. 713 e 533 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.; si evidenzia che la statuizione dei giudici di merito, secondo cui i prelievi, anche se avvenuti prima della morte del de cuius , facevano parte della massa ereditaria, è manifestamente erronea in quanto l’erede può solo richiedere ciò che al momento della morte del de cuius risulti essere presente nella massa dei beni relitti; i giudici di merito hanno invece dato per scontato che quelle somme facessero parte della massa ereditaria da dividere.
1.1) I due motivi sono infondati.
Ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello nel confermare la sentenza di primo grado, che ha condannato il medesimo alla restituzione all’asse ereditario delle somme prelevate, non avrebbe considerato che i prelievi erano stati effettuati prima della morte del de cuius , così ponendosi in contrasto con l’orientamento di questa Corte, secondo il quale l’erede può reclamare soltanto i beni che, al tempo dell’apertura della successione, erano compresi nell’asse ereditario.
La questione, in realtà, è stata posta dal ricorrente soltanto con la comparsa conclusionale del giudizio d’appello. In ogni caso, si tratta di questione non prospettata nei corretti termini, che non incide sulla condanna formulata dai giudici di merito.
Come è stato precisato da questa Corte, è vero che con l’azione di petizione ereditaria l’erede può reclamare soltanto i beni nei quali è succeduto mortis causa , cosicché tale azione non può essere esperita per fare ricadere in successione somme di denaro di cui il de cuius abbia disposto prima della sua morte, ma nel caso in esame la ragione di credito riconosciuta in favore degli altri eredi è
scaturita in base all’accertamento compiuto dai giudici di merito -da operazioni poste in essere dal ricorrente in ragione della qualità di cointestatario dei conti, senza scaturire da un atto di disposizione posto in essere dal de cuius (cfr. al riguardo, in relazione ad un’analoga fattispecie, Cass. n. 20024/2020).
Il terzo e il quarto motivo sono tra loro strettamente connessi:
il terzo lamenta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e, per l’effetto, violazione dell’art. 1298 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.; in subordine il ricorrente censura che, nel pronunciarsi sul conto corrente cointestato n. 4586, sul quale era confluito quanto già giacente nel conto cointestato n. 1628, la Corte d’appello abbia ritenuto che le somme facenti parte del conto n. 4586 fossero di esclusiva proprietà di NOME COGNOME; si sostiene che la Corte d’appello si è basata sulla prova presuntiva, non considerando tutti gli elementi di fatto risultanti nel giudizio e non valutando se gli elementi fossero gravi, precisi e concordanti, come esige l’art. 2729 c.c.; era necessaria una valutazione non atomistica o parcellizzata delle singole circostanze, ma doveva essere posta in essere una valutazione unitaria e sintetica di tutte le circostanze;
il quarto denuncia nullità della sentenza ex art. 132, n. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., per motivazione apparente in quanto manifestamente illogica; laddove la Corte d’appello afferma che i versamenti sul conto corrente sarebbero stati relativi a somme di pertinenza esclusiva di NOME COGNOME, l’argomentazione è affetta dal vizio di apparenza della motivazione.
2.1) Anche questi motivi non sono meritevoli di accoglimento.
