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Confessione complessa: la Cassazione chiarisce

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8768/2024, interviene su un caso di revocatoria fallimentare per chiarire i requisiti della contestazione in una confessione complessa. La curatela di una società fallita aveva agito contro i familiari del socio per revocare la cessione di un’azienda e di alcuni immobili. Il punto cruciale è stata la dichiarazione della figlia, che, pur ammettendo di non avere mezzi propri per l’acquisto, aveva aggiunto di aver ricevuto il denaro dalla nonna. La Corte ha stabilito che, per privare di piena prova una confessione complessa, la controparte deve contestare i fatti aggiunti in modo espresso e diretto, non essendo sufficiente la mera insistenza sulla domanda iniziale.

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Confessione complessa: la Cassazione stabilisce la necessità di una contestazione espressa

Con la recente ordinanza n. 8768/2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale della procedura civile: la confessione complessa e i suoi effetti probatori. La decisione chiarisce in modo definitivo che, per neutralizzare il valore di prova legale delle dichiarazioni aggiunte dal confitente, non basta una generica opposizione, ma è necessaria una contestazione esplicita e diretta. Analizziamo insieme il caso e la portata di questo importante principio.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine dall’azione legale intentata dal curatore del fallimento di una società in accomandita semplice. La curatela aveva citato in giudizio la moglie e la figlia del socio accomandatario fallito, chiedendo di dichiarare inefficaci una serie di atti dispositivi.
In particolare, l’azione mirava a:
1. Accertare la simulazione della cessione di un ramo d’azienda dal socio alla figlia, ritenendola una donazione e quindi inefficace ai sensi dell’art. 64 L. Fall.
2. Revocare, ex art. 67 L. Fall., il trasferimento della casa di abitazione e di due fondi commerciali dal socio alla moglie, avvenuto in sede di separazione consensuale.
3. Revocare, ex art. 66 L. Fall. e 2901 c.c., i successivi atti di compravendita dei medesimi immobili tra la moglie e la figlia.
4. Dichiarare inefficaci le ipoteche iscritte sugli immobili a garanzia di mutui concessi alla figlia per l’acquisto.

Le Decisioni dei Giudici di Merito

Il Tribunale di primo grado aveva accolto gran parte delle domande del Fallimento. La Corte d’Appello, invece, aveva parzialmente riformato la sentenza. Per quanto qui rileva, i giudici di secondo grado avevano confermato la natura gratuita della cessione d’azienda, svalutando la difesa della figlia. Quest’ultima, durante l’interrogatorio formale, aveva ammesso di non avere redditi propri per pagare il prezzo pattuito, aggiungendo però di aver ricevuto i soldi necessari in prestito dalla nonna. La Corte d’Appello aveva ritenuto che tale dichiarazione costituisse una confessione complessa, ma che la successiva insistenza del Fallimento nelle proprie conclusioni iniziali (volte a far dichiarare la gratuità dell’atto) fosse sufficiente a integrare la “contestazione” richiesta dall’art. 2734 c.c., rendendo così l’intera dichiarazione liberamente apprezzabile dal giudice.

La questione della confessione complessa in appello

La Corte territoriale aveva rigettato le domande di revocatoria relative alla casa familiare, ritenendo assente un danno per i creditori (eventus damni), poiché sull’immobile gravava un’ipoteca e la creditrice ipotecaria era stata interamente soddisfatta con il prezzo della vendita tra madre e figlia. Tuttavia, aveva accolto le revocatorie per i due fondi commerciali, ravvisando una sproporzione evidente negli accordi di separazione e la consapevolezza dello stato di insolvenza in capo ai familiari.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha dichiarato inammissibile il ricorso principale del Fallimento, ma ha accolto il primo motivo del ricorso incidentale proposto dalla figlia, proprio sulla questione della confessione complessa.

La Suprema Corte ha ribaltato l’interpretazione dei giudici d’appello, enunciando un principio di diritto di fondamentale importanza. Secondo l’art. 2734 c.c., quando alla dichiarazione su fatti sfavorevoli (confessione) si aggiungono altri fatti che ne limitano o estinguono l’efficacia, l’intera dichiarazione ha valore di piena prova se la controparte non contesta la verità dei fatti aggiunti. Se invece li contesta, il tutto è rimesso al libero apprezzamento del giudice.

Il Collegio ha chiarito che la contestazione non può essere implicita. Non è sufficiente che la controparte si limiti a ribadire le proprie conclusioni, anche se incompatibili con i fatti aggiunti dal confitente. La contestazione deve essere una condotta processuale attiva, espressa e diretta, con un contenuto oppositivo specifico rispetto alle dichiarazioni aggiunte. La Cassazione ha motivato questa interpretazione evidenziando che, nel processo civile moderno, l’udienza di precisazione delle conclusioni non consente più di modificare le domande. Pertanto, la mera riproposizione delle conclusioni iniziali è solo una manifestazione della volontà di non rinunciare alla propria domanda, e non può essere interpretata come una contestazione implicita di una prova emersa successivamente.

Questo orientamento supera un precedente risalente al 1978, allineando l’interpretazione dell’art. 2734 c.c. a quella, più rigorosa, formatasi in tema di onere di contestazione specifica dei fatti ai sensi dell’art. 115 c.p.c.

Le Conclusioni

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione. Quest’ultima dovrà riesaminare la questione attenendosi al seguente principio di diritto: “In caso di dichiarazioni aggiunte dal confitente alla confessione, ai sensi dell’art 2734 cod civ, la contestazione della controparte – che impedisce alle dichiarazioni del confitente di fare piena prova nella loro integrità e permette al giudice di apprezzarle liberamente – deve essere manifestata in modo espresso, non potendo invece risultare, in modo implicito, dalla mera richiesta, in sede di precisazione delle conclusioni, di accoglimento della domanda incompatibile con le predette dichiarazioni aggiunte”.

La decisione ha un’implicazione pratica notevole: impone alle parti processuali un onere di attenzione e reazione esplicita. Di fronte a una confessione complessa, la parte che intende neutralizzarne l’efficacia probatoria deve prendere posizione in modo chiaro e diretto sui fatti aggiunti, non potendo più fare affidamento su una contestazione presunta o implicita.

Cos’è una confessione complessa secondo l’art. 2734 c.c.?
È una dichiarazione con cui una parte ammette un fatto a sé sfavorevole (es. “non avevo i soldi per pagare”), ma vi aggiunge altri fatti che ne modificano o annullano gli effetti negativi (es. “ma li ho ricevuti in prestito da mia nonna”).

Come può una parte processuale contestare efficacemente una confessione complessa?
Secondo la Corte di Cassazione, la contestazione deve essere manifestata in modo espresso e diretto. Non è sufficiente insistere per l’accoglimento della propria domanda originaria, ma occorre prendere una posizione specifica e contraria rispetto ai fatti aggiunti dalla parte che ha confessato.

La semplice richiesta di accogliere la propria domanda, incompatibile con i fatti aggiunti nella confessione, vale come contestazione?
No. La Suprema Corte ha chiarito che questa condotta non integra la contestazione richiesta dalla legge. La richiesta di accoglimento della domanda è una semplice manifestazione della volontà di proseguire nel giudizio e non ha il contenuto oppositivo necessario per privare di piena efficacia probatoria la confessione complessa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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