Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9757 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9757 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7329/2022 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME domicili ata digitalmente come in atti
-ricorrente –
contro
NOME
-intimato – avverso la sentenza del la Corte d’appello di Lecce -Sezione Distaccata di Taranto – n. 1/2022, pubblicata in data 5 gennaio 2022 e notificata in data 10 gennaio 2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19
febbraio 2025 dal Consigliere dott.ssa NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME conveniva in giudizio il coniuge legalmente separato, NOME COGNOME chiedendone la condanna alla restituzione di euro 17.800,00, pari alla metà della somma complessivamente prelevata dal convenuto, in costanza di matrimonio, dal conto corrente cointestato (e a firma disgiunta), a mezzo di due bonifici, rispettivamente dell’importo di euro 30.000,00 e di euro 5.600,00, entrambi in data 11 dicembre 2012, e poi riversata su un conto personale senza il consenso dell’attrice.
A fronte delle difese svolte da NOME COGNOME che replicava che le somme versate negli anni sul conto cointestato (dal 2003 sino alla chiusura avvenuta nel 2015, come emergeva dagli estratti conto depositati) erano tutte di pertinenza esclusiva dello stesso, il Tribunale di Taranto accoglieva la domanda di ripetizione di indebito, ritenendo che il convenuto non avesse superato la presunzione iuris tantum di spettanza delle somme in pari quota che derivava dalla intestazione del conto corrente a due persone, in difetto di prova dell’appartenenza esclusiva al convenut o delle giacenze bancarie.
Proposto gravame, NOME COGNOME chiedeva l’ammissione di prova documentale, e, precisamente, di copia dell’assegno dell’importo di euro 51.000,00, dallo stesso tratto in data 8 maggio 2003 presso banca 121 all’ordine di Banca Fineco, evidenziando di essersi trovato nell’impossibilità di produrlo in primo grado per causa allo stesso non imputabile, in quanto pervenuto nella sua disponibilità solo in data 22 maggio 2019, pur avendo richiesto informative alla Banca Fineco già con e-mail del 10 ottobre 2014, nonché di copia di altro assegno dell’importo di euro 2.000,00, tratto in data 20 febbraio 2003 presso banca 121, come da distinta di versamento ricevuta da Banca Fineco
solo in data 4 giugno 2019, trattandosi di documenti decisivi per la valutazione della provenienza delle somme di cui si pretendeva la restituzione.
La Corte d’appello adita ha, in via preliminare, accolto la richiesta di acquisizione di nuova documentazione avanzata dall’appellante, ritenendo ricorrenti i presupposti di cui all’art. 345 cod. proc. civ., sul rilevo che ‹‹ solo in data 22.5.2019 ed in data 4.62019 ›› , il Tria era entrato nella disponibilità della copia dell’assegno tratto dal medesimo in data 8 maggio 2003 e della ricevuta di versamento, ‹‹ nonostante le richieste di informazioni di documentazione inoltrate alla Banca Fineco già nel 2014 e non riscontrate dalla medesima banca in tempo utile per rispettare i termini di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c., concessi nel corso del giudizio di primo grado ›› ; altresì precisando che tali documenti erano rilevanti, perché dimostravano come le somme di cui ai versamenti del 9 maggio 2003 e del 24 marzo 2003, emergenti dagli estratti conto prodotti nel giudizio di primo grado, provenissero da disposizioni dello stesso Tria sul proprio conto corrente esistente presso Banca 121.
Nel superare le contestazioni mosse dalla appellata con riferimento alle mail prodotte, la Corte di merito ha evidenziato che ‹‹ il tenore ampio della richiesta avanzata nel 2014 era espressione della generale esigenza di acquisizione della documentazione necessaria a comprovare la provenienza delle somme versate ›› e, con riferimento alla asserita non conformità all’originale della copia dell’assegno prodotto, ha escluso che la Russo avesse svolto una specifica deduzione con riguardo alla provenienza del versamento dell’importo di euro 51.000,00 e di quello di euro 2.000,00. Ha poi aggiunto che anche il versamento della somma di euro 19.000,00, eseguito in data 5 gennaio 2004, era stato erroneamente ritenuto, dal giudice di primo grado, di natura incerta, perché dall’estratto conto si
evinceva che lo stesso proveniva da ordine di bonifico effettuato dai genitori del COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME precisando che la COGNOME non aveva mai contestato la ricostruzione contabile emergente dagli estratti conto, né aveva provato la provenienza dal proprio patrimonio delle somme giacenti sul conto corrente cointestato, tanto che solo in sede di comparsa conclusionale aveva tardivamente dedotto che il versamento di euro 51.000,00, eseguito in data 9 maggio 2013, proveniva da regali di nozze elargiti da parenti ed amici.
La Corte, accogliendo l’appello e riformando la sentenza impugnata, ha, quindi, concluso che ‹‹ nel giudizio di primo grado il convenuto ha superato la presunzione di contitolarità delle giacenze accumulate sul conto ›› , di talché la domanda della Russo doveva essere rigettata.
Avverso la suddetta sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, sulla base di due motivi.
NOME COGNOME non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Il ricorso è stato avviato per la trattazione in adunanza camerale, in prossimità della quale la ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente denunzia ‹‹ violazione e/o falsa applicazione degli artt. 345 c.p.c. e 210 c.p.c., 115 e 116 c.p.c., con riferimento alla acquisizione di nuovi documenti in grado di appello, già nella disponibilità dell’odierno controricorrente, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ›› , per avere la Corte d’appello ritenuto ammissibile la produzione della copia dell’assegno bancario n. 003460537600 tratto su conto 121 all’ordine di Banca Fineco in data 8 maggio 2003 e del la distinta di versamento dell’assegno
0034605374-11, tratto il 20 febbraio 2003 presso Banca 121, nonostante la palese tardività della produzione dei documenti.
Rappresenta, al riguardo, che l’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado era stato notificato a NOME COGNOME il 16 febbraio 2017 e che, nel depositare l’atto, aveva prodotto la raccomandata del 4 aprile 2016, con cui aveva richiesto la restituzione delle somme prelevate dal Tria sul conto cointestato, la denuncia querela del 17 ottobre 2014, le contabili di prelievo ed i bonifici effettuati dal Tria; pertanto, quest’ultimo aveva avuto la possibilità, già dall’ottobre 2014 e sino al 12 settembre 2017, data in cui era spirato il termine ex art. 183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ., di richiedere ed ottenere la documentazione poi introdotta nel giudizio d’appello. Soggiunge che il Tria avrebbe potuto ‘dilatare i tempi della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ., invocando l’ammissione della ispezione di cui all’art. 210 c.p.c…’, e che in realtà in data 10 ottobre 2014 il Tria aveva inviato una mail alla banca Fineco chiedendo di poter contattare un promotore finanziario e, dopo avere saputo, in data 13 ottobre 2014, che questi non era più in servizio, con mail del 14 ottobre 2014 aveva chiesto alla stessa ricorrente indicazioni riguardanti il promotore; in data 18 aprile 2019 la Banca Fineco aveva fatto presente al Tria di non poter fornire alcuna documentazione, essendo trascorso il termine di dieci anni previsto per la conservazione degli atti in archivio, ma qualche tempo dopo la Banca aveva fornito la scansione dell’assegno.
Ribadisce, quindi, che la documentazione offerta in grado di appello avrebbe dovuto essere stralciata dal fascicolo.
1.1. La censura è inammissibile.
1.2. Va, preliminarmente, osservato che il giudizio di appello concerne una decisione di primo grado depositata in data 6 maggio 2019 e che, pertanto, trova applicazione l’attuale versione dell’art.
345 cod. proc. civ., come modificata dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, avendo questa Corte già stabilito che la modifica, in senso restrittivo rispetto alla produzione documentale in appello, di cui all’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., operata dal citato d.l., trova applicazione -mancando una disciplina transitoria e dovendosi ricorrere al principio tempus regit actum -solo se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della l. 134/2012, di conversione del d.l. n. 83/2012, e cioè dal giorno 11 settembre 2012 (Cass., sez. 2, 14/03/2017, n. 6590; Cass., sez. 2, 28/07/2021, n. 21606).
Questa Corte ha, altresì, chiarito che la formulazione dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. applicabile al caso in esame -a mente della quale ‹‹ non sono ammessi i nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile ›› -pone un divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l’‹‹ indispensabilità ›› degli stessi, e ferma restando per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (Cass., sez. 3, 09/11/2017, n. 26522; Cass., sez. 6 -3, 21/01/2021, n. 1109; Cass., sez. 1, 04/01/2024, n. 196; Cass., sez. 2, 24/10/2023, n. 29506; Cass., sez. 1, 12/06/2024, n. 16289; Cass., sez. 3, 27/07/2024, n. 21080).
1.3. La decisione impugnata risulta avere qualificato come ‘legittima’ la produzione, da parte dell’odiern o intimato, della documentazione bancaria in contestazione (assegno dell’importo di euro 51.000,00 tratto dal Tria in data 8 maggio 2003 presso Banca
121 e distinta di versamento di euro 2.000,00 eseguito in data 24 marzo 2003), all’esito della verifica della impossibilità per la parte di operare tale produzione tempestivamente nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
Difatti, la Corte territoriale ha accertato che, pur essendosi il Tria tempestivamente attivato per richiedere la documentazione già nel 2014, la Banca Fineco non aveva dato, a tale istanza, riscontro in tempo utile per consentire il deposito dei documenti nel rispetto dei termini perentori imposti dal sesto comma dell’art. 183 cod. proc. civ., così ritenendo raggiunta la prova che l’art. 345 cod. proc. civ. esige da chi chiede l’acquisizione di nuova documentazione in appello.
La odierna ricorrente contrappone al l’apprezzamento svolto dai giudici di appello una diversa ricostruzione della vicenda fattuale, adducendo che, diversamente da quanto sostenuto dal Tria nel l’atto di appello, la mail inviata nel 2014 alla Banca Fineco non era finalizzata ad ottenere la documentazione poi prodotta in appello, ma piuttosto ad acquisire informazioni necessarie per poter contattare un promotore finanziario (NOME COGNOME).
Ma la prospettazione difensiva di parte ricorrente non risulta rispettosa del l’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., perché la ricorrente omette di riportare in ricorso il contenuto degli atti del giudizio di merito sui quali si fonda la doglianza, limitandosi a meramente richiamarli, dovendosi qui ribadire che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo (per tutte: Cass., sez. L, 08/06/2016, n. 11738; Cass., sez. 6 -1, 25/09/2019, n. 23834), onde presume che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il
vizio processuale, così da consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (cfr. Cass., sez. 5, 30/09/2015, n. 19410).
Tale onere non risulta assolto dalla ricorrente che a pag. 9 del ricorso si limita a riportare, peraltro neppure per esteso, solo alcune frasi contenute nella pagina 5 dell’atto di appello, non ponendo in tal modo questa Corte nella condizione di poter adeguatamente valutare la doglianza svolta.
1.4. Parimenti inammissibile si appalesa la dedotta violazione dell’art. 210 cod. proc. civ., emergendo dalla stessa illustrazione del motivo che NOME COGNOME nel corso del giudizio di merito, non ha formulato istanza di esibizione, né il giudice di merito ha ordinato alla parte o al terzo di esibire in giudizio la documentazione, cosicché, sotto tale profilo, la censura difetta di specificità.
1.5. Il motivo non si sottrae alla declaratoria d’inammissibilità neppure là dove si contesta una (presunta) violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., perché non risponde ai paradigmi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 cod. proc. civ.; mentre la doglianza circa la violazione
dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., sez. U, 30/09/2020, n. 20867).
Il giudice d’appello non ha dato ingresso a prove diverse da quelle offerte dalle parti e la censura, sotto tale profilo, prospetta, in realtà, una inammissibile richiesta di rivalutazione delle risultanze probatorie, non consentita a questa Corte di legittimità.