La Corte d’appello, con motivazione ampia e di sicuro non meramente apparente (vedere al riguardo le pronunce delle sezioni unite di questa Corte n. 8053 del 2014 e n. 8038 del 2018), ha argomentato come i versamenti più significativi del conto fossero
stati effettuati da NOME COGNOME, come pure fossero a lui riconducibili i versamenti mensili. La Corte territoriale ha sottolineato come, a fronte della pacifica circostanza della sussistenza e dell’ammontare dei prelievi effettuati dal ricorrente, il punto dirimente sia costituito dalla provenienza delle rimesse che sono confluite nel tempo sui due conti cointestati. Essa ha accertato che sul conto n. 1628 erano stati effettuati versamenti con ricevute sempre sottoscritte dal solo NOME COGNOME e che tali versamenti per lo più provenivano dallo svincolo del dossier titoli che è poi stato cointestato al figlio, ma di cui era titolare il solo de cuius , indizi dai quali il giudice di merito ha ricavato che le somme provenienti dal citato dossier fossero riconducibili ad NOME COGNOME; il giudice di appello ha, poi, ancora osservato che sul conto n. 4586 confluivano la pensione del de cuius , il rendimento dei titoli e tutti i canoni di locazione degli immobili di proprietà esclusiva di NOME COGNOME, cosicché da tali circostanze ha dedotto che tutte le rimesse effettuate sui due conti provenivano dal de cuius e ha ancora al riguardo fatto riferimento a specifici versamenti in contanti da parte di NOME COGNOME. La Corte d’appello ha , inoltre, osservato come NOME COGNOME disponesse di un conto proprio e come non fosse presente sui due conti nemmeno un versamento con ricevuta a firma del ricorrente, mentre tutti i versamenti recavano la firma di NOME COGNOME. A fronte della mancata prova di anche una sola rimessa di denaro da parte di NOME COGNOME, il giudice di merito ha ritenuto appunto che le risultanze istruttorie convergevano nel fare ritenere che tutte le somme presenti nei due conti fossero state versate dal padre, con superamento del la presunzione di contitolarità di cui all’art. 1298 c.c.
Il ragionamento della Corte di merito non si pone, quindi, in violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. Essa ha, infatti, analiticamente valutato gli elementi indiziari, ha considerato gli
elementi che, presi singolarmente, presentano una positività parziale di efficacia probatoria e ha poi complessivamente considerato i singoli elementi presuntivi, ritenendo che essi siano appunti gravi, precisi e concordanti e che la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva (sui caratteri del ragionamento presuntivo del giudice cfr. per tutte, 9059/2018 e, da ultimo, Cass. n. 8115/2025).
Il quinto e il sesto motivo sono tra loro strettamente connessi:
il quinto denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c. per travisamento della prova in ordine alle domande di usucapione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. , contestando quanto ritenuto dalla Corte d’appello secondo cui egli non avrebbe assolto all’onere della prova in ordine all’ animus possidendi nei riguardi dei due immobili, in quanto il godimento di entrambi sarebbe stato l’esito di una mera tolleranza da parte dei genitori; invece, l’avere modificato e ristrutturato l’immobile e l’averlo adibito ad uso proprio del ricorrente e della sua famiglia e all’esercizio della propria attività di ristorante-pizzeria costituiscono invece condotte significative del possesso uti dominus ; i giudici di merito non hanno tenuto conto del fatto che esso ricorrente e la propria famiglia erano andati ad abitare l’immobile sin dal 1997, che vi avevano eseguito lavori importanti come il rifacimento del tetto, avevano trasferito la propria residenza anagrafica e pagato le imposte e le utenze, avevano avuto l’uso e il possesso esclusivo delle chiavi; in relazione all’altro immobile, il giudice d’appello non ha considerato che era stato oggetto di notevoli interventi di trasformazione per destinarlo ad attività commerciale e che è stato più che provato il requisito del possesso ventennale;
b) il sesto prospetta la nullità della sentenza ex art. 132, n. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., per motivazione apparente quanto manifestamente illogica; si sostiene che in relazione alla statuizione relativa alle domande di
usucapione è comunque riscontrabile il vizio di cui al n. 4 dell’art. 132 c.p.c.
3.1) I motivi sono infondati.
La Corte d’appello, con motivazione adeguata e più che sufficiente, ha chiarito, in accordo con la giurisprudenza di questa Corte, che proprio lo stretto legame di parentela con il titolare fondava la ragionevole presunzione che i beni fossero stati concessi in godimento e perciò a titolo di detenzione, essendo quelle attività compatibili con la natura del potere di fatto esercitato dal ricorrente. Per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia, quindi, inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora, però, non sussistano tra le parti, come invece nel caso di specie, rapporti di parentela in base ai quali è legittimo dedurre l’esistenza di una mera detenzione (v. Cass. n. 11277/2015, Cass. n. 13443/2007 e Cass. n. 3255/2009). È in ogni caso rimessa al giudice di merito l’indagine volta a stabilire, alla stregua delle prove acquisite al processo, se determinate attività siano idonee a concretare situazioni tutelabili in sede possessoria, o non lo siano, per essere fondate su un titolo di natura personale e il relativo apprezzamento è censurabile solo per vizi di motivazione (v. Cass. n. 27521/2011). Era necessario, ai fini dell’usucapione, il compimento di atti di interversione, restando irrilevanti l’esercizio di facoltà tipiche del possesso, configurandosi una mera inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita o un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene, tali da non dar luogo al possesso (cfr., per tutte, Cass., n. 27411/2019).
Il settimo e l’ottavo motivo sono, anch’essi, tra loro strettamente connessi:
a) il settimo denuncia nullità della sentenza ex art. 132, n. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.; si rappresenta che, in relazione al motivo d’appello concernente la dazione da parte del de cuius di euro 280.000 a NOME COGNOME per l’acquisto di un appartamento a Spoleto, la Corte d’appello ne ha affermata l’inammissibilità e l’infondatezza, con l’adozione di statuizioni inconciliabili tra loro in quanto se il motivo è inammissibile non può essere infondato e se è infondato vuol dire che è ammissibile; in realtà, si sostiene che, in base al principio di non contestazione, doveva ritenersi provato l’assunto del ricorrente secondo cui il de cuius aveva dato al figlio NOME la somma di euro 280.000, che doveva essere oggetto di collazione; i giudici di merito sono incorsi in un equivoco nel ritenere che la contestazione invece vi sarebbe stata, in quanto la contestazione degli attori riguardava la diversa somma di euro 100.000 data dal padre al figlio NOME per la ristrutturazione di un fabbricato e per l’acquisto di concessioni di posti di vendita nei mercati, oltre che per un automezzo e suoi accessori per svolgere l’attività di ambulante;
b) l’ottavo denuncia violazione dell’art. 115, comma 1, c.p.c. per travisamento della prova, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.; la contestazione della dazione della somma di euro 280.000 non era riscontrabile nella memoria ex art. 183 c.p.c. di parte attrice, cosicché sia il Tribunale che la Corte d’appello sono incorsi in una erronea interpretazione, laddove hanno ritenuto che tale circostanza fosse stata specificamente contestata in quella memoria.
4.1) Pure questi motivi sono privi di fondamento.
La Corte d’appello, a fronte del motivo di gravame con il quale il ricorrente lamentava che il primo giudice avesse ritenuto non provata la dazione di euro 280.000 in favore del fratello NOME, ha anzitutto ritenuto che il motivo fosse inammissibile in quanto il
primo giudice ha ritenuto contestata la circostanza, avendola parte attrice esplicitamente confutata nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. e la ricostruzione del primo giudice non era stata specificamente censurata dall’appellante che si era limitato a reiterare la propria tesi. La Corte d’appello ha , poi, reputato in ogni caso -e quindi ad abundantiam -corretta la statuizione anche sotto il profilo di merito, dato che la dazione della somma di euro 280.000 era rimasta sfornita di prova. La pronuncia sul punto della Corte d’appello non è pertanto contraddittoria.
Quanto, invece, alla contestazione o meno della circostanza della dazione di denaro, va osservato che, ad avviso di questa Corte, l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d i una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione, insussistente nel caso di specie, anche in considerazione dei limiti imposti dal nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (cfr. al riguardo, per tutte, Cass. n. 27490/2019).
II. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo (in favore di ciascuna parte controricorrente), seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 380 -bis , ultimo comma, c.p.c., avendo il Collegio definito il giudizio in conformità alla proposta, trovano applicazione il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.
Devono, altresì, essere riconosciute ai controricorrenti le spese relative al procedimento ex art. 373 c.p.c., quantificate anch’esse direttamente in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore di NOME e NOME COGNOME, che liquida in euro 12.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge, e in favore di NOME COGNOME, che liquida in euro 12.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge;
condanna, inoltre, il ricorrente al pagamento in favore di NOME e NOME COGNOME di euro 6.000,00, ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., e in favore di NOME COGNOME di altri euro 6.000,00, sempre ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c., nonché al pagamento di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, ai sensi del comma 4 dell’art. 96 c.p.c.;
condanna, infine, il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 373 c.p.c., che liquida in euro 4.000,00 in favore di NOME e NOME COGNOME e in altri euro 4.000,00, in favore di NOME COGNOME.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda civile, in data 18 novembre 2025.
Il Presidente NOME COGNOME