Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 18294 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 18294 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19083/2019 R.G. proposto da:
NOME ALLEVAMENTI, GIA’ NOME RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonché contro
COGNOME NOME
-intimato –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 3038/2018 depositata il 19/12/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/06/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Fermo accoglieva la domanda di NOME COGNOME (attore in riassunzione quale erede di NOME COGNOME) nei confronti della RAGIONE_SOCIALE (allora RAGIONE_SOCIALE) e di NOME COGNOME e annullava, per conflitto di interessi, il contratto di compravendita immobiliare stipulato da NOME COGNOME (quale procuratore generale di NOME COGNOME) con la RAGIONE_SOCIALE, con condanna dei predetti al risarcimento del danno pari a € 4.740,00 oltre accessori; rigettava le altre domande proposte dai convenuti nei confronti della parte attrice e dei terzi chiamati.
RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME proponevano appello avverso la suddetta sentenza.
La Corte d ‘ Appello di Ancona accoglieva parzialmente l’appello e, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava gli appellanti in solido al risarcimento dei danni quantificati nel minor importo di € 3.720,00 , oltre rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT dal 31.07.2006 alla pubblicazione della sentenza, nonché interessi di legge dal 31.07.2006 al saldo sulla somma rivalutata anno per anno (sino alla pubblicazione) a favore di NOME COGNOME.
In primo luogo, quanto alla legittimazione di NOME COGNOME la Corte evidenziava che la sentenza impugnata non ricavava il
rapporto di filiazione in contestazione dalla documentazione irritualmente prodotta bensì dalle affermazioni riportate dagli allora convenuti nelle note autorizzate in data 12.12.2007 -nel procedimento cautelare in corso di causa – dove apertamente si leggeva che NOME COGNOME era il padre di NOME COGNOME. La linea motivazionale seguita dal giudice di prime cure non risentiva, pertanto, della irritualità della produzione documentale di cui si dolevano gli appellanti.
Quanto alla restituzione dell’importo di € 37.000,00 pari al corrispettivo della vendita, anche a titolo di arricchimento senza causa, la censura era infondata perché né la RAGIONE_SOCIALE né il RAGIONE_SOCIALE avevano domandato la restituzione di tale importo.
Quanto alla mancanza di una dichiarazione di successione di cui si chiedeva l’acquisizione presso l’agenzia delle Entrate ovvero la certificazione della mancata presentazione, la Corte evidenziava che la stessa rilevava soli a fini fiscali, mentre poteva comunque ritenersi sussistente un atto da cui presupporre un’accettazione tacita.
Quanto alla doglianza circa la mancata estromissione del procuratore generale e il difetto di legittimazione attiva di NOME COGNOME la Corte evidenziava che non vi era alcuna necessità di estromettere il procuratore generale (NOME COGNOME) non più presente in giudizio dopo il decesso del rappresentato (NOME COGNOME) e la prosecuzione da parte del suo erede nei confronti delle altre parti né, tanto meno, di proseguire il giudizio nei confronti del medesimo procuratore generale di un defunto. In proposito richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo cui “l’avvenuto e dichiarato decesso, in corso di processo, della
rappresentata, ha comunque comportato l’estinzione del mandato, ai sensi dell’art. 1722, n. 4, c.c., e della connessa procura, con conseguente esaurimento di ogni potere, sostanziale e, eventualmente, processuale ex art. 77 c.p.c., del mandatario procuratore, nonchè, conseguentemente, del subdelegato.
Le domande dell’attore non erano nuove ed erano contestazioni volte alla reiezione della domanda avversaria.
La Corte accoglieva parzialmente il motivo di appello relativo alla duplicazione della liquidazione delle spese del giudizio di primo grado.
I motivi avanzati dall’AVV_NOTAIO in proprio e relativi alla sottoscrizione della procura da parte dello RAGIONE_SOCIALE e alla mancata notifica della stessa unitamente all’atto di citazione erano infondati.
Infatti, quanto alla procura, risultava evidente la sottoscrizione da parte dello COGNOME in qualità di procuratore generale del NOME COGNOME, come espressamente indicato nel frontespizio della citazione e l’omessa notifica della procura generale era irrilevante in quanto la tempestiva produzione del documento in giudizio era sufficiente a fornire la prova del potere rappresentativo.
La Corte rigettava anche i restanti motivi relativi alla carenza di interesse e all’inammissibilità della domanda di revoca del mandato per genericità. Del pari inammissibile la censura relativa al rendiconto.
Infine, la Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado quanto alla sussistenza del conflitto di interessi e quanto al risarcimento del danno anche se in misura ridotta.
RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi di ricorso.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso
Parte ricorrente, con memoria depositata in prossimità dell’udienza , ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1 . Preliminarmente deve esaminarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso della società RAGIONE_SOCIALE per invalidità della procura conferita da uno solo dei due soci.
1.1 L ‘ eccezione è infondata. Dalla procura risulta, infatti, che NOME COGNOME è amministratrice e legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e, inoltre, la medesima procura è rilasciata anche da NOME COGNOME che è l’altro socio della medesima società.
1.1 Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione dell’art. 110 c.p.c. (360, co. 2, n. 3 c.p.c.). Inesistenza della legittimazione ad agire di NOME COGNOME ex art. 110 c.p.c. dopo il decesso dell’originario attore NOME COGNOME.
I ricorrenti avevano contestato alla udienza successiva alla costituzione di NOME COGNOME la sua qualità di unico erede e la sua legittimazione ad agire.
Questi, soltanto tardivamente, in uno alla memoria di replica, aveva depositato documenti diretti a provare questo aspetto, ma, data la tardiva produzione, essi non erano stati esaminati dal Tribunale il quale comunque dichiarava provata la filiazione in base alla dichiarazione resa dall’AVV_NOTAIO in una memoria autorizzata.
I ricorrenti lamentano che NOME COGNOME non abbia dimostrato di essere l’unico erede del padre NOME.
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione (360, co. 2, n. 5, c.p.c.).
La censura è ripetitiva della precedente sotto il profilo dell’omesso esame perché la corte territoriale non avrebbe esaminato il fatto contestato dai ricorrenti che NOME COGNOME non era l’unico erede dell’originario attore NOME COGNOME, fatto decisivo in quanto solo in presenza di tale prova NOME COGNOME sarebbe stato legittimato ad agire in modo solitario per la prosecuzione del giudizio.
2.1 I primi due motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
Il collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: Qualora si verifichi la morte della parte ed il processo venga riassunto da un soggetto che si qualifichi erede del “de cuius”, in qualità di figlio del medesimo, dimostrando la relazione familiare, pur senza specificare di quale tipo di successione si sia trattato e senza indicare in che modo sia avvenuta l’accettazione dell’eredità, l’atto di riassunzione, in quanto proveniente da un soggetto che si deve considerare certamente chiamato all’eredità quale che sia il tipo di successione, va considerato come atto di accettazione tacita dell’eredità e, quindi, idoneo a far considerare dimostrata la legittimazione alla riassunzione (Sez. 3, Sentenza n. 14081 del 01/07/2005, Rv. 582927 – 01).
Ciò premesso deve in primo luogo considerarsi che è incontestato che NOME COGNOME si è costituito in giudizio ex art. 302 c.p.c. espressamente qualificandosi come erede universale del padre NOME, deceduto. L’allegazione della qualità di figlio del de cuius si concretizza nella deduzione di un fatto che implica senza dubbio l’esistenza della qualità di chiamato all’eredità, trattandosi di soggetto legittimario. Ciò non dimostra ancora la qualità di erede che secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere dimostrata da colui che prende l’iniziativa di proseguire il processo ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.. Tale qualità, tuttavia, discende proprio dall’atto di costituzione che implica accettazione dell’eredità. Risulta dimostrato pertanto che NOME COGNOME chiamato all’eredità, con la costituzione ha acquistato la qualità di erede, avendo tacitamente accettato l’eredità.
A tal proposito deve darsi continuità al seguente principio di diritto. In caso di decesso della parte costituita in giudizio, la costituzione volontaria, per la prosecuzione dello stesso, da parte del coniuge o del figlio anche in assenza di spendita della qualità di erede può costituire, in relazione all’oggetto del giudizio e alle altre circostanze processuali, accettazione tacita dell’eredità ai sensi degli artt. 474 e 476 c.c., rilevante ai fini della prosecuzione del giudizio ex art 299 c.p.c. (Sez. L, Sentenza n. 12780 del 02/09/2003, Rv. 5664 70 -01, n ello stesso senso Cass. civ. n. 9672/1999).
Infine, è destituita di fondamento la tesi del ricorrente secondo cui il processo non era validamente proseguito perché non vi era prova che NOME COGNOME fosse l’unico erede.
La prova dell’esistenza di altri eredi, anche quando viene allegata nei confronti di colui che, a norma dell’art. 110 cod. proc. civ. prosegua il processo pendente nei confronti del suo dante causa a titolo universale, deve essere data non da chi si presenta come unico erede ma da chi sostiene la presenza di altri eredi (al fine di estendere ad essi il contraddittorio). Infatti, in caso di processo interrotto per morte di una parte, ai fini della ricostituzione del rapporto processuale è sufficiente l’atto di prosecuzione volontaria compiuto da alcuno soltanto degli eredi, salva la successiva integrazione del contraddittorio, ex art. 102 del c.p.c., 2° co., nei riguardi di eventuali altri eredi che non abbiano proseguito volontariamente il processo.
Infine, deve anche sottolinearsi che le norme che disciplinano l’interruzione del processo sono preordinate a tutela della parte colpita del relativo evento, con la conseguenza che difetta d’interesse l’altra parte a dolersi dell’irrituale continuazione del processo (Sez. II, sentenza n. 9672 del 11 settembre 1999).
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione dell’art. 342 c.p.c. (art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.). Specificità dell’appello relativo al capo della sentenza di primo grado che afferma l’esistenza del conflitto di interessi ex art. 1394 c.c. in ragione del rapporto coniugale tra rappresentante e socio/ amministratore dell’ente terzo acquirente del bene del rappresentato.
Sarebbe erronea la declaratoria di inammissibilità del motivo di appello relativo alla mancanza di conflitto di interessi. Infatti, nell’appello era stato individuato il “punto contestato” in relazione all’affermazione secondo cui il rapporto coniugale dà vita a conflitto di interessi e si era evidenziata la validità e efficacia del contratto
dal momento che il rappresentante non aveva legami con la società terza acquirente e dunque non aveva conseguito vantaggi dalla cessione del bene.
Del resto, prosegue il motivo di ricorso, anche la Corte d’Appello ha dato mostra di non essere del tutto convinta dalla c.d. “aspecificità” del motivo perché, sebbene abbia utilizzato questo sintagma, non ha tuttavia dichiarato (come avrebbe dovuto fare se si fosse effettivamente trattato di motivo non specifico) l’inammissibilità del motivo.
Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: – Violazione o falsa applicazione dell’art. 1394 c.c. (art. 360, co. t, n. 3 c.p.c.). Inesistenza del conflitto di interessi ex art. 1394 c.c. per mancanza dell’interesse del rappresentante che cede il bene del rappresentato alla società partecipata e amministrata dal proprio coniuge.
Secondo il ricorrente nella specie non ricorrerebbe alcun conflitto di interessi.
In tal senso, nel motivo si richiama la giurisprudenza secondo cui: qualora il rappresentante venda un bene del rappresentato, l’interesse del primo non discende dal semplice fatto che sia legato da vincoli familiari con i soci/rappresentanti della società acquirente, unico soggetto che trae vantaggio dal contratto (il quale solo in via “indiretta” beneficia il socio-legale rappresentante); di converso (come rilevato in motivazione dalla medesima Cass. n. 271/2017) in una fattispecie di questo tipo ai fini della configurabilità del conflitto è necessario che il rappresentante rivesta la posizione di “dominus effettivo” della società, elemento che invece non sarebbe ravvisabile.
4.1 Il terzo e il quarto motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono inammissibili.
4.2 Il terzo motivo è inammissibile come si evince già dalla lettura del motivo stesso oltre che di quello successivo. Infatti, il ricorrente si mostra consapevole che non vi è stata alcuna decisione di inammissibilità del motivo di appello tanto che, oltre ad affermarlo espressamente nel terzo motivo, con il successivo, contesta la motivazione della Corte d’Appello di rigetto nel merito per la sussistenza del conflitto di interesse ex art. 1394 c.c..
Di conseguenza, la censura proposta con il terzo motivo di violazione dell’art. 342 c.p.c. è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza che appunto non ha ritenuto inammissibile il motivo di appello proposto dal ricorrente in relazione all’erronea applicazione dell’art. 1394 c.c. bensì lo ha ritenuto infondato (pag. 8 della sentenza d’appello dove si riporta il sedicesimo motivo di appello e lo si dichiara infondato).
Il rilievo di aspecificità del motivo di appello era rivolto unicamente alla parte della motivazione con la quale la Corte d’Appello aveva evidenziato che , secondo il giudice di primo grado, il rapporto di coniugio era elemento sufficiente a determinare il conflitto di interesse stante le aspettative di ordine successorio, alimentare o soltanto assistenziale che derivano dal matrimonio poiché l’arricchimento del coniuge arreca benefici effetti alla famiglia a prescindere dal regime patrimoniale prescelto. Rispetto a tale argomentazione il COGNOME si era limitato, senza contrastarla, a ribadire di essere coniuge in regime di separazione legale con la
socia al 50% della RAGIONE_SOCIALE e di non aver ricevuto alcuna utilità come conseguenza del negozio in contestazione.
Peraltro, la Corte aggiunge nel prosieguo che la condotta del COGNOME di non avvertire tutti gli interessati della possibilità di vendita del cespite e di non aver svolto alcuna forma di pubblicità dell ‘ intenzione di alienare il bene era segno evidente del suo intento di evitare l’intervento di eventuali controinteressati all’acquisto.
Ad ogni modo la Corte ha complessivamente valutato il motivo di appello e lo ha ritenuto infondato perché le argomentazioni spese non consentivano di superare le specifiche argomentazioni del giudice di primo grado.
4.3 Il quarto motivo di ricorso è infondato perché la valutazione di merito sulla sussistenza del conflitto di interessi fondata su precisi elementi di fatto non è sindacabile in questa sede. La Corte ha ritenuto applicabile l’art. 1394 c.c. sulla base dei seguenti motivi: a) dal rapporto di coniugio tra rappresentante e socio-amministratore della società acquirente deriva sia l’interesse del rappresentante, sia la conoscenza/conoscibilità del conflitto da parte del terzo; b) il danno per il rappresentato è provato dal valore del bene che (pari ad € 200.000, stando alla perizia della banca Unicredit prodotta dalla difesa del rappresentato) risulta essere ben superiore al prezzo di cessione stabilito in € 37.000; c) il rappresentante è stato negligente per non aver esteso la trattativa ad altri potenziali acquirenti (Zecchini e COGNOME), per evitare che il bene fosse acquistato da soggetti differenti dalla società RAGIONE_SOCIALE.
In conclusione, non corrisponde alla decisione impugnata l’affermazione del ricorrente circa il fatto che la Corte d’Appello ha attribuito esclusivo rilievo al rapporto di coniugio tra il COGNOME e la
moglie amministratrice della società acquirente. Invece la decisione si è fondata sul complesso delle circostanze emerse nel corso dell’istruttoria e nessuna violazione dell’art. 1394 c.c. è riscontrabile.
Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: Violazione degli articoli 2056, 1223 e 2697 c.c. (art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.). Errore per aver reputato in re ipsa il danno da occupazione sine titulo quando, invece, il danneggiato è onerato di provarne l’effettiva ricorrenza quanto all’an e al quantum.
5.1 Il quinto motivo è manifestamente infondato.
Nella specie l’immobile illecitamente compravenduto dal COGNOME era occupato senza titolo dal COGNOME che corrispondeva al COGNOME l’equivalente di un canone mensile di € 60,00 come indennità di occupazione.
Di recente le Sezioni Unite hanno precisato che: In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato (Sez. U – , Sentenza n. 33645 del 15/11/2022, Rv. 666193 – 02).
La sentenza evidenzia che la COGNOME ha ottenuto la disponibilità dell’immobile dal settembre del 2006 (vedi la sentenza del Tribunale di Fermo del 21.03.2009 in atti); l ‘ ha poi perduta nel febbraio del 2008, a favore del COGNOME, per poi riottenerla nel giugno del 2009 (vedi il verbale di immissione in possesso). Immune da censure, pertanto è la sentenza nella parte in cui afferma che in tali periodi, il COGNOME non ha potuto locare a terzi
l’immobile a causa degli appellanti (vedi l’interesse comunque fattivamente dimostrato dal COGNOME) dunque la perdita subita è pari al valore locativo che, equitativamente, deve essere commisurato a quanto corrisposto per l’indennità di occupazione corrisposta dal COGNOME.
In conclusione, il danno risulta provato tanto sia nell’ an che nel quantum e la sentenza è immune dalle censure prospettate con il motivo in esame.
Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 5500, più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione