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Condizione potestativa: no compenso se non si avvera

Un architetto non ha ottenuto il pagamento del suo compenso, subordinato in un accordo alla vendita di un immobile o all’approvazione di un piano di lottizzazione. La Corte d’Appello ha stabilito che si trattava di una “condizione potestativa”, il cui mancato avveramento non era imputabile a mala fede della proprietaria. La scelta della cliente di non vendere è stata ritenuta una legittima valutazione di convenienza, pertanto nessuna somma era dovuta. L’appello dell’architetto è stato respinto.

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Condizione Potestativa e Compenso Professionale: Quando la Volontà del Cliente Incide sul Pagamento

Quando un professionista accetta che il proprio compenso sia legato a un evento futuro, come la vendita di un immobile, si assume un rischio. Ma cosa succede se quell’evento dipende proprio dalla volontà del cliente? Una recente sentenza della Corte d’Appello di Venezia affronta il tema della condizione potestativa, chiarendo i confini tra il legittimo interesse del cliente e l’obbligo di agire in buona fede verso il professionista.

I Fatti di Causa: Un Accordo Complesso

La vicenda ha origine da un incarico professionale conferito a un architetto nel 1991 per l’urbanizzazione di un vasto terreno. Dopo anni di lavoro e una controversia, le parti raggiungono un accordo transattivo nel 2009. L’accordo prevede un compenso totale di 120.000 euro per l’architetto: 20.000 euro vengono versati subito, mentre il saldo di 100.000 euro è subordinato al verificarsi di uno tra due eventi futuri:

1. L’incasso da parte della proprietaria della prima rata del prezzo di vendita del terreno.
2. Il sesto mese successivo all’approvazione del piano di lottizzazione.

Nessuno dei due eventi si verifica. Il piano di lottizzazione non viene approvato e, nonostante alcune trattative, il terreno non viene venduto. L’architetto, ritenendo che il mancato avveramento delle condizioni fosse colpa della proprietaria, decide di agire in giudizio per ottenere il pagamento del saldo.

La Decisione del Tribunale e i Motivi d’Appello

Il Tribunale di primo grado respinge la domanda dell’architetto. I giudici qualificano le clausole come condizioni sospensive e non come semplici termini di pagamento. Ritengono inoltre che non vi fosse prova di un comportamento contrario a buona fede da parte della proprietaria che avesse impedito la vendita o l’approvazione del piano.

L’architetto propone appello, sostenendo che la proprietaria avesse agito in modo negligente e che la sua inerzia avesse causato il mancato pagamento. Durante il giudizio d’appello, l’architetto introduce un nuovo fatto: la proprietaria aveva finalmente venduto l’immobile dopo la sentenza di primo grado, sostenendo che ciò rendesse ora esigibile il suo credito.

Analisi della Corte sulla condizione potestativa

La Corte d’Appello rigetta l’appello, confermando la decisione precedente. In primo luogo, dichiara inammissibile la nuova argomentazione basata sulla vendita avvenuta dopo la prima sentenza, poiché costituisce una “domanda nuova” vietata in appello (art. 345 c.p.c.). Il processo di secondo grado serve a rivedere la decisione impugnata, non a giudicare fatti nuovi.

Nel merito, la Corte si concentra sulla natura degli eventi dedotti in contratto. Essendo eventi futuri e incerti (la vendita e l’approvazione del piano non erano garantite), essi costituiscono a tutti gli effetti delle condizioni sospensive e non dei termini.

Le Motivazioni: Perché la Condizione Potestativa Non Comporta un Obbligo di Pagamento

Il cuore della decisione risiede nella qualificazione della clausola sulla vendita come condizione potestativa. La Corte spiega che si ha una condizione potestativa quando il suo verificarsi dipende dalla volontà di una delle parti, ma questa volontà non è frutto di mero arbitrio, bensì di una ponderata valutazione di interessi. La scelta della proprietaria di accettare o rifiutare un’offerta di acquisto rientra proprio in questa categoria.

La Corte chiarisce che attribuire alla parte un margine di discrezionalità (vendere o non vendere a un certo prezzo) è incompatibile con il sanzionarla successivamente per aver esercitato tale discrezionalità. La proprietaria ha ritenuto le offerte di acquisto non convenienti, esercitando legittimamente il suo diritto. Questo non può essere considerato un comportamento contrario a buona fede volto a danneggiare l’architetto.

Di conseguenza, non è applicabile la “finzione di avveramento” prevista dall’art. 1359 c.c., secondo cui una condizione si considera avverata se è mancata per causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario al suo avveramento. Per attivare questa finzione, è necessaria la prova di un comportamento doloso o colposo, specificamente finalizzato a impedire l’evento, prova che nel caso di specie non è stata fornita. Anche la mancata presentazione del piano di lottizzazione non era imputabile unicamente alla proprietaria, ma a disaccordi tra tutti i proprietari del comparto edilizio.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche per Professionisti e Clienti

Questa sentenza offre importanti lezioni per i professionisti i cui compensi sono legati a risultati futuri. Subordinare il pagamento a un evento che dipende, anche solo in parte, dalla volontà del cliente introduce un significativo elemento di rischio contrattuale. La decisione di un cliente di vendere, acquistare o procedere con un progetto è influenzata da valutazioni di opportunità e convenienza che sono, per loro natura, discrezionali.

Per tutelarsi, i professionisti dovrebbero cercare di definire nei contratti clausole più oggettive possibili o prevedere compensi intermedi per le fasi di lavoro completate, indipendentemente dall’esito finale. Per i clienti, la sentenza conferma la legittimità delle loro scelte commerciali, purché non siano dettate da un intento palesemente ostruzionistico e contrario alla buona fede.

Se il compenso di un professionista è legato a una condizione che dipende dalla volontà del cliente (es. vendere una casa), il cliente è sempre obbligato a farla avverare?
No. Secondo la sentenza, se si tratta di una “condizione potestativa”, il cliente ha un margine di discrezionalità per valutare la convenienza dell’affare. Non è obbligato a concludere un’operazione che non ritiene vantaggiosa, e il suo rifiuto non comporta automaticamente il dovere di pagare il professionista, a meno che non si provi che ha agito in malafede con lo scopo specifico di non pagare il compenso.

Cosa si intende per “condizione potestativa” in un contratto?
È una condizione il cui verificarsi dipende dalla volontà di una delle parti. Tuttavia, a differenza della condizione “meramente potestativa” (che dipende dal mero arbitrio e rende nullo il contratto), la scelta della parte è legata a una valutazione di interessi seri e ponderati. Nel caso analizzato, la scelta di vendere o meno un immobile è stata considerata una condizione potestativa.

È possibile modificare la base della propria richiesta legale quando si passa dal primo grado di giudizio all’appello?
No, di regola non è possibile. La sentenza ribadisce il divieto di “domande nuove” in appello (art. 345 c.p.c.). L’appello serve a riesaminare la decisione del primo giudice sulla base dei fatti e delle ragioni giuridiche già presentate. Introdurre un fatto nuovo e determinante (come l’avvenuta vendita dell’immobile dopo la prima sentenza) per fondare la propria pretesa costituisce una modifica della “causa petendi” (la ragione della richiesta), che è inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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