Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 31996 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 31996 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5968/2019 R.G. proposto da : COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE per procura speciale in calce al ricorso -ricorrente- contro
COMUNE di PARMA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE per procura speciale allegata al controricorso
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n. 8/2018 depositata il 03/01/2018; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06/11/2024
dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato in data 31/10/2006 NOME COGNOME convenne in giudizio il comune di Parma chiedendo accertarsi l’intervenuta prescrizione dell’azione e del diritto del Comune di ottenere il rimborso, a titolo di conguaglio, per i maggiori oneri espropriativi sostenuti in relazione a un terreno facente parte del comparto P.I.P. di INDIRIZZO che il Comune aveva ceduto all’attore con rogito del 10/03/1982 n.28889 a ministero del notaio dr. COGNOME. Nel suddetto rogito era inserita la clausola di cui all’art. 6 che prevedeva: ‘La parte acquirente dovrà rimborsare pro quota al Comune l’eventuale conguaglio che lo stesso dovrà versare ai precedenti proprietari delle aree PIP secondo quanto sarà dalla nuova legge sulle espropriazioni per pubblica utilità e secondo quanto previsto dall’art. 1 della legge 385/1980 contenente norme provvisorie sull’indennità di espropriazione di aree edificabili’. Il Comune di Parma, una volta esaurita la fase contenziosa con gli originari proprietari per la determinazione del corrispettivo a loro dovuto, con delibera di Giunta n.429 del 03/04/2006 procedette al riparto dei maggiori oneri espropriativi riconosciuti come dovuti in base alla legge medio tempore sopravvenuta per l’acquisizione delle aree costituenti il comparto P.I.P. di INDIRIZZO Sulla base della citata clausola contrattuale, che imponeva agli acquirenti ultimi di farsi carico di quegli stessi oneri, il Comune di Parma intimò al COGNOME con missiva del 08/05/2006 il pagamento della maggior somma di € 19.614,05,
relativa ai maggiori oneri espropriativi dovuti agli originari proprietari.
Il Tribunale di Parma, con sentenza n.399/2013 del 13/03/2013, all’esito dell’espletata C.T.U., rigettava la domanda dell’attore e lo condannava al pagamento in favore del Comune dell’importo di €53.220,97, così come determinato dal C.T.U., oltre interessi, compensando le spese di giudizio.
La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n.8/2018, pubblicata il 3-12018, ha rigettato l’appello proposto dal COGNOME avverso la suindicata sentenza del Tribunale, che è stata integralmente confermata. In particolare la Corte di merito: a) ha rigettato l’eccezione di prescrizione del diritto del Comune di Parma a rivalersi sui cessionari delle aree espropriate comprese nel piano PIP per il pagamento dei maggiori oneri espropriativi riconosciuti come dovuti e corrisposti agli originari proprietari espropriati delle aree, sul rilievo che il termine di prescrizione aveva iniziato a decorrere dalla data di effettivo pagamento da parte dell’Ente Locale del conguaglio ai soggetti espropriati; b) ha ritenuto le transazioni intervenute tra il Comune e i privati espropriati un mero fatto storico comprovante il pagamento dei maggiori oneri espropriativi, nonché di conseguenza ha ritenuto infondate le deduzioni dell’appellante circa l’inopponibilità delle transazioni e la violazione del principio di buona fede; c) ha ritenuto corretta la quantificazione del valore dell’area effettuata dal C.T.U., in base ai criteri di calcolo in dettaglio riportati nella sentenza, e non condivisibili le osservazioni del C.T.P. dell’appellante, confutate dal C.T.U. con l’integrazione peritale.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, resistito con controricorso dal Comune di Parma.
Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio. Le parti hanno depositato memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorrente denuncia, con il primo motivo, ai sensi dell’art.360 n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art.2935 c.c, anche con riferimento all’art.2946 c.c. e all’art.1 della Legge 385/1980 e all’art.6 del contratto di cessione n.28889 del 10/03/1982. Deduce che erroneamente la Corte di merito non ha dichiarato prescritta la pretesa del Comune di Parma a rivalersi sui cessionari delle aree espropriate per il pagamento dei maggiori oneri espropriativi riconosciuti come dovuti e corrisposti agli originari proprietari espropriati delle aree. Ad avviso del ricorrente il termine di prescrizione avrebbe dovuto decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n.223/1983, che ha stabilito i criteri generali per la determinazione della indennità definitiva di espropri, sicché solo da quella data era divenuto esigibile il conguaglio, e non invece, come ritenuto dalla Corte distrettuale, dall’effettivo pagamento da parte dell’Ente Locale del conguaglio ai soggetti espropriati.
Con il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 L.385/1980, nonché dell’art. 39 della L.2359/1865, anche con riferimento all’art.6 del contratto di cessione del 10/03/1982 n.28889 a ministero del notaio dr. COGNOME, e agli articoli 1304 e 1965 c. c. . Deduce che il Comune di Parma ha liquidato agli originari espropriati importi, a titolo di conguaglio, frutto di accordo privati e transattivi all’esito di contenziosi giudiziari di cui il ricorrente non era stato reso partecipe, e quindi a lui non opponibili, e comunque non confacenti ai criteri di accertamento fissati dalle norme di legge suindicate. Rimarca che l’obbligo di rimborso concerneva le indennità calcolate ex lege , mentre il ricorrente era stato ritenuto obbligato a pagare somme derivanti da un accordo transattivo, e sottolinea a tale riguardo il contenuto dell’art. 6 del rogito del
1982, che richiama le indennità calcolate dalla “nuova Legge sulle espropriazioni per pubblica utilità e secondo quanto previsto dall’art 1 della Legge 29.07.1980 n. 385”.
Con il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art.360 n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c. c., dell’art. 1 L.385/1980, nonché dell’art. 39 della L.2359/1865, anche con riferimento all’art. 6 del rogito di compravendita del 10/03/1982 n.28889 a ministero del notaio dr. COGNOME Espone il ricorrente che il Comune di Parma, rimasto inerte per circa 24 anni dalla conclusione del contratto di cessione e richiedendo il rimborso del conguaglio pagato agli espropriati con missiva del 06.04.2006, aveva violato il principio di buona fede contrattuale, omettendo la denuntiatio litis con gli espropriati e rendendosi gravemente inadempiente rispetto agli obblighi contrattualmente assunti. Rileva che non può darsi rilevanza alla maggior somma pagata in forza di accordo transattivo, non configurabile quale mero fatto storico.
4. Con il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art.360 n.5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio già oggetto di discussione tra le parti, che assume costituito dalla nuova documentazione prodotta dal ricorrente in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di gravame (sentenza del Tribunale di Parma n.612/2012 e relazione tecnica dell’ ing. COGNOME, dalla quale la Corte territoriale avrebbe dovuto evincere l’incongruità del conguaglio richiesto dal Comune al ricorrente, e per l’effetto disporre il rinnovo della C.T.U.. Deduce che la relativa deduzione era da ritenersi tempestiva in quanto configurabile come argomentazione difensiva e che la citata sentenza del Tribunale di Parma tra il Comune e altro soggetto aveva riguardato immobili identici, ma la valutazione del C.T.U., in quel giudizio, era stata pari alla metà di quella espletata nel presente. Lamenta l’omesso esame del fatto risultante dai documenti prodotti, di cui si era discusso all’udienza di precisazione delle conclusioni, mentre la
Corte di merito non ne ha dato conto in motivazione, e l’erroneità della C.T.U..
5. Il primo motivo è infondato.
Secondo l’orientamento di questa Corte a cui il Collegio intende dare continuità ( Cass. 20691/2016), in tema di edilizia popolare ed economica, il corrispettivo della concessione del diritto di superficie, previsto dall’art. 35, comma 8, della l. n. 865 del 1971, deve assicurare al comune la copertura dei costi di acquisizione delle aree destinate alla realizzazione dei piani e delle opere di urbanizzazione funzionali alla loro edificabilità. Ne consegue che, ove il proprietario del fondo espropriato si sia opposto alla stima, il diritto al predetto corrispettivo può essere fatto valere – ed inizia, quindi, a prescriversi a norma dell’art. 2935 c.c. -solo dal momento in cui la maggiore indennità di esproprio sia stata definitivamente determinata, con il passaggio in giudicato della relativa sentenza, ed effettivamente pagata da parte del Comune. E’ stato altresì precisato (Cass. 15973/2006) che ‘ Dichiarata, con sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 1983, la illegittimità costituzionale della legge 28 luglio 1980, n. 385 e delle successive leggi di proroga che avevano reintrodotto, in via provvisoria e salvo conguaglio, criteri di determinazione della indennità di espropriazione per pubblica utilità, analoghi a quelli previsti dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971, già dichiarati costituzionalmente illegittimi, quanto alle aree fabbricabili, con sentenza n. 5 del 1980, e rimasta regolata la liquidazione della indennità di esproprio prima delle innovazioni apportate dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992 dalle norme generali della legge 25 giugno 1865, n. 2359, le quali avevano riacquistato la loro originaria efficacia al Comune che, in epoca anteriore alla pubblicazione della sentenza n. 223 del 1983, avesse concesso ad una società il diritto di superficie su di un’area per la realizzazione di abitazioni di tipo economico e popolare, per
un corrispettivo pari all’iniziale costo di acquisizione, non può addebitarsi la inerzia nella nuova quantificazione del costo di acquisizione delle aree a seguito della sentenza medesima, e del conseguente conguaglio del prezzo della cessione volontaria spettante al proprietario, né nella offerta della relativa somma, con successiva richiesta di rimborso alla concessionaria, nella incertezza sulla effettiva richiesta del conguaglio. Pertanto, il termine prescrizionale del diritto del Comune di ottenere dalla società concessionaria il rimborso delle somme spettanti al proprietario espropriato comincia a decorrere solo dal momento dell’effettivo pagamento della indennità dovuta a quest’ultimo, come rideterminata a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 1983’ .
La Corte territoriale si è attenuta ai suddetti principi e correttamente ha rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dall’odierno ricorrente, sul rilievo che il termine di prescrizione aveva iniziato a decorrere dalla data di effettivo pagamento del conguaglio ai soggetti espropriati da parte del Comune.
A ciò si aggiunga che la Corte territoriale ha affermato che il contratto inter partes (art. 6) prevedeva il sorgere dell’obbligo di regresso soltanto dall’effettivo versamento e rispetto a detto assunto non si rinviene in ricorso una critica compiuta e pertinente. 6. I motivi secondo e terzo, da esaminare congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati e in parte inammissibili.
Le censure, con cui si denuncia la violazione degli artt. 1 L.385/1980, 39 della L.2359/1865, 6 del contratto di cessione, 1304, 1375 e 1965 c. c., non colgono nel segno, poiché la Corte di merito ha chiaramente spiegato di avere attribuito rilevanza alla transazione intervenuta tra il Comune e i privati espropriati solo ed esclusivamente come fatto storico comprovante l’effettivo pagamento del maggior onere espropriativo ai suddetti privati, escludendone, invece, ogni rilevanza vincolante in ordine al valore
dei beni ablati, che, infatti, è stato determinato mediante apposita C.T.U.. Inoltre la Corte di merito, proprio per rimarcare l’autonomia del decisum rispetto alla scelta del Comune di addivenire alla suddetta transazione, ha negato ogni riflesso, ai fini della quantificazione del dovuto, nei confronti dell’odierno ricorrente del pagamento ritardato del conguaglio agli espropriati, in termini di rivalutazione, interessi e spese di lite (pag. 6 della sentenza impugnata).
Alla luce di detta dirimente precisazione, all’evidenza i giudici di merito hanno utilizzato la transazione solo come prova di un dato fattuale (il pagamento di cui sopra, peraltro neppure minimamente contestato nella sua effettività dal COGNOME), alla stregua di una quietanza o ricevuta, senza prendere affatto in considerazione l’efficacia negoziale delle pattuizioni e tantomeno estenderla al rapporto obbligatorio tra l’odierno ricorrente e il Comune, il che determina la totale insussistenza delle violazioni di legge denunciate.
Le censure sono inammissibili nella parte in cui non si confrontano compiutamente con il decisum sul punto, atteso che vengono meramente riproposte le stesse difese oggetto dei motivi di appello.
Il quarto motivo è inammissibile.
Il ricorrente non espone compiutamente l’esatto contenuto della ‘nuova documentazione’ (relazione tecnica svolta in altro giudizio) che assume di aver prodotto all’udienza di precisazione delle conclusioni nel giudizio di appello, né specifica le ragioni della dedotta identità di caratteristiche dei beni oggetto dell’altro giudizio, sicché la censura difetta di autosufficienza e non consente la delibazione sulla decisività dei fatti in tesi risultanti da detta documentazione.
A ciò si aggiunga che non è configurabile il vizio di omesso esame di fatto decisivo ex art.360 comma 1 n.5 c.p.c. qualora si denunci
l’omesso esame di mere argomentazioni difensive, così qualificate le deduzioni di cui trattasi dallo stesso odierno ricorrente al fine di giustificarne la tempestività.
In conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, ove dovuto (Cass. S.U. 23535/2019).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 4.200,00, di cui €200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima sezione