Con il secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1298 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte ritenuto che la documentazione acquisita in appello consentisse di vincere la presunzione di cointeressenza del conto corrente e di ritenere giustificati i prelievi bancari effettuati dal Tria all’insaputa della ricorrente. La ricorrente, richiamando un precedente della Sezione tributaria di questa Corte (Cass. n. 25684/2021), sostiene che non può negarsi che i versamenti eseguiti, dal Tria, sul conto cointestato fossero connotati da animus donandi , dal momento che all’epoca i coniugi non erano ancora addivenuti alla separazione, e partendo da tale presupposto sostiene che, il Tria, pur potendo detenere
esclusivamente determinate somme, ‘ha preferit o farle confluire su conto cointestato per le finalità familiari cui entrambi i coniugi attendevano’; di conseguenza , la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere superata la presunzione di contitolarità delle giacenze accumulate sul conto.
2.1. La censura è inammissibile.
2.2. Deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 2, 04/01/2018, n. 77), nel conto corrente bancario intestato a due (o più) persone, i rapporti interni tra correntisti non sono regolati dall’art. 1854 cod. civ., riguardante i rapporti con la banca, bensì dall’art. 1298, secondo comma, cod. civ., in base al quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali, solo se non risulti diversamente; sicché, non solo si deve escludere, ove il saldo attivo derivi dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, che l’altro possa, nel rapporto interno, avanzare pretese su tale saldo, ma, ove anche non si ritenga superata la detta presunzione di parità delle quote, va altresì escluso che, nei rapporti interni, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, possa disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell’altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all’intero svolgimento del rapporto (conf. Cass., sez. L, 23/09/2015, n. 18777 che ha ritenuto superata la presunzione de qua , e ritenuta raggiunta la prova dell’esclusiva provenienza del denaro dall’attività professionale di uno dei coniugi cointestatari, dalla circostanza che l’altro coniuge, legalmente separato, fosse titolare di un conto corrente personale utilizzato per l’accredito dello stipendio ed il pagamento delle utenze).
Trattasi di una presunzione legale iuris tantum” (quale quella di cui all’articolo 1298, secondo comma, cod. civ.), poiché dà luogo
soltanto all’inversione dell’onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (Cass., sez. 1, 01/02/2000, n. 1087), ma che presuppone, perché possa ritenersi vinta, la dimostrazione non già che la materiale operazione di versamento sia stata effettuata solo da uno dei cointestatari, ma che la stessa abbia altresì avuto ad oggetto somme di pertinenza esclusiva di uno dei contitolari (Cass., sez. 2, 21/10/2021, n. 29324; Cass., sez. 2, 14/09/2022, n. 27069).
Orbene, la Corte d’appello, valorizzando sia la documentazione prodotta da NOME COGNOME in secondo grado sia la ricostruzione contabile emergente dagli estratti conto già prodotti in primo grado, ha reputato che l’odierno intimato avesse offerto la prova della pertinenza esclusiva delle somme oggetto dei versamenti effettuati alle date del 9 maggio e del 24 marzo 2003, avendo disposto di tali somme da un conto esclusivamente a lui intestato -quello presso Banca 121 – nonché di quello di euro 19.000,00 eseguito in data 5 gennaio 2004, perché riconducibile ad un ordine di bonifico effettuato dai genitori dello stesso COGNOME.
La censura in disamina non si confronta con l’accertamento svolto dai giudici di merito e con la ratio della decisione, ma si incentra piuttosto su una pretesa qualificazione dei versamenti, effettuati dal Tria, quali atti connotati da animus donandi. Manca, tuttavia, non solo l’allegazione dell’avvenuta deduzione della relativa questione dinanzi al giudice di merito, ma anche l’indicazione degli atti specifici dei gradi precedenti in cui quella è stata sottoposta al giudice di merito, onde dare modo a questa Corte -cui sono proposte questioni giuridiche che implicano accertamenti di fatto – di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. Ne segue che, in mancanza di ottemperanza ad un tale onere, è inevitabile una sanzione di inammissibilità per novità
della censura (tra le tante, Cass., sez. 6 -3, 10/08/2017, n. 19998; Cass., sez. 6 – 5, 13/12/2019, n. 32804).
3. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità, in ragione degli alterni esiti del giudizio di merito, vanno integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio del merito dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione