Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 29169 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 29169 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/11/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16047/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOME;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 523/2020, depositata il 13/02/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del l’ 8/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
Sentito il Pubblico Ministero, il sostituto procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto di rigettare il ricorso.
Sentiti i difensori del ricorrente, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
Sentito il difensore della controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. La società RAGIONE_SOCIALE ha citato in giudizio NOME COGNOME, chiedendo al Tribunale di Varese di accertare la legittimità della risoluzione del contratto preliminare concluso con il convenuto e di condannare il medesimo alla restituzione degli acconti ricevuti e dei relativi interessi, nonché al rimborso pro quota delle spese sostenute. L’attrice ha dedotto di essere cessionaria del preliminare di compravendita, stipulato il 29 marzo 2005 dalla cedente RAGIONE_SOCIALE con COGNOME, con il quale quest’ultimo si er a impegnato a vendere a IRI un’area soggetta a un piano di lottizzazione. La clausola 3 del preliminare prevedeva che il contratto definitivo fosse condizionato all’approvazione del piano di lottizzazione da parte dell’amministrazione comunale, con stipula dell’atto di convenzione urbanistica; il preliminare prevedeva, altresì, la facoltà della promissaria acquirente di risolvere il contratto con suo diritto alla restituzione degli acconti versati, oltre a spese e interessi, nel caso di mancata adozione da parte del comune del piano attuativo entro trentasei mesi dalla stipula del preliminare. L’attrice deduceva, poi, che si erano verificati ritardi in relazione all’approvazione degli strumenti urbanistici e che, in tale situazione di stallo, continuata malgrado gli inviti al comune a comunicare la modalità di attuazione delle procedure, aveva deciso di risolvere il contratto preliminare. Il convenuto si è costituito, chiedendo di rigettare la domanda dell’attrice; in via riconvenzionale, ha domandato di pron unciare ai sensi dell’art. 2932 c.c. o, in subordine, di risolvere il contratto per inadempimento di RAGIONE_SOCIALE, in ogni caso con condanna di quest’ultima
al risarcimento del danno con diritto di COGNOME a trattenere la caparra confirmatoria.
Con la sentenza n. 46/2017 il Tribunale di Varese ha ritenuto fondate le domande dell’attrice, ritenendo legittima la comunicazione dell’avvenuta risoluzione del contratto preliminare da parte di RAGIONE_SOCIALE, e ha respinto le domande riconvenzionali fatte valere da COGNOME, quella di esecuzione del contratto preliminare, per non essersi verificata la condizione della adozione da parte del comune del piano di lottizzazione, e quella di risoluzione del contratto e di risarcimento dei danni in mancanza di inadempimento addebitabile a RAGIONE_SOCIALE. Il Tribunale ha quindi condannato COGNOME a restituire a RAGIONE_SOCIALE la somma di euro 387.346,62 (euro 375.548,40 a titolo di caparra confirmatoria e di acconti ed euro 11.798,22 a titolo di spese sostenute per l’esecuzione del contratto pr eliminare), oltre agli interessi; ha inoltre condannato COGNOME al pagamento di euro 5.000 per lite temeraria ai sensi dell’art. 96, comma 3 c.p.c.
La sentenza è stata impugnata da NOME COGNOME. Con la sentenza n. 523/2020 la Corte d’appello di Milano ha riformato la pronuncia impugnata solo in relazione alla condanna ex art. 96 c.p.c., che è stata annullata, e ha per il resto rigettato il gravame.
Avverso la sentenza d’appello ricorre per cassazione NOME COGNOME. Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
La controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in nove motivi.
Il primo motivo contesta ‘violazione di norme di diritto in relazione alla mancata istruttoria nel processo di primo grado, art. 360, n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c.’.
Il motivo, che ripropone la censura già sottoposta alla Corte d’appello e relativa al mancato svolgimento di attività istruttorie in primo grado, non può essere accolto. Come ha sottolineato la Corte d’appello, lo stesso ricorrente aveva chiesto la fissazione dell’udienza
di precisazione delle conclusioni (richiesta che comporta la rinuncia all’assunzione dei mezzi di prova richiesti, cfr. Cass. 10797/2018); d’altro canto l’appellante nel motivo di gravame non aveva ‘spiegato in alcun modo quale rilevanza avrebbe avuto l’as sunzione di mezzi di prova’ e se essi avrebbero potuto portare a un provvedimento di tenore diverso da quello impugnato. Gli argomenti del giudice d’appello vengono contestati dal ricorrente lamentando l’ ‘irriducibile contraddittorietà’ della pronuncia, c he ha ritenuto corretta la pronuncia di primo grado che non ha disposto l’assunzione delle prove e poi non ha considerato prova sufficiente i documenti depositati. Tale contraddittorietà invero non è ravvisabile perché una cosa è non disporre l’assunzione di mezzi di prova costituendi, che il ricorrente non deduce affatto di avere richiesto avendo d’altro canto il medesimo -secondo le sue stesse parole (pag. 15 del ricorso) -sostenuto che ‘il procedimento de quo fosse, come icto oculi evidente, di natura prettamente documentale’, un’altra cosa è la valutazione delle prove documentali presenti nel processo.
Il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e l’ottavo motivo sono tra loro strettamente connessi.
Il secondo motivo lamenta, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 27 della legge n. 166/2002 e dell’art. 12 della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, sulla responsabilità e sull’inadempimento contrattuale di RAGIONE_SOCIALE‘: la Corte d’appello non ha considerato che, in base alla legislazione richiamata, RAGIONE_SOCIALE era obbligata a essere parte attiva nei confronti dei proprietari dissenzienti, ivi costituendo un consorzio ad hoc che interagisse con il comune, che non avrebbe avuto, ex lege , alcun potere discrezionale né alcun ruolo attivo nella procedura.
Il terzo motivo contesta, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 27 della legge 166/2002 e 12 legge Regione Lombardia in riferimento alle percentuali del valore catastale dei terreni’: la Corte d’appello, co n violazione e falsa
applicazione delle norme sopra richiamate, sia regionali che nazionali, premette la necessità della partecipazione di tutti di proprietari al consorzio quando invece tale normativa prevede la percentuale minima del 51% del valore dell’imponibile catastale per integrare l’operatività giuridica delle norme sopracitate e, ancora, non ha approfondito la documentazione prodotta dalla quale si evince che RAGIONE_SOCIALE aveva il controllo sulla quasi totalità dei terreni posti in ARE1 fin dall’anno 2005, anno nel quale fu stipulato il contratto preliminare d’acquisto.
C) Il quarto motivo denuncia, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 2082 e seguenti c.c., e cosiddetto rischio d’impresa’: la Corte d’appello non considera che il contratto preliminare aveva per oggetto solo i terreni presenti in ARE1 e quindi solo per tale area ha efficacia vincolante; attribuire d’altro canto la responsabilità del mancato avveramento della condizione a COGNOME significa fare assumere a quest’ultimo il cosiddetto rischio d’impresa che non potrà invece che ricadere sull’imprenditore RAGIONE_SOCIALE.
D) Il quinto motivo lamenta, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione di norma di diritto in relazione agli atti di pianificazione urbanistica a mezzo di programmi integrati di intervento ovvero relativamente alle istanze ex artt. 91 e 92 della legge della Regione Lombardia, inerzia di RAGIONE_SOCIALE in riferimento alla legge urbanistica’: la Corte d’appello non ha saputo cogliere altri elementi essenziali, relativi all’evidente inerzia di controparte sia sotto il profilo della violazione della normativa urbanistica, sia sotto l’aspetto dell’inadempimento contrattuale; la Corte d’appello non considera che il contratto preliminare è stato stipulato il 29 marzo 2005 e che quindi sono trascorsi ben quattro anni nei quali controparte è rimasta del tutto inerte senza che provvedesse in applicazione della normativa vigente ad attivarsi in consorzio,
iniziando una trattativa con il comune e approntando le procedure di esproprio.
E) Il sesto motivo contesta, ai sensi del n. 3 e del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 27 della legge 166 del 2002 e 12 della legge della Regione Lombardia, omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti, errore di fatto che ha causato errore di giudizio’: vi è contraddittorietà tra due assunti della sentenza; da un lato infatti la Corte d’appello afferma che sarebbero mancate le maggioranze per procedere con l’operazione urbanistica e dall’altro lato accerta come corretta l’attività di controparte di proposizione del piano di intervento integrato; delle due l’una, o non c’erano le maggioranze e allora era inutile tenere in piedi il preliminare e presentare il progetto di piano di intervento integrato oppure le maggioranze c’erano e controparte avrebbe dovuto presentare tale progetto di piano di intervento integrato, che è stato presentato nell’anno 2009.
F) L’ottavo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, della legge 166/2002 e dell’art. 1359 c.c.: gli strumenti di pianificazione e attuazione urbanistica non sono semplici atti amministrativi, ma sono atti amministrativi a iniziativa privata, iniziativa che nel caso di specie spettava alla promissaria acquirente; posta l’accertata sussistenza in capo ad essa delle maggioranze necessarie per procedere con l’intervento urbanistico, deve eccepirsi come controparte non abbia posto in essere alcuna delle attività di sollecitazione e promozione rispetto all’emanazione degli strumenti urbanistici.
I motivi sono infondati. Il giudice d’appello, confermando la decisione di primo grado, ha reputato fondata la domanda dell’attrice RAGIONE_SOCIALE di accertamento della legittimità dell’avvenuta risoluzione stragiudiziale del contratto preliminare, in quanto ha ritenuto, riprendendo gli argomenti del primo giudice, che legittimamente
RAGIONE_SOCIALE si sia avvalsa della condizione risolutiva di cui alla clausola n. 7 del contratto preliminare, anche considerato il decorso di un arco temporale di molto superiore a quello pattuito (quasi dieci anni rispetto ai trentasei mesi indicati nella calusola) e la non contestata mancata verificazione dell’evento, ancora del tutto futuro e incerto sia nell’ an che nel quando alla data della comunicazione della risoluzione. Il giudice d’appello, anche qui confermando la decisione del primo giudice, ha poi escluso che il mancato verificarsi della condizione risolutiva sia dipeso da inadempimento di RAGIONE_SOCIALE e ciò sulla base di una duplice considerazione. Anzitutto dalle clausole del contratto preliminare si ricava come le parti avessero convenuto che la formazione del piano di lottizzazione -alla cui approvazione da parte dell’amministrazione comunale era subordinata la vendita e quindi la stipula del rogito (clausola n. 3) -non dipendesse ‘in alcun modo dalla volontà della parte acquirente’, in quanto ‘solo la cronologica e progressiva realizzazione dei vari e complessi passaggi preliminari a totale carico della pubblica amministrazione e dell’ente gestore degli impianti di elettrodotto potranno costituire i presupposti minimi necessari e indispensabili all’avvio di qualsiasi attività a carattere urbanistico edilizia’ (così la clausola n. 6). Inoltre, i giudici di merito hanno accertato che non si possono ascrivere ‘negligenze o lentezze a RAGIONE_SOCIALE‘, che al contrario ha nel corso degli anni depositato proposte di fattibilità e esortato il Comune, sollecitato i proprietari delle aree non promosse in vendita e anche cercato di acquisire tali terreni (cfr. le pagg. 19 e 20 della sentenza impugnata).
Rispetto a tali argomenti, i motivi -invocando diversi parametri dell’art. 360 c.p.c. e la violazione di differenti disposizioni normative -sostengono l’inadempimento di RAGIONE_SOCIALE, che non avrebbe costituito il consorzio che era obbligata a costituire e non avrebbe svolto adeguate attività di sollecito e accelerazione dell’opera di interramento e dell’iter amministrativo funzionale all’adozione del
piano urbanistico attuativo. Si tratta, nella sostanza, da un lato di una inammissibile richiesta a questa Corte di legittimità di una diversa valutazione degli elementi di prova considerati dai giudici di merito e dall’altro lato di una lettura della vice nda che prescinde da quanto stabilito tra le parti con le clausole del contratto preliminare. In particolare in relazione alla mancata costituzione del consorzio, per la quale il ricorrente sostiene che RAGIONE_SOCIALE aveva il controllo del 51% del valore imponibile catastale dell’area 1, va osservato come tale rilievo prescinda dalla considerazione -sottolineata dal giudice d’appello che il comune aveva subordinato la stipulazione della convenzione urbanistica al fatto che il progetto fosse unico per tutte le are e (non solo l’ARE 1, ma anche l’ARE 2, l’ARE 3 e l’ARE 4), come emerge dalla stessa premessa (punto 3) del contratto preliminare (v. al riguardo pag. 17 della sentenza di primo grado).
Riguardo alla legittimità della risoluzione stragiudiziale da pare di RAGIONE_SOCIALE, va evidenziato che la Corte d’appello ha correttamente interpretato, sulla base delle modalità stabilite dalle parti per il regolamento del rapporto, il significato della clausola n. 7 del contratto preliminare come contenente una condizione risolutiva, e tale accertamento costituisce un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito. Altrettanto convincentemente la Corte d’appello ha ritenuto sussistente il mancato avveramento dell’evento dedotto in condizione, e lo stabilire se la condizione debba considerarsi avverata implica parimenti un giudizio di mero fatto, da compiersi attraverso la valutazione delle risultanze di causa, il cui esito è insindacabile in sede di legittimità. Deve invero convenirsi che con riguardo, come nella specie, al preliminare di vendita di un terreno la clausola che ne preveda la risoluzione, in caso di mancata approvazione dalle competenti autorità comunali di un progetto di lottizzazione, è da qualificare proprio come condizione risolutiva, la quale postula che le parti subordinino la risoluzione del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro ed incerto, il cui verificarsi
priva di effetti il negozio ab origine (cfr. in tal senso Cass. n. 9550/2018 e n. 20854/2014).
3. Il settimo motivo contesta, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 1342 c.c. e della disciplina del codice del consumo ex artt. 33 e seguenti d.lgs. 206 del 2005’: è pacifico che il contratto è stato stipulato tra un professionista e un consumatore e, in quanto tale, è quindi soggetto alla normativa del codice del consumo in tema di clausole vessatorie e della loro specifica approvazione per iscritto, in aggiunta alle disposizioni del codice civile; non vi è dubbio che le clausole n. 7 e n. 9 del preliminare di compravendita siano vessatorie, dato che attribuiscono unilateralmente al promissario acquirente il potere di avvalersi delle condizioni risolutive ivi contenute.
Il motivo è infondato. Infondato è il riferimento alla normativa del codice del consumo. Se è vero che questa Corte afferma che ‘gli artt. 33 e ss. del codice del consumo sono applicabili anche a un contratto preliminare di compravendita di bene immobile’ (Cass. n. 497/2021), occorre considerare che il contratto di vendita considerato dal codice del consumo è ‘qualsiasi contratto in base al quale il professionista trasferisce o si impegna a trasferire la proprietà di beni al consumatore’ (art. 45, lettera e ] del codice del consumo), mentre nel nostro caso a invocare la tutela del consumatore è il promittente venditore. Quanto invece alla normativa generale, va ricordato che le clausole vessatorie sono collegate alle condizioni generali di contratto di cui all’art. 1341 c.c., cioè schemi contrattuali uniformi utilizzati dalle imprese che offrono beni e servizi a una serie indeterminata di persone e che dunque non possono stipulare singoli contratti sulla base di trattative individuali. Secondo l’orientamento di questa Corte, perché sussista l’obbligo della specifica approvazione per iscritto di cui all’art. 1341 c.c., non basta che uno dei contraenti abbia predisposto l’intero contenuto del contratto, ma è altresì necessario che lo schema sia stato
predisposto e le condizioni generali siano state fissate per servire a una serie indefinita di rapporti sia dal punto di vista sostanziale, sia dal punto di vista formale; non necessitano di una specifica approvazione scritta le clausole contrattuali elaborate in previsione e con riferimento a un singolo specifico negozio da uno dei contraenti cui l’altro possa richiedere di apportare le necessarie modifiche. La Corte d’appello ha accertato che tale non può considerarsi il contratto preliminare di compravendita immobiliare oggetto di scrutinio, in quanto, anche a ritenere che sia stato predisposto da uno dei contraenti, si tratta comunque di un contratto frutto di una trattativa, come si evince dalla clausola 11 del medesimo, ove si legge che il prezzo era stato consensualmente fissato dalle parti. Si tratta di un motivato accertamento in fatto del giudice di merito che si pone in conformità con l’orientamento di questa Corte (si veda Cass. n. 15385/2000, che sottolinea come da consolidata giurisprudenza di questa Corte la disciplina di cui all’art. 1341 c.c. non trova applicazione quando il negozio risulti concluso mediante trattative intercorse tra le parti, il cui riscontro oggettivo può trarsi dal testo del contratto; si veda anche Cass. n. 26333/2011, per la quale la stessa finalizzazione di più contratti alla realizzazione di un’opera specifica esclude che ci si possa trovare in presenza di contratti riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 1342 c.c. e meritevoli della tutela di cui all’art. 1341, secondo comma, c.c., mancando l’estremo della predisposizione del regolamento per la disciplina di una serie indefinita di rapporti).
4. Il nono motivo denuncia, ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 25 Cost., il principio del giudice naturale precostituito per legge’: in appello, dopo l’udienza relativa alla istanza di sospensione della esecutività della pronuncia del Tribunale, è stata mutata la composizione del collegio, restando immutato il solo presidente.
Il motivo è infondato. Il ricorrente confonde tra la garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, che va riferita alla competenza dell’organo giudiziario nel suo complesso, impersonalmente considerato, e non incide sulla concreta composizione dell’organo giudicante (v. per tutte Cass. n. 12969/2004), e il principio di immutabilità del giudice codificato all’art. 276, comma 1 c.p.c. Tale principio, secondo cui alla deliberazione della decisione possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione, va interpretato nel senso che i giudici che deliberano la sentenza devono essere gli stessi innanzi ai quali sono state precisate le conclusioni. In grado d’appello, pertanto, il collegio che delibera la decisione deve essere composto dagli stessi giudici dinanzi ai quali è stata compiuta l’ultima attività processuale, cioè la discussione o la precisazione delle conclusioni (cfr. Cass. n. 15660/2020), ma non certo il medesimo collegio che si è pronunciato sulla sospensione della esecutività della sentenza di primo grado (v. al riguardo Cass. n. 14781/2010).
II. Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si d à atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente, che liquida in euro 15.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi dopo la pubblica udienza, l’8 maggio 2025.
L’Estensore La Presidente
NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME